Se volete sapere quali personaggi ha amato di più interpretare vi dirà senza esitazioni che sono quelli che più gli assomigliano. La regina Elisabetta non è la sua preferita: per la verità gli piacevano solo i suoi vestiti. Invece Garcia Lorca e il ballerino russo Nijinsky sono le sue passioni perché in loro ha trovato molto di se stesso. Ha amato anche Salomé, ispirato al dramma di Oscar Wilde, con la sua danza dei sette veli. "Con lei ho sentito di condividere tante cose, non solo la passione per la danza, ma anche quella per i gioielli. E poi era una donna passionale, dalla natura gelosa, tutte caratteristiche per me facili da esprimere. In più era determinata: otteneva quello che voleva. Anche io sono così: volevo essere un danzatore e lo sono diventato".

Ma non è solo un danzatore Lindsay Kemp, icona internazionale dello spettacolo a tutto tondo, protagonista in scena e dietro le quinte, autore di show che fanno la storia del teatro-danza, da Flowers a Sogno di una notte di mezza estate, da Nijinsky il matto ad Alice, da Big Parade a Duende. Instancabile, ha appena curato la regia di uno scenografico Flauto Magico di Mozart presentato sui palcoscenici del Teatro Goldoni di Livorno, del Verdi di Pisa e del Giglio di Lucca (che lo hanno coprodotto) e si sta preparando ad allestire un Don Giovanni in scena a Belgrado dopo l'estate. Intanto porta in tournée la sua ultima creazione, Kemp Dances, pezzi storici reinventati e nuove creazioni, ponte tra passato e presente.

Da solo ripercorre brani da The Flower ,The Angel e Ricordi di una Traviata. Insieme alla sua compagnia, composta da Daniela Maccari, Ivan Ristallo, James Vanzo e David Haughton, presenta una nuova performance dal titolo La femme en Rouge, The Swan e Mi Vida (coreografia di Luc Bouy). E a Firenze dopo l'estate gli sarà tributata una settimana di eventi in vari spazi cittadini.

Poeta dei gesti, re del linguaggio silenzioso, regista, attore, coreografo, ballerino, mimo, pittore: chi è davvero Lindsay Kemp? Provate a chiederglielo. Lui vi risponderà così:

Soprattutto sono un ballerino, anche se oltre a danzare, faccio anche molte altre cose. D'altronde chi danza esprime se stesso al massimo livello. Io non cammino, danzo. Danzo sempre, dappertutto, non come Fred Astaire quando ballava il tip-tap, ma mi muovo in ogni situazione come se ballassi. E incoraggio tutti a fare lo stesso. Perché questo è vivere, anzi, più che vivere. È vivere generosamente, sperando di illuminare gli altri.

È questo il compito dell'artista?

Certo, la sua funzione è proprio quella di liberare lo spirito degli altri dalla tristezza. E quando dico gli altri intendo proprio tutti, a cominciare da chi è più sfortunato di noi e da chi è prigioniero, di se stesso oppure del regime.

Quando hai capito di essere un artista?

L'ho sempre saputo. Fin dall'inizio della mia vita sono stato molto consapevole del mio "dono naturale". Ovviamente ero come tutti gli altri bambini: mi piaceva giocare, raccontare storie, fare disegni... ma ho sempre rifiutato di abbandonare il mio talento.

Tua madre ti incoraggiò?

Non mi incoraggiò, ma neanche mi dissuase. Certo, avrebbe preferito che diventassi un marinaio, come molti componenti della mia famiglia, compreso mio padre. Ma quando avevo 4 anni, devo dire dopo un po' di insistenza, mi mandò al mio primo corso di danza. Allora i miei spettacoli erano per mia madre, i miei vicini di casa e i miei piccoli amici. Mi piaceva danzare, ma soprattutto mi piaceva la gioia che davo agli altri quando mi guardavano. Durante i bombardamenti intrattenevo la gente nei rifugi e poi facevo spettacoli anche per i soldati convalescenti nell'ospedale del mio piccolo paese, nel nord dell'Inghilterra. Avevo 5 anni e una delle mie interpretazioni preferite era quella di Carmen Miranda, la cantante portoghese che portava sempre quei cappelloni e cantava Chica Chica Boom.

Ma è vero che le più importanti scuole di danza britanniche ti rifiutarono?

Al momento della boarding school mia mamma mi iscrisse alla scuola navale perché, appunto, sperava che seguissi le orme di mio padre, ma non appena fui adolescente cominciai a fare audizioni in molte scuole di danza, compreso il Royal Ballet, dove, dopo il provino, sentenziarono che ero inadatto "fisicamente e caratterialmente" a danzare. E mi mandarono via. Anche alla Royal Academy of Dramatic Art non andò bene. Loro mi dissero esattamente: "Tu non sei quello che noi cerchiamo". Comunque, mi sono preso la mia rivincita perché poco tempo fa proprio la Royal Academy mi ha invitato a tenere un corso come professore... Continuando la mia storia devo però aggiungere che fui invece accettato dal Ballet Rambert, una delle istituzioni più antiche in Inghilterra che era anche una delle mie compagnie preferite. Così potei finalmente cominciare la mia formazione. Formazione che però fu interrotta dal servizio militare...

...dove tu ti fingesti pazzo per essere congedato...

Non andò proprio così. Io fui arruolato nella Air Force e per la verità la cosa mi piacque moltissimo perché mi venne data la possibilità di fare spettacoli per le truppe. In questo modo il mio pubblico aumentò. Però me ne volevo andare, volevo continuare la mia scuola di danza e dunque mi presentai al Servizio Medico e dissi che ero gay. Era il 1956 e avevo 17 anni. Allora essere gay in Inghilterra era considerato un'offesa criminale, oltre che una malattia mentale. Tanto è vero che nel giro di mezz'ora fui mandato in una clinica militare psichiatrica come "matto". Ci restai alcuni mesi e fu un'avventura: io non ero matto, ma gli altri sì... Però ottenni quello che volevo e dopo un po' mi ritrovai fuori, libero, congedato. Così tornai subito al Ballet Rambert per continuare la mia formazione. Ovviamente quando avevo detto all'ufficiale medico che ero gay non avevo mai avuto alcuna esperienza sentimentale. Il mio primo amore vero fu dopo, quando avevo 18 anni. Successe con un ragazzo che avevo incontrato proprio nella clinica psichiatrica.

E i tuoi primi spettacoli "veri"?

Dappertutto. Nei pub, nelle strade, nei cabaret, nei musical: ovunque si presentasse la possibilità. Facevo di tutto per trovare un po' di soldi e riuscire a mangiare. Furono tempi duri. La mia povera mamma era vedova e mi aiutava per quello che poteva. Mio padre era morto durante la guerra, quando la sua nave era affondata, e lei non aveva grandi possibilità. Ci sono stati momenti in cui ho sofferto la fame, ma mai e poi mai mi è venuto in mente di rinunciare.

Perché sei venuto in Italia?

Ero innamorato dell'Italia già prima, molto prima di metterci piede. Sono arrivato negli anni Sessanta e mi sono sentito subito italiano. D'altra parte mai mi sono considerato inglese. Gli inglesi sono conservatori, razionali. L'Inghilterra è patria di grandi poeti, ma non è un posto dove i poeti possono vivere perché sono disprezzati dalla media dei cittadini inglesi. Quello che è successo con Brexit ne è la prova: guardate la crudeltà di Theresa May verso gli immigrati...

Dopo i momenti di difficoltà è arrivato il successo. Una lunga carriera di successi. Hai rimpianti? Rimorsi?

Rimorsi no. Ho qualche rimpianto, ma evito di pensarci. Ad esempio avrei voluto essere più gentile e più tollerante in tempi passati. Ahimé! L'ignoranza della gioventù! E poi mi dispiace non aver lavorato di più, anche se comunque penso di avere ancora tempo per fare quello che non ho fatto. Certo, mi sarebbe piaciuto essere un miglior danzatore. Forse avrei dovuto concentrarmi di più sulla danza. Invece non mi sono specializzato in un'unica attività, ma mi sono lasciato coinvolgere da tutto, dal cabaret alle canzoni e alla regia, e sono diventato un artista "multifunzionale". Ma questo non è proprio un rimorso (canta la canzone di Edith Piaf: Non, rien de rien, non, je ne regrette rien).

Come reagisci di fronte alle difficoltà?

Fuggo perché preferisco godermi la vita: questo è il segno della mia immaturità. Ma la fuga è solo temporanea. Come quando si scappa di casa... all'ora del tè poi si ritorna (ride). O come qualsiasi artista che abbandona il palcoscenico in preda al panico, ma poi torna indietro a fronteggiare la musica o il personaggio che lo aveva spaventato.

C'è un bambino in te?

Io sono un bambino. Non sono mai cresciuto. L'unica differenza tra me e Peter Pan è che lui è rimasto piccolo, mentre io sembro vecchio. Sai, soffro molto l'età, quella fisica, però. Perché quella della testa è giovanissima, il mio cuore è giovane. Non sono mai stato attratto dal mondo degli adulti, dalla loro mancanza di immaginazione e di libertà. Preferisco essere me stesso, beato nel mio estro.

Cosa è più importante nella vita, la bellezza o la classe? Oppure l'onestà?

L'amore. Credo nel potere dell'amore. Essere innamorato è il momento in cui sei più inspirato.

Quando danzi è come se tu fossi dentro un sogno e riesci a far sognare anche il pubblico. Ma la vita, quella vera, è più bella di un bel sogno?

La vita non è affatto bella, almeno in questo momento. Basta pensare a Brexit e a Trump! Sognare è importante perché ci fa vedere le cose non come sono, ma come potrebbero essere. Sognare non vuol dire scappare, ma visualizzare, immaginare un mondo possibile, migliore.

David Bowie, Kate Bush e Peter Gabriel sono stati tuoi allievi e amici. Hai conosciuto Mick Jagger e Marianne Faithfull. Puoi parlarci di loro?

Sono davvero grato a queste persone per avermi dato la loro amicizia e sono felice di aver amato David Bowie. L'inizio della storia d'amore con lui è stato uno dei massimi momenti di ispirazione. Grazie alla sua musica e alle sue canzoni ho creato il musical Pierrot in Turquoise. Turchese è il simbolo dell'eternità e fu lui a suggerirlo. Quando lo conobbi, David era molto depresso a causa delle difficoltà che incontrava nel tentativo di affermarsi. Voleva abbandonare la musica e diventare buddista, dottrina di cui era un seguace. Mi ha ringraziato sempre molto per averlo salvato dall'avere la testa rasata. Comunque, dopo aver lavorato insieme in quello show le nostre strade si sono divise. Ma alla fine il successo è arrivato e allora mi chiese di lavorare ancora con lui nella messa in scena del suo concerto The Rise and Fall of Ziggy Stardust.

Cosa ti ha lasciato, adesso che non c'è più?

Lui è ancora vicino a me. I nostri giorni insieme sono stati così pieni di vita. C'era la gioia di lavorare insieme, come due bambini che giocano. David era molto allegro, insieme ci divertivamo molto. Ma non abbiamo avuto solo gioie, ci sono state anche lacrime. Io però non so che cosa posso aver dato a lui. Certamente gli ho insegnato a danzare, ad esprimersi attraverso il corpo e a comunicare.

Nella scuola di danza che avevi fondato a Londra, in Covent Garden...

Era il Dance Center, ma non lo avevo fondato io. Però lì ho cominciato a tenere delle lezioni: all'inizio avevo un solo allievo, poi diventarono due, poi tre, fino a sei. Dopo arrivò David Bowie, e dopo ancora Kate Bush e poi Peter Gabriel. Alla fine avevo centinaia di allievi. Ora in quegli spazi di Floral Street c'è un Centro Benessere (fa il volto triste). È anche carissimo.

Quando hai conosciuto Marcel Marceau?

Ero molto giovane. Quando l'ho visto sul palcoscenico per la prima volta restai impressionato perché vidi quello che io volevo diventare. Era un genio del teatro, sapeva come catturare il pubblico, come farlo ridere e piangere, rendeva visibile l'invisibile, parlava la verità dei gesti. Insomma, io volevo essere lui e ho rubato da lui. Una volta recitavo un "a solo show" in un piccolo teatro di Edimburgo. Avevo il volto dipinto di bianco e una maglietta a righe, proprio come lui: io ero ciò che lui era e facevo ciò che lui faceva. Ma quando arrivai sul palcoscenico mi accorsi con orrore che lui era lì, in platea, e mi stava guardando. Era stato facile riconoscerlo perché ci saranno state al massimo 10 persone in teatro... Volevo morire! (Si copre il volto con le mani). Però lui restò incantato dalla mia performance e dopo venne a trovarmi in camerino e si offrì di aiutarmi, anche se non mancò di trovarmi difetti.

Quali?

Notò che avevo le mani grassocce e per questo non potevano essere espressive. Mi disse: "Non puoi danzare con quelle mani, sembrano wurstel! Non ho niente da insegnarti come mimo, perché sai già tutto, ma posso fare qualcosa per le tue mani". Così mi chiese di andare tutte le sere al suo spettacolo per guardarlo e imparare dai suoi movimenti. In più mi dava un'ora di lezione gratis. Eravamo a Edimburgo e tutto questo durò tre settimane. Poi lo spettacolo si spostò a Londra e io dovetti seguire ancora tutte le sue performance per altre quattro settimane. Ogni mattina mi impartiva una lezione nella sua camera dell'hotel Savoy e dopo ordinava per me un succo d'arancia, come se fossi un figlio. È così che mi ha dato le mani.

Un aggettivo per definire la tua vita

Bumpy, cioè movimentata, come essere su un trampolino. Qualche volta disperata, qualche volta gioiosa, ma mai noiosa. Non ho tempo per annoiarmi: sono troppo impegnato ad andare su e giù.