“Se dovessi ritirarmi adesso, in questo momento, - non credo che sia molto fattibile, però supponiamo di sì - me ne andrei contento … per Fuerza Natural”. Quando furono pronunciate, a 50 anni appena compiuti, queste parole suonavano come un’iperbole, col fine di esprimere l’enorme soddisfazione per un lavoro riuscito in tutto e per tutto. È riascoltandole oggi che mettono i brividi!

Sì, perché a parlare è Gustavo Cerati, uno fra i più grandi artisti non anglofoni che il mondo del rock abbia mai avuto, colpito da un ictus il 15 maggio 2010 al termine di un concerto a Caracas (Venezuela) e deceduto a Buenos Aires, nella sua città natale, dopo quattro anni di coma, il 4 settembre 2014. La frase riportata è ripresa dal documentario promozionale, di pochi mesi prima dell’incidente, per il lancio del disco Fuerza Natural, uscito sul mercato il 1 settembre del 2009.

Per rendergli omaggio dunque, in questo secondo settembre di ricorrenze, parleremo proprio della sua ultima produzione: un’opera geniale, solare e misteriosa al contempo, in cui nulla è lasciato al caso e che in un certo senso rappresenta la quadratura del cerchio della discografia del musicista argentino. Il nuovo materiale nasce, come esigenza artistica, in una direzione differente rispetto al potente rock di stampo “classico” di Ahí Vamos (2006) e a quello del comeback tour Me Verás Volver (2007) dei Soda Stereo, il gruppo storico di Cerati scioltosi nel 1997.

Dopo un periodo di decompressione, le idee cominciano a sorgere spontaneamente e col tempo a collocarsi, con connessioni di varia natura fra loro, in un disegno preciso che rivelerà un po’ per volta i propri tratti distintivi. Le demo prendono vita agli studi Unísono di Buenos Aires, inizialmente cercando ispirazione fra registrazioni di artisti della più svariata estrazione e isolando alcuni sample di canzoni. L’armamentario musicale adoperato è essenziale e lascia ampio spazio di manovra: una chitarra acustica, una tastiera, un computer e i campioni estrapolati. Le musiche che ne escono esibiscono una freschezza alla quale automaticamente si associano parole e versi, quasi fossero codici scritti dentro le sequenze di note. In breve il corpus di demo su cui mettere le mani per dar forma all’album è assai consistente e ognuno dei temi possiede un’impostazione di arrangiamento ben delineata.

Nella mente di Cerati però la prima veste dei brani (già molto meticolosa e per certi versi finita) era soltanto uno step verso la nuova parte del processo creativo e compositivo che si sarebbe avviata con la registrazione e la produzione: un modo originale per continuare a sperimentare e ad allargare gli orizzonti dell’opera. Dopo alcune settimane di prove con i musicisti (una vera e propria band formata da diversi elementi presenti anche nelle session e nel tour di Ahí Vamos) che culmineranno a New York nei Philip Glass Studios, Cerati decide di sospendere temporaneamente la ricerca, a tratti ossessiva, del “suono giusto” a favore di un po’ di relax e della messa a fuoco dei contenuti testuali, e magari della scrittura di qualche altro brano.

Il luogo designato per questa fase creativa è una casa di campagna vicino a José Ignacio, in Uruguay, un posto immerso nel verde e a due passi dall’oceano. Anche nell’ottica di uno stimolo per sviluppare qualcosa di veramente originale, Gustavo, come fece per il precedente lavoro solista, coinvolge il figlio Benito (all’epoca quindicenne) nella stesura delle liriche e chiede inoltre l’aiuto dell’amico Richard Coleman (già contattato a inizio lavori e indirizzato verso uno stile “psichedelico”) e di Adrián Paoletti. Le canzoni, sia quelle frutto di collaborazione, sia quelle scritte di pugno dal solo Cerati, sembrano entrare una dentro l’altra e gravitare intorno ad alcuni concetti chiave: la natura esteriore, quella interiore umana e l’idea di viaggio, tanto fisico quanto psichico e dei sensi. Ecco la “big picture”, come la definirà il musicista.

La dinamica di coppia, che in genere la fa da padrone nei testi di musica pop e rock, qui viene portata a un altro livello e diventa dialogo con le forze che dominano la nostra vita, che siano a favore oppure contro, una sorta di ricerca tesa ad espandere la coscienza che comunque non impedisce di leggere i messaggi in più direzioni, essendo i versi molto poetici e fluidi e tutt’altro che astrusi, semmai intrisi di visioni e metafore che forniscono delle “vie di fuga”.

Riprese ad aprile 2009, le sessioni di studio sono dominate da una vena di “entusiasmo e follia” (cit.): il disco vede una costruzione a strati (Cerati la definisce “a mosaico”), senza che ci siano take uniche per alcuno strumento (nel rock più classico invece è un espediente che si utilizza per riprodurre in studio il mood da palco). In Fuerza Natural, si lavora di cesello, cercando un’identità per ogni battuta, registrando chitarre su chitarre (fondamentale in tal senso l’intesa e il lavoro di coppia con Gonzalo Córdoba), tempi pari su tempi dispari, timbri elettronici, cori, effetti, rumori e quant’altro renda l’ascolto un’esperienza unica e coerente col tema cantato.

Il clima di primo acchito sembrerebbe acustico, ma la verità è che si tratta di un’alchimia quasi impossibile da scindere, visto l’enorme quantitativo di chitarre, anche elettriche - e anche distorte -, impiegato. Il punto è che tutto è dosato con una perizia esemplare dalla co-produzione di Cerati e Héctor Castillo. Il genere musicale è un territorio misto nel quale si incontrano country, folk andino, art pop, rock, blues e psichedelia. In un momento in cui la fruizione della musica appare sempre più frazionata e passiva, per tutta risposta Cerati recupera la lezione degli anni Settanta con un progetto che richiama a gran voce il ruolo dell’album come veicolo di messaggi testuali, sonori e visivi che rendano l’ascoltatore partecipe e interprete della realtà.

Preoccupato pure dell’involuzione della capacità uditiva dovuta al proliferare della moda degli mp3, pretende dall’etichetta che il disco sia stampato su vinile (da tener presente che nel 2009 non esisteva una sola fabbrica di vinili in tutto il Sud America). La copertina stessa era stata pensata per il 33 giri e si rifà ai lavori dello studio grafico Hipgnosis, celebre per le cover degli album dei Pink Floyd: una grande città sulla sfondo - inquietante perché deserta e ripulita di ogni forma di vita - e in primo piano l’elemento contrastante e irrazionale di un cavallo volante con sopra un fantino mascherato (ispirato dal “jinete enmascarado” di Paoletti in un verso di Amor Sin Rodeos) dalla mise vagamente orientaleggiante. Delle 25 canzoni composte alla fine ne sono rimaste 14, compresa una traccia fantasma.

La title track, è già il manifesto sonoro e di intenti generali del disco. Arpeggi e suoni di chitarra che si incastrano e si sommano in un’ipnosi acustica che sotto la cute rilassata rivela fraseggi blues e graffi rock, due batteristi distinti (l’americano Campbell e l’argentino Samalea) che senza soluzione di continuità mettono a nudo l’anima ritmica di ciascuna sezione, i cori visionari ma perfetti di Anita Alvarez de Toledo e un fiume di suoni liquidi che ogni tanto rompe gli argini e poi rientra. Il testo (a cui collabora anche Benito) semplicemente un capolavoro: “Posso sbagliarmi, ho tutto davanti e non mi sono mai sentito così bene. Viaggio senza muovermi da qui, bambini dello spazio stanno giocando nel mio giardino … mi sono messo davanti ai miei occhi per vedere, scintille di oscurità, non è tanto importante, so che Dio è bipolare … calpestando fossili, non mi lasceranno cadere, un mondo microscopico mi sostiene dai piedi, navi come nubi cambiano di velocità … più azzurra è la luce se mi allontano. Forza naturale … tutto mi sta parlando, sta cambiando l’aria, non mi sono mai sentito così bene”.

L’eco profetica della dichiarazione riportata all’inizio sembra pervadere in più occasioni i contenuti dell’album, quasi quello di Cerati fosse una sorta di stato di precomprensione. Impossibile da dire, però certe frasi non possono non far pensare a quanto è in seguito accaduto. Ad esempio anche nella successiva Déjà Vu, un pop-rock di una classe infinita scandito dal groove di Sterling Campbell e selezionato come primo singolo, il verso conclusivo recita: “vicino al finale, manca solo un passo in più, sento un déjà vu”. Impressionante.

Il disco procede non sbagliando un solo colpo e alternando atmosfere collegate fra loro da anelli invisibili e da uno sguardo profondo dentro l’energia vitale delle cose. Magia è idealmente ispirata al sound dell’Electric Light Orchestra ed è stata il terzo promo del disco (del testo, scritto con Paoletti, citiamo almeno il verso “le cose brillanti sempre escono velocemente, come la geometria di un fiore”); Amor Sin Rodeos e Tracción A Sangre mescolano country, flamenco e ritmi andini e racchiudono, assieme alla poesia di Cactus (“Un cactus accarezza i miei polpastrelli con la sua pelle, ha 100 anni e fiorisce solo una volta, in tuo nome, in tuo nome”), il momento più folk dell’album; Desastre è pop sopraffino; Rapto (il 2° singolo) rock come Dio comanda; Naturaleza Muerta una ballad psichedelica con un refrain che resta in circolo; Domino un rock tiratissimo con una prova di timing pazzesca da parte di Campbell, mentre Sal è un downtempo che tocca vertici altissimi di poesia, ispirato dal faro di José Ignacio (“Un compasso di luce il faro disegna nel mare, con un bacio azzurro la schiuma si trasforma in sale”, testo scritto con Paoletti e Benito); Convoy è il brano lisergico per eccellenza, visionario e incantato, in cui le voci di Gustavo e Anita, avvolte in una nebbia notturna, si fondono e si scambiano i ruoli; He Visto A Lucy, è uno dei più bei tributi possibili ai Beatles, con Cerati al basso e Bolsa González impiegato alla batteria per le sue doti di filologo del suono Seventies.

Chiude la scaletta la traccia fantasma #: uno splendido brano di art-pop in stile british sulla numerologia, un sigillo misterioso e affascinante che suona di infinito. Fuerza Natural prevedeva pure un esperimento che rompesse i cliché del videoclip e collegasse tutti i brani del disco in una sorta di road movie. Purtroppo sono state girate solamente le parti video di Déjà Vu e Rapto, ma guardandole ci si fa già un’idea molto precisa di cosa sarebbe potuto venire fuori.

Il disco è stato insignito dei più alti riconoscimenti dall’industria discografica dell’America Latina. L’addio di Cerati, ma anche qualcosa che non finirà mai.