Quando si parla di musica rock, di solito vado a cercare la bellezza nelle piccole imperfezioni di una canzone, di un disco, o di un concerto. Ho fatto così alla fine dell’estate a Firenze, all’anfiteatro delle Cascine, quando Cat Power da sola con la sua chitarra e il suo pianoforte si è caricata sulle spalle tutta la fragilità della sua anima e ci ha regalato un’esibizione luminosa, in cui certamente non è stata la bravura come strumentista a conquistarci, né l’accuratezza con cui ha eseguito i brani della setlist. Com’era successo un paio d’anni prima a Lucca a rendere preziosa la data fiorentina è stata proprio l’insicurezza di fondo, quella che la spinge a scusarsi di continuo per un problema tecnico, o a sfiancare il fonico per sistemare il volume delle spie (e poi scusarsi ripetutamente anche con lui). Un’insicurezza da cui, senza avvertimento, lasciandoti stupefatto, all’improvviso emerge una voce forte, sicura, sostenuta da un talento cristallino, che supera ogni instabilità facendoti partecipare a una piccola magia.

Un concerto di Chan Marshall somiglia a una camminata sul filo: quando riesce bene, ammiri la grazia con cui la vedi conquistare ogni centimetro, e allo stesso tempo resti in apnea, sperando che non appoggi male un piede, precipitando al suolo. L’imperfezione come punto di forza, insomma, come strumento per mettere a nudo i sentimenti, per offrirti qualcosa che promette di assomigliare alla verità.

Poi una sera di fine ottobre questa tua convinzione si sbriciola quando ti ritrovi stritolato in mezzo a una piccola folla, in un caldissimo locale nel centro di Milano, al cospetto di P.J. Harvey, e ti ricordi che certe volte anche la perfezione non è una cattiva idea. Il concerto con cui la musicista inglese porta in giro il suo ultimo album è questo, sostanzialmente: una messa in scena della perfezione, la ricerca della forma compiuta, la cura maniacale di ogni singolo dettaglio, di ogni nota, di ogni suono. E proprio il suono è uno degli elementi chiave: c’è un gruppo di musicisti strepitosi (Mick Harvey e John Parish su tutti, poi tra gli altri spiccano i due italiani Asso Stefana ed Enrico Gabrielli), grazie all’ecletticità dei quali la band cambia forma e sostanza più volte. Comincia come una marchin’ band che cammina sul palco guidata da una Harvey sassofonista, poi diventa muscolare con due percussionisti a sovrastare tutto il resto, a un certo punto mette in fila quattro chitarre che costruiscono un muro di elettricità pura. Di solito però la materia della musica è una sintesi delle scelte stilistiche degli ultimi due album, “The hope six demolition project” e il precedente “Let England shake”, con i fiati a sottolineare la marzialità di canzoni che raccontano battaglie, giovani soldati mandati a morire, scenari di guerra e distruzione.

In ogni momento della performance hai l’impressione che Polly Jean abbia il pieno controllo di ciò che sta succedendo, non solo perché è capace di modulare la voce, di trasformarla mettendola al servizio dei contenuti, con un’abilità fuori dal comune (direi ancora meglio di quanto non avesse fatto l’ultima volta che l’avevo sentita, a Ferrara nel 2011), ma soprattutto perché sembra dirigere ogni strumentista con lo sguardo, con la stessa personalità magnetica con cui pilota a proprio piacimento le reazioni del pubblico. Basta che accenni a un passo di danza per surriscaldare la sala, basta che si metta platealmente in posa per innescare ovazioni.

Non è comune assistere a un concerto di questa qualità, e se alla fine la P.J. più rockettara resta leggermente sacrificata (nonostante l’incredibile energia di “50ft queenie" ), è proprio perché lo spettacolo ha una sua cifra (c’è tutto “Hope six demolition” e una nutrita selezione di “Let Engald shake”), e cerca una consistenza che va molto al di là della rassegna di una delle carriere più interessanti del rock (sempre che basti questa parola per definirlo) degli ultimi decenni. Il tempo per aggiungere qualche altro sguardo all’indietro oltre a “To bring you my love” o “Down by the water” ci sarebbe, ma evidentemente anche la lunghezza di una scaletta stringata si piega a quella ricerca della perfezione a cui Polly si sta dedicando senza compromessi e con risultati che si possono solo ammirare.

Setlist

Chain of Keys
The Ministry of Defence
The Community of Hope
The Orange Monkey
A Line in the Sand
Let England Shake
The Words That Maketh Murder
The Glorious Land
Medicinals
When Under Ether
Dollar, Dollar
The Devil
The Wheel The Ministry of Social Affairs
50ft Queenie
Down by the Water
To Bring You My Love
River Anacostia

Encore:
Near The Memorials To Vietnam And Lincoln
Last Living rose