Dopo il successo di The Tarot Album, il mago dell'Oud torna con il suo terzo album, registrato in analogico con un gruppo di straordinari talenti. Un ponte tra jazz e Medioriente, ispirato ai cento anni dalla Grande Guerra. "La musica che mi sforzo di proporre è figlia di questi tempi, è contemporanea nelle tematiche e nelle sonorità, è una musica fatta di migrazioni sonore: sono convinto che timbriche, strumenti e aspetti teorici distanti che coabitano possano essere lo specchio di un società in cui gli scambi e i flussi di genti non siano interpretati come un problema, o peggio ancora come un pericolo, ma come un patrimonio fondamentale per la condivisione e la comprensione del mondo". Instancabile alfiere del dialogo tra culture musicali, Elias Nardi torna a tre anni di distanza dal fortunato The Tarot Album: Flowers Of Fragility è un felice manifesto di connessioni strumentali arricchito dall'estro di un gruppo di stelle, composto da Daniele Di Bonaventura, Didier François, Nazanin Piri-Niri e Carlo La Manna.

Dopo il successo di un disco che interpretava il jazz contemporaneo calato nella world music senza disdegnare influenze progressive, Elias Nardi rilancia la propria visione di "cantastorie strumentale": se nel cd precedente erano protagonisti i Tarocchi, ora Nardi prende spunto dalle sue visite nei cimiteri di guerra delle Fiandre Occidentali, in occasione dei cento anni dalla Grande Guerra, e presenta un album ricco, compatto, figlio di una grande immaginazione musicale. "Flowers of Fragility prosegue nella direzione di quella ricerca 'contaminata' cominciata alcuni anni fa, con lo scopo di avvicinarci sempre più all'obiettivo di NON appartenere a un genere di facile catalogazione, ma di essere nel nostro piccolo un piccolo genere. E' un lavoro dalla personalità forte, con uno sviluppo armonico più consistente, la ricerca della finezza classica e la sperimentazione, per la prima volta in un mio disco la totale assenza di percussioni, ampi spazi con strutture complesse e cambi di tempo, ma tutto il materiale scorre fluidamente nonostante l’eterogeneità dei pezzi".

Nato a Pistoia nel 1979, Elias Nardi è un musicista aperto come pochi agli scambi culturali e artistici: allievo del virtuoso palestinese Adel Salameh, ha collaborato con Ares Tavolazzi, Riccardo Tesi, Max Manfredi e molti altri. Dopo Orange Tree (2010) e The Tarot Album (2012), in Flowers Of Fragility rilancia il dialogo tra jazz e musica tradizionale coinvolgendo nella scrittura i quattro colleghi, ognuno con le proprie peculiarità. Di Bonaventura, François, Piri e La Manna hanno storie e collaborazioni assai differenti: con Elias incarnano in pieno l'idea di "ponte tra culture" che è alla base della musica dell'autore toscano, e in particolare di questo album, arricchito da testi del poeta Luca Buonaguidi e del musicologo Paolo Scarnecchia. Studioso di musica araba e mediterranea, Nardi possiede un'inconfondibile tecnica all'oud, strumento dalle "enormi possibilità espressive anche in contesti diversi, le cui qualità timbriche metto al servizio di uno sviluppo musicale e di concetto che lo avvicini alla musica occidentale. Questo è quello che sto cercando di fare io: sono un musicista Europeo e seppur mi sia nutrito tantissimo di suoni e studi mediorientali, scrivo musica principalmente europea sfruttando uno strumento che però non è nato in Europa e non fa parte della sua imponente tradizione classica, pur essendo l’antico padre del nostro Liuto. Questo è il modo che ho scelto per far coesistere i due mondi".

Flowers Of Fragility è stato inciso su nastro magnetico negli studi audiofili della Analogy Records; dopo l'esperienza con Zone Di Musica, Nardi entra in Visage Music, etichetta nota per i lavori di Riccardo Tesi, distribuita da Materiali Sonori. Disponibile in cd e in download su tutte le piattaforme digitali (ma anche in bobina - reel to teel master tape - sugli store Analogy), Flowers Of Fragility è stato presentato in anteprima dal vivo tra Italia, Germania e Belgio, e il tour prosegue con nuovi concerti all'estero. E ora intervistiamo Elia Nardi su Flowers Of Fragility.

Dopo il successo di The Tarot Album arriva un tuo nuovo disco, il terzo da solista. Cerchiamo di inquadrarlo subito: quali sono le differenze dai precedenti?

La prima differenza che salta fin da subito all’orecchio è sicuramente quella del suono. Non soltanto nei termini che concernono la qualità del suono stesso, ma anche per il ritorno a sonorità acustiche e ad atmosfere rarefatte che forse timbricamente avvicinano questo disco più al primo Orange Tree che a The Tarot Album, dove l’elettronica aveva una presenza importante e con una spiccata predilezione per la ricerca affine al prog e alla psichedelia. In Flowers of Fragility la ricerca timbrica ponderata sul suono acustico dei singoli strumenti e sull’impasto sonoro che si veniva a creare è stata fondamentale per la sua resa come album. Per quanto riguarda i preziosi “attrezzi” del mestiere, c’è l’ingresso nel gruppo dell’intenso e ispiratissimo bandoneon di Daniele Di Bonaventura e l’altrettanto ispirato flauto traverso di Nazanin Piri-Niri, che rappresentano due consistenti elementi di novità. Il resto della band ricompone poi il trio melodico originale di Orange Tree con il ritorno di Didier François alla Viola d’Amore a Chiavi (Nyckelharpa) e il mio fedele compagno di scrittura e viaggi sonori Carlo La Manna, il quale oltre al sound unico del suo Fretless, introduce qui anche un uso del basso a 6 corde personalissimo e, ritengo, pieno di gusto. In termini compositivi credo che il disco stia su un altro livello rispetto ai precedenti. C’è uno sviluppo armonico più consistente ma il solito grande spazio dato all’aspetto tematico. C’è ancora la presenza di alcune mini-suite “a la prog” con strutture complesse e cambi di tempo, ma si è cercato anche di condensare la scrittura in modo tale che tutto il materiale potesse scorrere fluidamente dal primo all’ultimo minuto come un amalgama omogeneo nonostante l’eterogeneità dei pezzi. C’è il gusto per la ricerca della finezza classica ma anche la sperimentazione estrema figlia della contemporaneità. Da non sottovalutare la totale assenza, per la prima volta in un mio lavoro, di qualsivoglia strumento percussivo e ritmico: tutti i groove all’interno del disco (e ce ne sono… ) sono pilotati dal basso e spesso anche dal mio oud. Flowers of Fragility prosegue nella direzione di quella ricerca “contaminata” cominciata alcuni anni fa, prima ancora del mio primo album: per quanto non sia ancora terminata, questa ricerca passo dopo passo ci sta portando verso il raggiungimento di quel sound distintivo e riconoscibile fin dalle prime note di un brano, con lo scopo di avvicinarci sempre più all’obiettivo finale di NON appartenere a un genere di facile catalogazione, ma di essere nel nostro piccolo un piccolo genere.

Dopo lo spunto dei tarocchi, un altro elemento "extra musicale": i Cento anni dalla Grande Guerra e i Cimiteri di guerra delle Fiandre... Raccontaci tutto.

Questo lavoro trova il fondamento, il suo seme, nelle idee del pittore fiammingo e nostro grande amico Pol Bonduelle, con il quale da alcuni anni portiamo avanti un’importante collaborazione artistica. Pol è colui che da sempre cura ogni mia copertina in toto, dal quadro che ne rappresenta la front cover fino a tutto il progetto grafico. Proprio durante un tour in Belgio nell’autunno del 2014, con questa formazione al completo e in occasione delle ricorrenze per i Cento anni dalla Grande Guerra, cominciano a prendere forma alcune delle nuove idee che poi si svilupperanno in Flowers of Fragility. Tra una data e l’altra del tour Pol ci ha invitato a visitare alcuni dei numerosi e impressionanti cimiteri di Guerra delle Fiandre Occidentali, ben nota zona di confine e tra i più cruenti fronti di battaglia del primo conflitto mondiale. Questi luoghi, oggi pieni di pace e di quiete, con prati curati e fragili fiori ad accompagnare migliaia di nomi e lapidi, rappresentano una sorta di museo a cielo aperto per la nostra memoria. È stato veramente toccante vedere che tra quelle decine di migliaia di soldati di tutte le età, c’erano anche “bambini” di appena 13 anni, ragazzi provenienti da ogni angolo di Europa così come dagli altri continenti che hanno perduto per sempre la loro fanciullezza prima ancora delle loro vite. Ci siamo trovati a porre la nostra attenzione su questo importante anniversario cercando di trarne ispirazione, anche se alla fine tutte le energie che fluiscono nella nostra musica vengono da molte direzioni. C’è da aggiungere anche che i meravigliosi versi del caro amico e poeta Luca Buonaguidi, composti appositamente per il booklet di Flowers, donano un'ulteriore dimensione lirica al lavoro.

La tua scrittura e i tuoi progetti hanno spesso queste implicazioni concettuali, ti senti uno "strumentista cantastorie"?

Beh non ci avevo mai pensato... Al di là dell’aspetto concettuale devo ammettere che alla mia musica è sempre stata associata per qualche ragione una certa dimensione evocativa, se fatta di “immagini” o di storie questo credo che sia molto soggettivo. Generalmente penso che un musicista debba sempre trovare ispirazione nella quotidianità e farsi influenzare dall’esterno tanto quanto dalla propria ricerca interiore. Che si tratti di stati d’animo, di attualità o di storie dell’umanità, di racconti o poesie, dei dipinti piuttosto che di un’interazione con un’altra forma d’arte, o anche “semplicemente” della natura stessa, per me tutto è buono e utile a fornire “argomenti” sonori. Il lavoro di concetto per un compositore strumentista è comunque importante per contribuire a dare un senso omogeneo alla propria scrittura.

La tua musica è da sempre un ideale ponte tra culture, quella jazz euroamericana e quella mediorientale: in un periodo delicato come questo, con le nuove migrazioni al centro delle cronache e dell'agire politico, che ruolo assume una musica che cerca di far dialogare culture differenti?

In parole povere la musica concepita in questo album deriva dall'incontro di cinque musicisti, le loro anime e i loro strumenti, ognuno proveniente da percorsi musicali differenti e da mondi culturali soltanto apparentemente distanti tra loro. Lo scopo ben preciso è quello di creare, come dici tu, un ponte sonoro ideale tra la culture, per di più senza farci grossi problemi nell’andare oltre quelle che sono le linee di confine tra i generi. Nazanin è nata in Iran ma cresciuta in Germania e ha una formazione classica come pianista e flautista; Didier viene dal Belgio, e anche lui ha dei background sia nel mondo della classica che del jazz e della musica contemporanea; io ho affrontato per anni lo studio e l’interpretazione dei repertori tradizionali del Medioriente ma formandomi prima come musicista “europeo” con studi classici e jazz; Daniele, che è un musicista di fama internazionale e suona il bandoneon (strumento nato in Germania per accompagnare la musica ecclesiastica quasi come una sorta di sostituto “povero” dell’organo ecclesiastico, ma divenuto d’uso comune in Argentina con il tango e reso celebre a livello mondiale da Astor Piazzolla) ha pure lui studi di composizione classica alle spalle e sta sviluppando il suo successo nel mondo del jazz e non solo; infine Carlo con il suo sound dal carattere unico è un musicista aperto alle sperimentazioni a 360° gradi.

Come si vede partiamo fin già dalla base con una predisposizione alla contaminazione. Perciò così come credo che l’artista debba farsi influenzare da ciò che lo circonda, allo stesso modo ha il dovere di comunicare con l’esterno e farsi trovare pronto ad essere portatore sano di un “messaggio” o se non altro stimolare uno spunto di riflessione. Da sempre i compositori si confrontano e cercano il dialogo con l’esterno. Mi viene da pensare ad esempio a come la musica di inizio ‘900, dall’ultimo Mahler alla seconda scuola viennese da Schoenberg in poi, fosse influenzata da quelle che erano le tensioni della società, quelle lacerazioni che hanno poi portato negli anni e nei decenni a due guerre mondiali, e che se vogliamo in un certo qual modo erano già presenti sotto forma di presagio in quella ricerca che era sonora e umana allo stesso tempo. Oggi i tempi sono sicuramente migliorati per noi europei ma il mondo, se lo guardiamo distaccandoci dal nostro eurocentrismo, non sta per niente bene e le cronache quotidiane non mancano di fornire spunti che ce lo dimostrino. Per quello che mi riguarda la musica che mi sforzo di proporre è figlia di questi tempi, è contemporanea nelle tematiche e nelle sonorità, è una musica fatta di migrazioni sonore, convinto che timbriche, strumenti e anche aspetti teorici distanti che coabitano possano essere lo specchio di un società in cui gli scambi e i flussi di genti non siano interpretati come un problema o peggio ancora come un pericolo, ma siano un patrimonio, fondamentale per la condivisione e la comprensione del mondo stesso.

Flowers ti vede in azione con una band nuova di zecca: che apporto hanno dato i musicisti che ti affiancano in questo album?

Gli innesti nuovi sono quelli di Daniele e Nazanin, mentre con Didier avevamo già lavorato su Orange Tree. Carlo è il mio fratello in musica da molti anni ormai e abbiamo lavorati a numerosi progetti. Per quanto riguarda l’apporto dei miei compagni sonori devo dire che è stato determinante sotto tutti i punti di vista. Con Nazanin, che è anche la mia compagna, abbiamo condiviso molte scelte e momenti che hanno portato alla realizzazione del disco e la sua presenza dalla prima nota fino alla scelta della cover è stata preziosa. Con Carlo abbiamo composto come al solito buona parte dei brani a quattro mani, mentre Daniele e Didier in aggiunta ai loro magnifici suoni e ai loro soli profondi ed ispirati hanno portato una composizione a testa ed elargito idee e suggerimenti. Quindi la condivisione del progetto è stata totale e ciò che più che mi gratifica è vedere che in poco tempo tutti i musicisti con cui collaboriamo riescono ad entrare completamente nell’idea di musica e di suono che cerco di conseguire.

Che rapporto c'è tra la scrittura e l'improvvisazione in questo album?

Entrambi gli elementi sono importanti, anche se ritengo di andare verso una direzione in cui la composizione e la forma abbiano la precedenza. L’improvvisazione è altresì molto presente ma sempre funzionale alla natura del brano e alla sua struttura. Quindi pochissimo “tema-assolo-tema” per intenderci, domina la tendenza che sia l’improvvisazione a essere al servizio della composizione e non viceversa.

Una peculiarità di Flowers è la registrazione, un'incisione analogica con Robbo Vigo: cosa ha significato per te lavorare su nastro, come ai vecchi tempi?

L’idea di lavorare in analogico era qualcosa che ci stimolava da tempo, poi il caso ha voluto che il mio amico e grandissimo jazzista Max De Aloe, avesse da poco registrato un disco per la neonata Analogy Records di Robbo Vigo, a Genova. Conoscevo già Robbo col quale avevo avuto modo di lavorare anni fa e quindi il passo è stato breve. Robbo ha apprezzato il materiale che gli abbiamo sottoposto e quindi il disco è stato prodotto proprio dalla Analogy, un’etichetta per il mercato audiofilo su nastro magnetico, che produce i propri artisti direttamente nel proprio studio, distribuendone direttamente il master prodotto su bobina, il Reel To Reel Master Tape. Ovviamente questo porta a raggiungere la massima qualità di riproduzione possibile. Devo dire che a parte la poetica che sta dietro alla filosofia dell’analogico e la poesia del suono analogico, il lavoro per noi non ha comportato stravolgimenti. Abbiamo registrato tutto il materiale in 2 giorni e mezzo e l’energia era così bella, serena ed intensa tra di noi che alla fine eravamo completamente assorbiti solo dalla nostra stessa musica. La resa acustica finale dell’album è notevole: i bei suoni già in ripresa, il lavoro di Robbo in sede di mix e la pasta sonora scaturita dall’uso del nastro hanno portato la qualità di questa registrazione a livelli altissimi, elemento di cui sono molto soddisfatto.

Prima l’Elias Nardi Quartet, ora l’Elias Nardi Group, ma tu hai anche altre collaborazioni: qual è la differenza tra l’oud di Elias nelle proprie opere e in quelle di altri musicisti?

Sono sempre lo stesso “io” assieme al mio amato oud, sicuramente. Paradossalmente nelle altre collaborazioni, sia discografiche che live, tendo ad avere uno spazio quasi maggiormente solistico che non nei miei dischi, dove forse prediligo concentrarmi sull’aspetto compositivo lasciando molto spazio alla band. Per il resto, visto “da dentro”, credo che il mio suono e il mio modo di suonare sia sempre lo stesso… ma forse “da dentro” si ha una visione solo parziale, o no?

Nelle liner notes Paolo Scarnecchia analizza bene la posizione storico-musicale di quell’oud che, vedendo molte tue foto dal vivo, stringi quasi abbracciandolo: quali sono le potenzialità di questo strumento, qual è la sua unicità?

Trovo che sia uno strumento estremamente evocativo, quello che io ho fin da subito sentito come il veicolo migliore per quella ricerca introspettiva, ma rivolta anche all’esterno, che porta a esprimere se stessi in musica nella maniera più diretta, spontanea e genuina. Il primo impatto con lo strumento mi ha fatto pensare “mah, io qui ci sono già stato… ”, come se lo strumento potesse essere un luogo-non-luogo nel quale perdersi e ritrovarsi. Parlare di una sua unicità però è complicato perché tutte queste sensazioni sono estremamente soggettive, ed ogni strumentista che ami il proprio strumento lo considera il più speciale. Personalmente trovo che l’oud abbia enormi possibilità espressive che non lo limitano alla sua dimensione tradizionale e alle relative latitudini ma possa essere inserito anche in contesti diversi, mettendo queste qualità timbriche al servizio di uno sviluppo musicale e di concetto che lo avvicini più alla musica cosiddetta occidentale. Questo è quello che sto cercando di fare io: sono un musicista Europeo e seppur mi sia nutrito tantissimo di suoni e studi mediorientali, scrivo musica principalmente europea sfruttando uno strumento che però non è nato in Europa e non fa parte della sua imponente tradizione classica. Nel mio piccolo questo è il modo che ho scelto per contaminare e far coesistere i due mondi musicali. Naturalmente poi possiamo sempre raccontare che l’oud non è altro che l’antico padre del nostro Liuto, avvicinandolo ulteriormente alla nostra storia.

Da Zone di Musica a Visage Music: entri in un catalogo assai apprezzato, quello di Riccardo Tesi per intenderci. Per me questo è un salto in avanti sotto tutti i punti di vista. Lavorare con Claudio Carboni, che è il direttore artistico di Visage Music, è un grande piacere. Claudio è un bravissimo musicista ed una gran bella persona e si è dimostrato molto disponibile ed estremamente interessato a promuovere Flowers. Avevo già lavorato con lui e Riccardo Tesi in occasione di alcuni dischi di Banditaliana e di Riccardo alle cui registrazioni ho preso parte come ospite. Riccardo è un amico e devo ringraziare anche lui assieme a Claudio per il supporto che mi è stato dato per la promozione e distribuzione, che sarà affidata a Materiali Sonori. La scelta umana e professionale si è rivelata quella giusta e credo che ci siano tutti i presupposti per poter realizzare buone cose. Poi devo ammettere avere l’etichetta a dieci minuti da casa non è poi tanto male…

Elias Nardi Group

Daniele Di Bonaventura – Bandoneon
Didier François – Viola d’Amore a Chiavi
Nazanin Piri-Niri – Flute
Carlo La Manna – Fretless Bass, Six String Bass
Elias Nardi – Oud

Per saperne di più:
www.eliasnardi.it