Il Middleast Now Festival di Firenze, giunto alla sua ottava edizione, è da sempre assai affollato perché fa vivere alla città uno spaccato di vita quotidiana di luoghi medioorientali sconosciuti ai più ma assai fascinosi nell'immaginario collettivo. Nessuno, perciò, si aspettava un incipit come il film che, con coraggio, i due organizzatori, Lisa Chiari e Roberto Ruta, hanno scelto di proiettare.

Si tratta di The last men in Aleppo, un potente documentario del regista siriano Firas Fayyad, girato per passione civile in condizioni difficilissime; il film è stato da lui concepito nella scelta dei personaggi e nelle modalità, ma non ha potuto portarlo a termine perché il regime l'ha imprigionato durante le riprese, e tuttavia il regista è riuscito a farne un prodotto finito grazie a un amico operatore che aveva partecipato alle riprese, e condividendo il suo spirito ha realizzato la seconda parte, tanto che non si sente il cambio di stile. Ne è risultato un capolavoro, con incredibili personaggi e belle immagini, che si rivolge al mondo chiedendo aiuto per la Siria.

Vincitore del Grand Jury Prize all'ultimo Sundance Film Festival, il film tratta della vita dei volontari del corpo di soccorso “White Helmets” di Aleppo, che supportano i loro concittadini tra i pericoli di una città martoriata dalla guerra. I volontari conducono azioni eroiche ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, accorrendo allo scoppio di bombe lanciate dagli elicotteri sui cittadini inermi. Non si sentono eroi, vivono dall'interno questa incomprensibile tragedia che sta distruggendo un popolo, e non perdono tempo a farsi domande perché un secondo può essere cruciale per salvare una vita umana in più. The last men in Aleppo è un intreccio di guerra feroce e di storie comuni, che vengono continuamente bloccate e prontamente fatte ripartire dai concittadini col casco bianco, essi stessi partecipi della vita quotidiana di famiglie con bambini, di voglia di giocare, di amore per i luoghi in cui si è nati e vissuti, e che non si arrendono ad abbandonare malgrado il pericolo. Alcune scene di bombardamento nella notte sopra le case sembrano fuochi d'artificio fino a un attimo prima che la scia luminosa riveli, al toccar terra della bomba che la disegna, la sua barbara funzione distruttiva.

Il film è un messaggio che esce dagli schemi delle notizie del telegiornale per farci partecipi dei sentimenti che si vivono nella strade di Aleppo, martoriata e indomita, forse addirittura incapace di prevedere, ogni volta, una nuova strage, tutta presa com'è dal salvare le vittime di quella che è appena avvenuta. Si vede l'enorme rispetto per i corpi, vivi e morti, di cui vengono spesso recuperati solo alcuni arti, messi nei sacchi con una partecipazione che supera l'orrore. È stato domandato al regista come ha fatto a girare certe scene, e Firas non ha potuto nascondere che solo un costante convincimento dell'utilità che la sua opera poteva dare alla causa siriana gli ha consentito di usare la macchina da presa in momenti drammatici. Altre volte la visione del girato e del messaggio che era riuscito a imprimergli hanno fatto tornare a partecipare taluni che scomparivano per mesi interi.

Tragicamente, all'indomani dell'apertura del Festival, è avvenuto nella provincia siriana di Idlib l'eccidio di 74 persone, la maggior parte delle quali civili, mediante un bombardamento chimico. Chi cercasse in questo film una spiegazione del perché il popolo siriano subisca distruzioni continue, tanto da far dire a un casco bianco "Il mondo vuole che noi siamo annientati", non troverà risposte, ma è certo che il messaggio che proviene dallo schermo, e dal Festival che ci ha permesso di vederlo, è che gli uomini di Aleppo, saranno pure gli ultimi, ma lottano con tutte le loro forze contro la guerra e che Fayyad, loro portavoce, urla al mondo una richiesta indifferibile di aiuto.