Milano-New York, andata e ritorno. In qualche modo potrebbe essere il titolo giusto per raccontare la vita che Roberto Mancinelli si è scelto negli ultimi anni. Missione: portare la musica italiana, quella degli anni duemiladieci, in America. Lo ha fatto prima, fino al dicembre 2016, lavorando per la Sony, come una specie di ambasciatore musicale con ufficio a Manhattan, e continua a farlo ora, dall’inizio del 2017, in proprio, come talent scout, discografico e patron della iMean, spostandosi spesso tra la Grande Mela e l’Italia.

Il primo frutto di questo nuovo corso è il recentissimo lancio dell’album “Trasparente” di Braschi, cantautore visto a Sanremo con la sua “Nel mare ci sono i coccodrilli”, che ha inaugurato il catalogo della nuovissima etichetta. Un passo che può essere considerato lo sbocco naturale del lavoro svolto in precedenza. “Sono stato in Sony per quindici anni – racconta Mancinelli, che ha una lunga storia di giornalista musicale, disk jockey radiofonico e direttore artistico - arrivando fino alla direzione di Sony/ATV Italia. Per molti sarebbe stato l’apice della carriera, ma a me 44 anni mi sono sembrati un po’ pochi per fermarmi. Mi sono detto che era l’ora di tentare qualcosa a cui tenevo molto. Andavo spesso a New York, e ho pensato di proporre una mia ‘missione’ qui. Mi è servito un po’ di tempo per convincere i capi, ma alla fine la motivazione ha vinto: non mi andava di passare la maggior parte del mio tempo in mezzo a riunioni di budget. A me piace stare in studio di registrazione, con i musicisti, scommettere su di loro, stare gomito a gomito con gli artisti”.

Tutto sommato l’anima del progetto è abbastanza semplice: offrire una dimensione internazionale ai giovani autori italiani che se lo meritano. “La mia idea – spiega - è mettere sotto contratto artisti italiani che abbiano un respiro internazionale. Cantanti, musicisti, ma soprattutto autori. Di loro mi sono occupato più spesso in passato (per citarne alcuni Franco Battiato, Vinicio Capossela, Paolo Conte, Gianna Nannini, Irene Grandi, Massimo Bubola, ndr), ed è con loro probabilmente che mi sento più a mio agio”.

Perché questa idea si è sviluppata con un trasferimento a New York? “Per diversi motivi, cominciando dalla considerazione che ho per noi italiani. Sono convinto che, rispetto ad altri popoli, abbiamo un ingrediente in più, che banalmente potremmo chiamare il cuore o l’arte di arrangiarci, ma che applicato alla musica è un’innata capacità di improvvisare. Ecco, fondere tutto questo con la ‘sostanza’ che la professione di autore ha negli Usa può portare a un mix molto interessante”.

Ciò che manca in Italia, secondo Mancinelli, è una vera scuola autorale. “In America esiste, per un motivo semplice: per loro scrivere canzoni è un lavoro, mentre da noi c’è una considerazione completamente diversa, direi una prevenzione. Finché non mi hanno visto a Sanremo probabilmente i miei genitori non erano convinti che quello che stavo facendo era davvero un lavoro. Noi italiani sappiamo scrivere le canzoni, studiamo, leggiamo, viviamo in mezzo alla bellezza, alla poesia: queste sono qualità che nessuno ci può togliere e che si trasmettono in ciò che facciamo. Ho sempre odiato l’esterofilia, ma osservando le cose da Central Park alcuni aspetti vanno riconosciuti: in America chi scrive lo fa con la dedizione di un mestiere, andando in ufficio dalle nove alle cinque. In questo modo forse si esagera, si rischia una ‘robotizzazione’, ma certamente si ha la netta impressione di un approccio diverso, totalmente professionale”.

Scuola. Questa è probabilmente la parola chiave nel progetto di Roberto: “Quello che voglio fare è promuovere, valorizzare e difendere la scuola dei cantautori e degli autori italiani. Il primo a cui mi sono legato è Braschi, che aveva già collaborato con i Calexico, e che mi faceva un po’ di stalking come tanti altri giovani. Abbiamo tentato con Sanremo senza la minima speranza, e invece ci hanno preso. Ora stiamo lavorando a una versione in inglese del suo disco, è un lavoro lungo e importante di riadattamento dei testi, ma voglio pubblicare questo e altri album anche negli Stati Uniti, cominciando intanto dalle versioni digitali. Poi organizzeremo una serie di concerti, perché in America suonare dal vivo è più facile rispetto all’Italia”.

Mancinelli spiega anche quali possono essere i passi per consolidare l’importanza di una scuola di autori italiani all’estero. “Bisogna creare collaborazioni. Se lavori con autori americani, e magari un tuo pezzo finisce in un disco di Rihanna, è chiaro che conquisti rispetto e credibilità. Pian piano bisogna essere in grado di conquistare l’autorevolezza che apre queste porte. Faccio un esempio per farmi capire: esiste una scuola di autori svedesi molto considerata in ambito dance-pop, ma non è sempre stato così, se lo sono guadagnato col tempo. Vorrei riuscire a fare la stessa cosa in ambito cantautorale con i nostri. Ci sono due ostacoli in più: il primo è di carattere linguistico, perché tutti gli svedesi sono abituati a parlare inglese, il secondo è che nei confronti della nostra musica c’è un pregiudizio legato ad alcuni stereotipi. Mi spiego: proprio stasera andrò al Radio City Music Hall perché mi hanno invitato a un concerto de Il Volo. Da una parte fa piacere quando l’Italia ha una visibilità di questo tipo, ma allo stesso tempo vorrei che la musica italiana qui non venisse identificata esclusivamente con Il Volo o Bocelli. Spero di riuscire a bucare questa membrana di pregiudizio per dimostrare agli americani quali sono le nostre capacità, a cominciare da quella di saper trattare la melodia anche meglio di loro. In questo periodo sto sentendo un sacco di musica nuova, fatta da giovani: posso dire che di roba buona ce n’è parecchia, e che merita di essere ascoltata”.