Uscito nel novembre del 2014, Avonmore di Bryan Ferry è un album che continua a germogliare e a suonare come un capitolo indispensabile, per il pubblico e per l’artista stesso. La pianificazione di una nuova tranche europea di concerti, con apertura al Teatro degli Arcimboldi di Milano l’11 maggio prossimo (unica data italiana), conferma questa vitalità inesauribile dell’ultimo lavoro di studio, attorno al quale sul palco ruotano in scaletta successi e brani simbolo di una carriera che, compreso il periodo con i Roxy Music, compie nel 2017 45 anni: tanti infatti ne sono trascorsi dal primo hit Virginia Plain (dall’omonimo Roxy Music, 1972).

Avonmore - che conta anche varie riedizioni deluxe a tiratura limitata e una recente versione di 20 tracce per il solo download, con remix di artisti del genere disco di tutto il mondo, operazione interessantissima - nel titolo gioca chiaramente sull’assonanza con Avalon (1982), ossia il “canto del cigno” della band di Ferry, a cui c’è pure un altro richiamo evidente nel font utilizzato. La produzione condivisa con il fido Rhett Davies, così come il bel ritratto fotografico giovanile che capeggia sulla copertina e che sembra voler cristallizzare per sempre nel tempo l’immagine del dandy nonché icona di stile per eccellenza della scena musicale britannica, sono ulteriori parallelismi con l’epoca che non possono sfuggire ai fan. In più, a ben vedere, entrambi i titoli indicano due luoghi “non luoghi”, due “regni della poesia”: uno è l’isola leggendaria dell’antica letteratura britannica dove si narra sia sepolto Re Artù, l’altro lo studio privato di registrazione di Bryan Ferry a Londra (che prende il nome da Avonmore Road, strada nel quartiere di Kensington), la sua personale casa per l’arte, oasi e ritiro della creatività.

Le analogie comunque non sono riscontrabili soltanto sul piano estetico e tirano in ballo senz’altro il “cuore” di Avalon, ma anche quello della prima fase di carriera solista, quella che ha decretato il successo del cantante oltre i Roxy Music e che, in effetti, continua sulla scia sonora dell’epilogo discografico di gruppo: stiamo parlando in particolare dell’album Boys and Girls (1985), contenente due singoli del calibro di Slave to Love e Don’t Stop the Dance, e di Bête Noire (1987), con quella Kiss and Tell che l’ha lanciato sul mercato americano.

E diversi peraltro sono i musicisti ospiti su Avonmore che figurano in questa parte di produzione: Nile Rodgers, Mark Knopfler, Johnny Marr, Neil Hubbard, Fonzi Thornton, Neil Jason, Marcus Miller, Guy Pratt e Andy Newmark. Va detto che sono tutti nomi di collaboratori di lunga data del cantante, coinvolti quindi anche in molti altri capitoli della carriera sia solista che di gruppo, ma qui l’intento parrebbe dichiarato e ognuno difatti rema nella medesima corrente, alla ricerca di un sound preciso da riportare al presente, aggiungendo nuovi colori e ritmi però mantenendone l’anima in “sovrimpressione”.

Ferry e Davies sono poi impeccabili nel gestire una mole strumentale tanto ricca e nel farla sprigionare come il più piacevole e naturale tepore: è incredibile per esempio pensare che in Midnight Train e One Night Stand ci siano addirittura nove chitarristi, tanto è l’equilibrio percepito. Avonmore è un album di atmosfere avvolgenti che prendono forma da una scrittura sinuosa ed elegante, ispirata da cima a fondo, e da una voce unica che, col suo velo di sospiro e il caratteristico tremolo, accarezza e dipinge; l’indole è intima e ci sono meno concessioni alla dance rispetto al pulsante Olympia (2010) - il precedente disco di inediti - , ma non si nega neppure una certa ballabilità né momenti di grinta rock: è un lavoro che mette insieme la vena da crooner sui generis di Ferry, la passione per il jazz, la teatralità “glam”, un certo gusto “new wave” e l’arte di saper riscrivere i pezzi degli altri (in Avonmore le cover sono giusto un paio, ma l’artista ha dedicato album interi alla rilettura di brani altrui, fin dall’esordio solista - in parallelo con l’attività di gruppo - del 1973).

A quest’ultimo proposito, bisogna precisare che Bryan Ferry incideva interi dischi di cover quando questa non era affatto una moda e che ciascuno di tali progetti presentava un indirizzo artistico preciso, una sorta di manifesto scritto ad hoc: il suo modo di rendere tributo a un artista o a un genere era proprio quello di riviverlo e di plasmarlo secondo una propria visione, spesso distantissima dall’originale. Le canzoni già edite su cui mette le mani in Avonmore, entrambe tenute in chiusa di tracklist, sono Send in the Clowns di Stephen Sondheim - praticamente uno standard proveniente dal mondo del musical, interpretato fra gli altri da Frank Sinatra, Sarah Vaughan, Barbra Streisand e Shirley Bassey - , trasformato in raffinatissimo elettropop colorato di soul, e Johnny and Mary del compianto Robert Palmer (questa in verità pubblicata precedentemente nell’album del DJ e produttore norvegese Todd Terje), vista sotto una luce crepuscolare e drammatica che un’interpretazione vocale da brividi e l’elettronica portano a galla in modo evidente, quasi fosse stata la sua natura principale.

Per certi versi è come se fossero tutti brani nuovi. Parlando degli inediti veri e propri, il pezzo di apertura, nonché primo singolo estratto (accompagnato peraltro da un video di grande effetto), Loop De Li, è la sintesi perfetta degli ingredienti, un misto di soul “bianco” e rock dove il canto, abbracciato al sax, attraversa una fitta coltre di chitarre, esplodendo in un refrain d’oro; Midnight train la ballad delicata ma con nerbo che cela un’anima funky; Soldier of Fortune il brano firmato con l’ex Smiths Marr che dal “classic rock” Ferry riesce a trasportare in una direzione non prevista e che come un “Bolero” a ogni giro aggiunge note, sfumature e colori; Driving Me Wild la classe di Ferry portata in pista da ballo; A Special Kind of Guy il lento seducente che ferisce per bellezza e richiamo della nostalgia, un pezzo che potrebbe essere un “outtake” di Boys and Girls, anche come arrangiamento; la title track è black music à la Bryan Ferry, un brano dal ritmo sostenuto che gioca su piani diversi, luci e ombre, tensioni e aperture, incollandosi alle orecchie col suo gioco di scambi; Lost è l’altro lento dominante dell’album, un momento di atmosfera fortemente caratterizzato dai colori chitarristici di Mark Knopfler che insieme a Ferry dà vita a un gioiello; infine One Night Stand è la “pulsazione” più vicina a Olympia, un altro incitamento al “dancefloor” di qualità eccelsa e con uno stile inimitabile. Un disco da non lasciarsi sfuggire. E chi può non si lasci sfuggire nemmeno il live di Milano.