Una voce profonda, un incedere scattante con dolci sorrisi, così ci è apparso, dopo 40 anni, Kabir Bedi, il Sandokan del primo colossal televisivo fatto in Italia (siamo negli anni '70 ), molto applaudito pur nell'infuriare delle polemiche. L'artista è a Firenze, invitato da River to River, Festival del cinema indiano, il penultimo atto di un festival durato 50 giorni. La sua è una presenza multitasking: presentare in anteprima per l'Italia il suo ultimo film Mohenjo Daro di Ashutosh Gowariker, fantastoria di amore e vendetta, ispirata da siti preistorici in India avvolti nella leggenda, e presenziare alla proiezione in sala dei due primi episodi della serie televisiva di Sergio Sollima. Bedi non si stanca oggi di ripetere, in conferenza stampa e in sala, il suo profondo affetto per l'Italia e per quel regista italiano che lo scelse, ancora sconosciuto, e al quale deve la notorietà internazionale. Manifestazioni di affetto ricambiate da parte italiana, con l’onorificenza “Le chiavi della città” consegnata all'attore dal Vicesindaco di Firenze Cristina Giachi e con il dono di una targa da parte dell'associazione in onore di Salgari, ma soprattutto con l'applauso scrosciante a fine proiezione dei due episodi, che si è ripetuto ogni volta che sullo schermo passava uno degli altri quattro, per la bella fiaba dell'eroe buono e temerario, che infonde ottimismo.

Molto cinema ancora nei progetti immediati e futuri di Kabir. Un film già ultimato, The broken key del regista torinese Louis Nero con Geraldine Chaplin e Rutger Hauer, uscirà a breve. "È un genere alla Dan Brown, perché si indaga per decifrare manoscritti che ci aiutino a capire meglio il presente in cui viviamo" - ci anticipa l'attore. Uscendo dal sogno che questo personaggio crea intorno a sé, ci aspetta il mondo dell'India di oggi nella selezione che la direttrice Selvaggia Velo ha fatto di 25 film indiani, tra prime nazionali, europee e mondiali.

È materiale variegato, che dipinge con stili differenti la società indiana, non solo con lo stile Bollywood a noi ben noto e da cui non è immune il kolossal Mohenjo Daro, ma anche con uno sguardo, soprattutto nei corti, nei documentari e in alcuni film, che penetra in profondità dentro una non facile società, piena di contraddizioni, ma vitale e talora di sorprendente poesia. Pensiamo al corto Bhasha, di Neshu Saluja, dall'esito inaspettato e spiazzante, cosa necessaria alla riuscita di un corto. Protagonista una ragazza che sommerge di parole di critica un suo spasimante, solo perché lui la guarda da lontano da un mese. La poesia traspare nel documentario Cities of Sleep di Shaunak Sen, che ha vinto il River to River Audience Award per la categoria, premio attribuito dal pubblico, dove è descritta in maniera magistrale la panacea del sonno per i senzatetto e, più in generale, per i poveri, che recuperano dormendo una loro dimensione più umana.

Nel film di chiusura di River to River, Parched, di Leena Yadav, è descritta la difficile vita delle donne di un villaggio rurale del Rajasthan, dove la vita si svolge fra mille colori ma sotto la guida di uomini dalle idee assai arretrate. Lì tre amiche fronteggiano le avversità quotidiane con un costante mutuo aiuto, e finiscono per progettare una fuga da quella società che coarta violentemente ogni loro azione e aspettativa, in quanto donne. Il film è stato presentato da una delle protagoniste, l’attrice Radhika Apte, che ci ha voluto rassicurare sulla condizione delle donne indiane nelle città, quasi a mitigare il messaggio forte, di senso opposto, che la regista ha efficacemente espresso con questo film, ben condotto e ben recitato. Un film che ha molto da dire sulla condizione femminile anche fuori dell'India, e che ci si augura attiri l'interesse dei distributori. Un film che più d'ogni altro manda un chiaro messaggio sul tema al centro di questa edizione, la donna in India, fil rouge delle varie sezioni del festival del cinema indiano di quest'anno, alla sedicesima edizione.

Più maturo d'età, coi suoi 26 anni, N.I.C.E. - New Italian Cinema Events -, ideato e diretto da Viviana del Bianco, nella 50 giorni di Cinema Internazionale a Firenze occupa la giornata di chiusura, quest'anno il 9 dicembre, con la premiazione, alla presenza delle autorità cittadine, del film italiano più votato dal pubblico americano, seguita dalla sua proiezione per il numerosissimo pubblico che affolla quest'anno il Teatro della Compagnia, nuova sede della 50 giorni. Giustamente Viviana ha chiamato sul palco i suoi collaboratori in Italia, menzionando anche i nomi di quelli che lavorano all'estero per N.I.C.E., per dare al pubblico un'idea della mole di lavoro che comporta portare a termine il suo progetto. Ci parla anche della sua ricaduta economica sull'industria cinematografica italiana, affermando: “Da 26 anni il Premio Città di Firenze è un riconoscimento di grande importanza sia negli USA sia in Italia e negli anni ci siamo resi conto sempre di più che il voto del pubblico riesce a sensibilizzare il mercato cinematografico sui nuovi film ed è un test importante per i distributori”.

Che sia frutto della globalizzazione che il film vincitore in USA, Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti, avesse già avuto un grande successo anche da noi? Non era così negli anni precedenti, in cui là vinceva un film da noi passato inosservato. Qui l'attrice protagonista, Ilenia Pastorelli, ha addirittura ottenuto il David di Donatello 2016 per la sua recitazione. L'apprezzamento degli americani le ha comportato di ricevere da N.I.C.E. l'ulteriore premio Città di Firenze. Per il regista la vittoria è stata del tutto inaspettata, trattandosi di un film "in lingua" (leggi romanesco!). Gli effetti speciali, che tanto piacciono alla cinematografia d'oltreoceano, qui ci sono, realizzati con genialità, a fronte del budget limitato. Ma, soprattutto, il protagonista buono, a mo’ di novello Sandokan, trionfa sul cattivo. Un'iniezione di speranza per un messaggio controcorrente che gli spettatori hanno apprezzato, di qua e di là dall'Oceano.