Un paio di mesi fa, in un’intervista rilasciata al magazine Classic Rock, Eric Clapton rivelava di essere affetto da una malattia degenerativa nota come neuropatia periferica, una patologia che crea dolori fortissimi e che pertanto si teme gli renda sempre più difficile suonare la chitarra, ossia lo strumento che lo ha trasformato in “Dio” (dalla famosa frase “Clapton is God” scritta nella metropolitana di Londra da un fan) e con il quale, da 50 anni a questa parte, benedice tutti noi ogni volta che lo imbraccia.

Dopo lo shock iniziale per tale rivelazione, ha colpito però anche il fatto che, nella medesima intervista, il musicista abbia dimostrato una certa serenità d’animo e ammesso di provare un sincero senso di gratitudine verso la vita, cosa questa che riscatta parzialmente – oltre che dal dispiacere per la circostanza in sé – dal timore di non vederlo più così facilmente su un palco, né con regolari uscite sugli scaffali dei negozi (veri o virtuali che siano). Si tratta in realtà di reazioni emotive, perché Clapton non ha alcuna fretta di congedarsi dal proprio pubblico e non è nemmeno dato sapere come evolverà la situazione: diciamo che dopo la scoperta della malattia da parte sua c’è stata una presa di coscienza, ed è stato fatto un cammino interiore che lo porta adesso a guardare le cose da un’altra prospettiva e con una certa profondità.

È nell’ottica della gratitudine quindi che va letto anche l’ultimo lavoro I Still Do, album che condensa alla perfezione sonorità, stilemi, gusti, influenze, emozioni e ricordi del più grande chitarrista blues europeo e che si colloca con estrema disinvoltura fra gli ascolti consigliati, diciamo anzi obbligatori, di una discografia assai nutrita. Già il titolo rivela parecchio del “cuore” dell’opera: è la risposta che una zia a cui era molto affezionato gli diede poco prima di morire quando la ringraziò di essere sempre stata affettuosa con lui da piccolo (“I liked you. And I still do”). Una dichiarazione di affetto vero, puro, un’espressione in grado di sintetizzare perfettamente anche il suo rapporto con la musica… e con la vita, che di seconde possibilità gliene ha date diverse e che dunque non si può non amare.

In I Still Do c’è tutto quello che il chitarrista è stato e ancora dimostra fermamente di essere: non è Clapton che fa Clapton, ma Clapton che è Clapton. Ora più che mai. Secondo una formula già sperimentata, che però qui suona con una freschezza tutta sua, il disco mette insieme cover, standard, traditional e pezzi originali, in una sequenza emozionale che ne decreta lo scorrere fluido e a suo modo ciclico. Il blues è costantemente al centro, sia nella veste “classica” che in quella “evoluta” e intrisa di rock, art-pop e ritmi “esotici”, alla quale Clapton ha contribuito più di chiunque altro, e non soltanto in termini di suono e tecnica chitarristica (un “marchio a fuoco” inconfondibile), ma anche di scrittura. Insomma, se il blues è vivo e dentro il presente della musica, questo merito va riconosciuto in gran parte a “Manolenta”: il soprannome che gli venne dato all’epoca degli Yardbirds, reso poi immortale dall’album “pietra miliare” Slowhand, del 1977. A proposito, dopo quasi 40 anni, I Still Do vanta pure il ritorno alla consolle audio di Glyn Johns (storico produttore di Slowhand e del successivo Backless, oltre che di svariati capolavori del rock), fautore di un suono caldo e riconoscibile, “vintage” al punto giusto.

Il disco quindi è stato l’occasione per rinsaldare un’amicizia mai rotta ma che si era persa nelle pieghe del tempo, fra timidezze e lo scorrere della vita, e che adesso si sente finalmente libera e entusiasta di continuare un racconto lasciato “sospeso”: una vibrazione umana quasi palpabile nei nuovi “solchi” sonori. Riguardo l’amicizia, c’è anche un piccolo mistero che circonda I Still Do: tra i crediti dell’album è infatti registrato alla chitarra e ai cori di I Will Be There (gioiello pop come non se ne scrivono più) un certo “Angelo Mysterioso”, che è praticamente lo stesso pseudonimo (L’Angelo Misterioso) utilizzato per ragioni contrattuali da George Harrison, il migliore amico di sempre del chitarrista, quando suonò nel fantastico brano Badge (scritto dai due) del supergruppo britannico dei Cream, in cui militava Clapton. Non è George, ovviamente, ma sembra che possa trattarsi di suo figlio Dhani. Ipotesi mai confermata e mistero che, secondo un portavoce di Clapton, mai verrà svelato.

Tornando alla musica, è affascinante il modo nel quale il blues delle origini, portato a testa alta da titoli come Alabama Woman Blues di Leroy Carr (l’apertura) o Cypress Grove di Skip James, o ancora Stones In My Passway del leggendario (in tutti i sensi) Robert Johnson, conviva armoniosamente e a tratti si fonda con le fiammanti Catch The Blues e Spiral, nuove prove che riescono oltretutto a dire qualcosa di nuovo (fatto non così scontato nel blues) e che confermano un gusto ineccepibile: a livello di scrittura, di arrangiamento e di interpretazione; Spiral poi (un rock blues che meriterebbe un posto in qualsiasi antologia di qui al futuro) con la sua “spirale” armonica crea una sorta di ipnosi da cui è letteralmente impossibile liberarsi, anche ad ascolto concluso: se c’è una strada che il blues oggi dovrebbe prendere per tornare alla gente e in classifica, questa è l’indicazione più pertinente data dall’inizio del nuovo millennio al genere.

Ma qui tutto funziona a meraviglia: l’immancabile tributo con Can’t Let You Do It e Somebody’s knockin’ all’amico e perenne ispiratore fin dagli esordi solisti J.J. Cale – al quale aveva di recente dedicato un intero progetto supportato da vari amici, fra cui Tom Petty e Mark Knopfler – lo “spiritual” I’ll Be Allright, la cover dylaniana di I Dreamed I Saw St. Augustine e il jazz delicato di Little Man You Had A Busy Day e della conclusiva I’ll Be Seeing You, con cui la voce in un certo senso passa davanti allo strumento e si lascia ammirare in tutte le sue sorprendenti sfumature. I Still Do è insomma un’opera talmente riuscita che potrebbe tranquillamente candidarsi come punto di partenza per le nuove generazioni di fan, un album “tributo” alla musica vissuto con una presenza di spirito esemplare che riassume in sé tutti i “motivi” che hanno reso grande Eric Clapton. L’artwork stesso, firmato dall’artista responsabile di quel simbolo intramontabile che è la copertina di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles, Sir Peter Blake, è un ulteriore incentivo all’acquisto. Dentro foto sparse di vita, lavoro, affetto, amore, amicizia. La chiusura del cerchio.