Se fosse davvero vecchio, come fa credere spacciandosi per ottantenne, forse non apprezzerebbe di stare sul crinale, luogo da giovani dal quale, notoriamente, si può precipitare. In Romagna dicono: “Stavamo per annegare, ma come ci siamo divertiti”. Ecco, Andrea Cresti è irridente. Il fatto che ogni anno potrebbe essere l’ultimo stuzzica la sua mente di regista. In questo caso “colui” al quale la dea potrebbe tagliare il filo è il Teatro povero di Monticchiello, una delle più originali, riuscite e longeve manifestazioni di quasi utopia realizzata. Giorgio Strehler lo definì autodramma e da allora la compagnia scrive sotto ai titoli degli spettacoli: “Autodramma ideato, scritto e realizzato dalla gente di Monticchiello”.

Anni Sessanta, Val d’Orcia. A Monticchiello, vicino alla ideale e idealizzata Pienza, ovvero il pensiero rinascimentale fatto architettura, la mezzadria che per secoli aveva caratterizzato l’esistenza del borgo va eclissandosi: lavoro, cultura, tradizioni scompaiono in velocità e la popolazione si dimezza. Eppure, quei contadini che non vogliono più vergognarsi di essere contadini, che non si vedono mummie sconfitte dalla contemporaneità, s’inventano una resistenza particolare: il teatro in piazza. In un villaggio dove non c’è nemmeno un teatro, nasce un progetto sociale e culturale inedito per conservare l’identità e trovare una ragione di vita.

Nei primi spettacoli, fino al 1969, si comincia subito con il ribadire la capacità di opporsi agli attacchi che nel corso della storia hanno messo in pericolo la piccola comunità per esempio le invasioni degli eserciti stranieri. Negli stessi anni si definisce la metodologia di costruzione drammaturgica che è partecipata: l’assemblea dei monticchiellesi e dei membri della compagnia si confronta per mesi, dialoga con un gruppo ristretto eletto all’interno e incaricato di trasformare in proposte teatrali le suggestioni che sgorgano da quei lunghi incontri. Ogni spettacolo va in scena per una stagione sola, ogni estate con più repliche per accontentare il pubblico. Il recupero dell’identità sociale e culturale contadina balza al centro del progetto, senza la minima glorificazione, e il rapporto tra attore e personaggio è speciale: alcuni interpretano se stessi, parlando con gli spettatori. Non professionisti, senza formazione scolastica, gli interpreti si avvalgono delle modalità espressive delle antiche tradizioni orali molto diffuse nella zona. Nel 1980 nasce la Cooperativa del Teatro povero di Monticchiello che si occupa anche della gestione di attività sociali e assistenziali per la comunità. C’è da portare una medicina a un malato? Ci pensa la cooperativa.

Ricordiamo tre pilastri del Teatro povero: per la stesura dei copioni Mario Guidotti, sociologo della letteratura e giornalista, che si autodefiniva “Il notaio di Monticchiello”; Arnaldo Della Giovampaola, il regista che dette forma agli spettacoli degli anni Settanta e che per primo trovò risposte ai problemi posti dalla messinscena nelle piazze delle piazze del borgo e don Vasco Neri, parroco intellettuale con una solida preparazione sociologica.

Dal 1981 è Andrea Cresti, uno dei fondatori dell’esperienza, il titolare di tutte le regie del Teatro povero. Lo spettacolo di quest’edizione (la numero 49, dal 25 luglio al 15 agosto 2015 alle 21,30 in piazza della Commenda, eccetto il 27 luglio) si chiama Il paese che manca. Con un divertimento grafico sulla locandina la p di paese è da coppia di gemelli siamesi: minuscola a indicare Monticchiello, il paese, e maiuscola a indicare l’Italia, il Paese. Mancano tutti e due i paesi: il piccolo perché si festeggia il compleanno di Gigino, l’ultimo ventenne, il grande perché… non c’è bisogno di dirlo, basta viverci e uno lo sa.

Tutto prende avvio da una riflessione sull’andarsene, spiega la gente di Monticchiello nella presentazione del copione del Paese che manca: “Compleanno ma forse anche festa d‘addio, per un’ennesima partenza cui non si danno molte alternative. I più anziani, le generazioni precedenti, non hanno questa possibilità: troppo difficile per loro andarsene. Dovranno dunque assistere allo smantellamento degli ultimi baluardi sociali che ancora testimonierebbero la presenza di una società: l’ufficio postale, la scuola, i servizi… Ma che cosa significa davvero partire? E’ una condanna o una possibilità? Una resa o una reazione? Oppure soltanto un gioco del destino?”.

Lo spettacolo risponderà alla domanda o ne porrà altre? Di sicuro lo storico ristorante del Teatro povero, aperto prima, durante e dopo lo spettacolo, risponderà con i pici, la pasta fatta a mano più conosciuta della Val d’Orcia. Un motivo valido per restare.