Un nuovo album di Paul Simon merita sempre tutta l’attenzione, per prima cosa perché è l’opera di uno dei nomi portanti della popular music, non a caso insignito di una sfilza infinita di riconoscimenti (fra i quali Grammy Award, introduzioni nella Rock and Roll Hall of Fame, lauree ad honorem, premi alla carriera e altro ancora), in secondo luogo per il fatto che ogni suo lavoro è il frutto di un’attenta ricerca umana e artistica che impiega anni per essere portata a compimento (ad esempio il precedente So Beautiful or So What uscì nel 2011 mentre il terzultimo album, Smile, nel 2006), e bisogna dunque farne tesoro.

Ogni disco di Simon risponde a una volontà precisa, e frugando fra le note e i suoni mai convenzionali, si può scorgere sotto un disegno meticoloso e affascinante che collega i diversi elementi, tanto musicali quanto di contenuto testuale. Quello che il musicista spesso cambia è il metodo, il tipo di approccio compositivo o autoriale, ciò che rimane fermo invece sono la curiosità e il desiderio di ampliare il proprio vocabolario stilistico verso lidi inesplorati, talvolta (anzi molto spesso) “paesaggi di fantasia” che combinano ambiti culturali e geografici fino ad allora a sé stanti. E non c’è una serialità, le risposte su come procedere, su quale strada dirigere i propri nuovi passi arrivano da circostanze imprevedibili che Simon sa cogliere e trasformare in indicazioni precise e fili invisibili da tessere fra le canzoni (la forma prescelta, una “terra senza frontiere” ideale per gli incontri e gli scambi di conoscenze).

Come testimoniano le note di copertina, Stranger To Stranger, questo il titolo dell’ultimo disco, nasce da un periodo di stati d’animo contrapposti, agitazione e letargia, urgenza creativa e assenza di idee, una specie di attrito continuo da cui a un certo punto scaturisce la scintilla: un pezzo per chitarra (che diventerà poi Insomniac’s Lullaby) con una linea cromatica ascendente che rimanda alla mente del songwriter newyorkese la figura del compositore statunitense Harry Partch, la sua scala di 43 suoni (a dispetto dei 12 del nostro sistema musicale) e gli strumenti microtonali da lui inventati per poterla suonare, oggi custoditi alla Montclair State University e affidati alla cura del discepolo Dean Drummond (a sua volta compositore “microtonale” e inventore di ulteriori strumenti in grado di riprodurre la suddetta scala). Si recherà quindi a Montclair, nel New Jersey, per registrare il brano con l’ausilio di strumenti quali Cloud Chamber Bowls, Chromelodeon, Zoomoozophone (quest’ultimo creato da Drummond) e altri.

È singolare, ma fino a un certo punto, che Insomniac’s Lullaby sia forse il pezzo dell’album con la scrittura più vicina al periodo in cui Simon faceva coppia con Art Garfunkel nel duo di menestrelli folk per eccellenza della storia musicale americana. Il suo dolce incedere melodico assume così, grazie al contorno “microtonale”, un’eco misteriosa, un ingrediente “segreto” che apre le porte della percezione a un altro mondo sonoro fatto di possibilità espressive stimolanti, senza nulla togliere alla natura e all’eleganza dei suoni e dei versi “guida” di questa dolce ninna nanna, famigliare e rivoluzionaria al contempo: un nuovo classico che Simon relega in chiusura di scaletta ma che proietta il suo umore variopinto e piacevolmente straniante a ritroso sul resto dei brani (il “pensiero microtonale” è infatti, per ammissione dell’autore, presente un po’ in tutta l’opera).

Il secondo motore o sentimento del disco è invece da ricercare nella passione accesasi in Paul Simon durante l’assemblamento del nuovo materiale per il flamenco, e in particolare per i suoi colpi di tacco e i battiti di mani, per la sua energia ritmica singolare e coinvolgente. Jamey Haddad, percussionista nella band del cantante, ha messo quindi in contatto Simon con un gruppo di musicisti spagnoli di flamenco di Boston che conosceva e sono state improvvisate delle session sperimentali a New York che hanno dato vita al “groove” utilizzato per le basi di quattro canzoni, The Riverbank, The Werewolf, Wristband e Stranger To Stranger: brani con destinazioni differenti che mantengono una continuità di ascolto, anche subliminale se vogliamo, per le cellule ritmiche e i suoni che le pervadono.

Due di queste poi (The Werewolf e Wristband, oltre a Street Angel) hanno visto il contributo di un artista italiano, il DJ e compositore di musica elettronica Clap! Clap! (noto anche come Digi G’Alessio), presentato a Simon dal figlio Adrian, un suo fan, e incontrato a Milano durante il tour di So Beautiful or So What. Clap! Clap! ha in seguito mandato a Simon per internet le sovraincisioni da lui elaborate per i pezzi sopraccitati. La world music di cui Paul Simon è stato uno dei sommi maestri e antesignani - già ai tempi di Garfunkel e dei primi album solisti difatti aveva coinvolto suonatori e cantanti di musiche “altre”, “laboratori” che gli hanno aperto la via ai grandiosi progetti dei decenni successivi: Graceland, 1986, The Rhythm Of The Saints, 1990, e il poco ricordato eppure eccellente Songs From The Capeman, 1997 - si tinge qui di sperimentazione elettronica e contemporanea, in un composto geniale che scorre come acqua pura nelle orecchie e fa battere i piedi a tempo. Addirittura in Street Angel Simon contamina l’idea musicale con frammenti di registrazioni di gospel degli anni '30, trovandovi inoltre ispirazione per il testo da parole pescate qua e là (alcune cellule ritmiche provengono da un altro pezzo del disco, Cool Papa Bell).

Stranger To Stranger è un disco che amplia il concetto di multiculturale trasformandolo in “globale”, che continua a profumare d’Africa, Sud America, Caraibi e New York ma in un dialogo sempre più serrato e artisticamente personale: è la world music che si svincola dall’etichetta con su scritto “esotico” e diventa un nuovo orizzonte creativo aperto a tutti. Fra i tanti temi presenti nel disco troviamo dediche per i veterani delle missioni in Iraq e Afghanistan e chi ha perso la vita nel massacro della scuola di Newtown in Connecticut (fra cui un insegnante che Simon conosceva di persona) in The Riverbank; l’amatissimo gioco del baseball in Cool Papa Bell; l’esperienza di benessere dopo essersi recato da un guaritore in Brasile in Proof Of Love; spiritualità in Street Angel; il dialogo interiore di un religioso in difficoltà in In a Parade; ironia in Wristband, la storia di un artista rock che ha perso il braccialetto di riconoscimento e non riesce ad accedere al palco del proprio concerto; “divertissement” in The Werewolf, ossia “il licantropo” (titolo suggerito a Simon dal suono di uno strumento indiano, il gopichand); introspezione in Insomniac’s Lullaby e sentimenti per la persona amata in Stranger To Stranger. Figurano pure dei pezzi strumentali (The Clock e In The Garden Of Edie) che disegnano dei paesaggi sonori avvolgenti e meditativi.

L’edizione deluxe contiene quattro brani in più (Horace And Pete, Duncan e Wristband in versione live, lo strumentale Guitar Piece 3 e New York Is My Home in duetto con Dion, l’autore del pezzo) perfettamente allineati con il discorso complessivo e di enorme pregio, un peccato non facciano parte dell’edizione standard. Del lunghissimo elenco di musicisti accreditati, una vera e propria orchestra, non si possono non citare il batterista jazz Jack DeJohnette e lo strabiliante cantante, sempre di area jazz, Bobby McFerrin.

L’album è prodotto da Simon insieme al fonico, produttore e vecchio amico Roy Halee ed è dedicato a due amici: Chuck Close e Mort Lewis, che è stato anche il manager di Simon & Garfunkel. Stranger To Stranger è arrivato in cima alla classifica britannica degli album e in terza posizione in quella americana Billboard 200: fra i maggiori successi di vendite degli ultimi 30 anni di carriera.