Alla dogana uzbeko/tagika di Granidza mi carica Reza, il simpatico camionista iraniano che, a causa della strada totalmente sbrindellata, capace di mettere a dura prova un carro armato, tribola ben 3 ore per completare i 66 km che conducono alla capitale Dushambe. E’ mezzanotte quando mi corico al Vahsah Hotel, un fatiscente edificio color rosa sulla via principale, Rudaki Avenue, accanto al teatro “Opera Ballet” Ayni: ottimo punto di riferimento per orientarsi in città... Tutti sanno dov’è. Si nota subito, da tanti dettagli, che il Tagikistan è più povero dei paesi visitati in precedenza, ovvero Turkmenistan e Uzbekistan. Per la sua morfologia, prevalentemente montuosa, meno del 7% della terra è coltivabile. La frontiera segna altresì il confine tra due blocchi linguistici e culturali distinti: di qua il persiano e di là il turcomanno, che ciascuno vanta con fierezza. Inoltre, in Tagikistan non hanno sostituito i caratteri cirillici con quelli latini e, tanto per comprendere i gusti musicali della gente comune, a Toto Cutugno, amato oltre confine, qui si preferisce Adriano Celentano, proprio come in Russia. Frutto di una esportazione culturale a volte imbarazzante. Mi obbligano a cantare.

Dushambe, la città del Lunedì

Il mattino seguente (20 giugno) fermo l’unico occidentale che incontro: Franz, di Zurigo, che studia il tagiko, simile al farsi iraniano e al dari afgano, ed è follemente innamorato di questo paese: “Il popolo più ospitale del mondo, non devi neppure chiedere, sono loro i primi a invitarti a mangiare e a dormire nelle loro case e quando provi a sdebitarti, pagare, anche insistendo, pur essendo molto poveri non accettano assolutamente niente: imbarazzante!”. Un’ulteriore conferma: “Nella ricchezza della povertà si ritrovano modelli di vita fondati su valori più autentici”. Parla di un’economia fragile: “Nelle campagne vige il baratto, c’è una diffusa disoccupazione e lo stipendio di un insegnante si aggira attorno ai 60 euro mensili, una miseria!”. Riguardo al Pamir, l’incognita è il saliscendi a “yo-yo” oltre i 4000 m: lassù l’ossigeno nell’aria diminuisce, il sangue fluidifica meno e la pressione si alza. Dice di essere stato a Khorog in aereo (euro 67), una delle esperienze più esilaranti, ma anche terrificanti, della sua vita: “L’aereo vola talmente vicino alle vette rocciose che si vede la neve staccarsi per lo spostamento d’aria”. I trasporti via terra sono cari: “La benzina costa come in Europa”. Mi ricorda che per visitare il Pamir occorre il permesso GBAO (Gorno-Badakhshan Autonomous Oblast), una sorta di visto regionale che ho già ottenuto in Italia: “A Dushanbe si ottiene facilmente, ma la procedura tra carte e uffici fa perdere una giornata”. Dushambe in tagiko significa “lunedì”, il giorno in cui si svolgeva un grande mercato. Città piacevole, ombreggiata e vagamente esotica, ma niente di trascendentale. Giro attorno alla Maydani Azadi (“piazza libertà”), podio del vistoso arco dorato che fa da cornice kitsch alla statua di Ismail Samani, capo della dinastia persiana dei Samanidi che governò la Transoxiana nel X sec. Proseguo per viale Rudaki, in breve supero la cancellata del palazzo presidenziale ed entro nell’arioso Doxat, luogo di ritrovo alla moda dell’aristocrazia locale. Suonano le sirene e sul viale totalmente deserto sfrecciano a tutta velocità decine di auto nere di scorta ad un ministro cinese. La presenza della Cina, con prestiti e finanziamenti, è sottolineata da cartelli dai contenuti accoglienti posti un po’ dovunque. Termino chay (tè) e tambuta (ripieno di carne), gentilmente offerti da un certo Omar Sharif, e mi rifugio in albergo a preparare lo zaino: domani vado in Pamir e… sento odore d’imprevisti.

Lungo il confine afgano

Già prima delle 7 sono alla “Avtokolonna 2927 - Stianka Pamir Badakhshan taxi”, la stazione dei fuoristrada collettivi per Khorog, situata nei pressi dell’aeroporto. Nel recinto interno, decine di 4x4 giapponesi, con gli autisti e i passeggeri intenti a sistemare sacchi e bagagli nelle rastrelliere sui mezzi mi regalano una visione pionieristica eccitante! Contratto il prezzo per un posto sulla Toyota Land Cruiser di Zuir Korok, ma non si scende sotto ai 300 Somoni (45 euro), in compenso è un buon mezzo, gomme in ordine, e siedo davanti per godermi il panorama e fare foto. Per i dati organizzativi sul viaggio, chi dice 540 km chi 640, chi 16 ore chi 24, niente è certo... dipende dalla strada, se secca o bagnata, dal driver, dal motore, sperando che non ceda... vedremo. L’auto ha 3 file di sedili, in fondo sono sistemati 3 donne e 2 bambini: in totale, con l’autista siamo in 10. Alle 7.40 si parte. Giunti al bivio di Kofarnikhon con mia sorpresa il driver gira a destra, per il sud: “In questa stagione preferiamo aggirare i passi del nord passando per Kulab, a circa 200 km, seguiamo poi l’arco del confine afgano per altri 420 km, fino a destinazione”. E aggiunge: “Andare per il Saghirdasht Pass (3252 m) a nord occorrono più ore, si arriva al confine afgano col buio e si deve dormire per strada, mentre da qui si spera di arrivare in giornata“. Quindi, prima andiamo a sud, poi a nord fino a Kalaikhum e poi di nuovo a sud.

I posti di polizia si sprecano, ogni volta ci fermano e Zuir scende tranquillo per il consueto baksis: uno, due o tre somoni (0.15, 0.30, 0.45 cent. di euro), come una tassa non scritta per rimpinguare il magro salario. Il primo tratto del percorso è segnato dal fiume Vakhsh, dal tunnel Shar e dalla bella veduta dall’alto del lago Nurekskoe. Dopo la breve sosta al colorito mercato di Kulab, attorno a mezzogiorno, ci fermiamo per un pasto nel luogo di ristoro convenzionale a tutte le jeep che passano da qui. Ne conto una dozzina, ma solo in due andiamo a Khorog. Ordino una chorba, ovvero zuppa di carne e verza, con l’immancabile chay e l’ottimo pane (per fortuna). Il checkpoint militare al Pamir Gateway, con controllo passaporto e GBAO, non indica solo l’ingresso alla regione autonoma del Gorno-Badakshan ma anche e, soprattutto, l’inizio del viaggio, quello “vero” per eccellenza. Da subito tutto cambia: strada sterrata, che si deteriora rapidamente, montagne, vette innevate, paesaggi notevoli. Tra nubi di sabbia alzati dalla Toyota che ci precede, scendiamo verso la verde vallata del Panj (detto anche Amudarya, anticamente Oxus), il fiume che segna il confine con l’Afganistan e sfocia nel Mare d’Aral.

Presto la valle si stringe a canyon, con il corso d’acqua che scorre sotto impetuoso. Sul lato afgano, una sequela di ordinati villaggi, bambini che fanno il bagno, donne che lavano i panni, gente a piedi, su muli, in moto, in pulmino: immagini che scorrono lungo una interminabile mulattiera. Dopo il ponte in ferro tagiko/afgano sulla destra, una cascata scroscia sulla strada e Zuir si mette sotto per pulire e rinfrescare il mezzo. Anche se il telo cerato sul tetto non tutela i bagagli dall’acqua né dalla polvere. Lo scenario è mozzafiato, una intensa gioia per lo spirito parzialmente smorzata da due fattori: la versione dj di Zuir che, dalla partenza, spara a tutto volume musica di ogni genere nell’abitacolo e la sua guida esagitata. Zuir è bravo, guida bene, ma ha in testa una sua tabella di marcia: vuole tirare per riuscire a dormire a Khorog. La pista in sabbia e roccia, a tratti franata, stretta, scivolosa e priva di protezioni, è percorsa da Zuir a velocità esagerata: spesso non vedo il ciglio della strada ma solo il precipizio, in connubio con una folle musica assordante da Apocalypse Now. Sosta forzata per una foratura al secondo checkpoint, quello all’ingresso a Kalaikhum, cittadina della Pamir Highway a 240 km da Khorog. Tanto più si avanza, tanto più il paesaggio diventa intenso, drammatico, avvincente, e mi godo metro dopo metro; purtroppo verso Rusham il sole si spegne e mi spiace “un casino”. Ceniamo all’aperto in un locale privo di illuminazione: per gustarsi questa roba al buio ci vuole una gran fame.

Khorog, capitale del Gorno-Badakhshan

All’una di notte, dopo oltre 17 ore di corsa, entriamo a Khorong, cittadina a 2200 m... e non fa freddo. Nei sedili in fondo, più stretti, i due bambini di 7 anni scendono solo tre volte in tutto, senza mai un lamento. Complimenti ai genitori! La piacevole cittadina è divisa su due sponde collegate da un ponte principale e da due pedonali, mentre il ponte afgano è a Tem, 7 km a nord del bazar. Sono al Pamir Lodge (5 euro), ambiente spartano e distesa di tappeti condivisa con un gruppo di ciclisti inglesi, il tedesco Thomas, col suo furgone Volkswagen in panne, e sei trekkers israeliani, a dimostrazione che qui non ci sono discriminazioni. Gli Ismaeliti sono progressisti anti Talebani e seguaci dell’Aga Khan, ritenuto discendente di Maometto: “Noi siamo persiani d’origine”. Steve, l’americano che lavora per Wikipedia Travel, sottovoce mi confida: “I fori di mitraglia sui muri delle case risalgono all’estate scorsa, quando la città è stata teatro di intensi scontri a fuoco tra le truppe governative ed i separatisti Ismaeliti del Gorno-Badakhshan, questa grande regione divisa tra Tagikistan e Afganistan – il governo dice 42 morti, ma in realtà sono stati almeno 200”. Passa poi al problema delle altitudini: “Ogni anno qualche turista muore e non c’è nulla che si possa fare, by luck! … muoiono quelli che non stano bene e si fermano 2 giorni a Murghab nella speranza che passi tutto .. se a Murghab stai male, non ti fermare, scendi subito di quota”.

La gente, sia uomini sia donne, qui ha un bel modo di salutare: si mettono la mano sul cuore e poi ti stringono la tua con entrambe le mani accompagnati da un genuino sorriso solare. Si mettono subito all’ascolto, a disposizione. Le ragazze sono deliziose, allegre, e socializzano con piacere senza paranoie. La cocomeraia non vuole soldi; chiedo da dove posso telefonare in Italia e un ragazzo mi passa il suo cellulare: “Tieni, puoi parlare per 3, anzi 5 minuti”. E infine mi trovo in un appartamento a festeggiare uno sposalizio, con cibi, bevande, musica e danze. Prendo atto che per caricare la sola dote è arrivato un camioncino. Tutti mi coccolano e subito m’innamoro della loro educata, positiva semplicità.

Da Khorog a Murgab

Oltre il Khorog City Park, uno spazio verde voluto dall’Aga Khan Foundation, inizia il bazar da dove partono i fuoristrada per Murgab. Scelgo la Mitsubishi Pajero 3000 di Absalì, il ridente driver dai lineamenti mongoli, che mi assicura il posto davanti: 310 km per 20 euro e 7 ore di viaggio previste. Ci attendono quattro passi oltre i 4000 m e i negozi sono ricolmi di cioccolate, caramelle e cibi secchi indicati per le alte quote. Alle 10.30, dopo 3 ore di attesa, l’auto si completa con altri 8 passeggeri, tutte donne, e finalmente si parte. Giusta sosta per acclimatarsi con un salubre bagno turco nell’hamam del Sanatorio Sarez di Jilande (3600 m), lungo edificio affacciato su una bella valle ricca di sorgenti d’acqua calda. La Pamir Highway, siglata come M41, fu costruita nel 1934 dai militari russi per facilitare il trasporto di truppe nei remoti avamposti dell’Impero Sovietico. Proibita ai viaggiatori fino a poco fa, questa sperduta strada tra alte vette ghiacciate mi fa rivivere l’atmosfera degli altopiani tibetani, per la presenza di yurte, di yak e i laghi di un blu intenso. Scorre tra un susseguirsi di paesaggi dai colori pastello, da sembrare dipinti, irreali, unici! Dopo 140 km siamo sul Kayfezer Pass (4272 m) e da qui non si scende più fino a Murgab. Incontriamo due ciclisti, due motociclisti, un borioso tedesco su un track miliardario e una coppia di ucraini a piedi: lei è molto carina e si chiama Sveta, lui non ricordo. Sosta d’obbligo per un pesce di lago al ristorante di Alicur, una distesa di case bianche e basse nella piana arida del deserto.

Murgab, la città più alta del Tagikistan

Alle 19.30 la statua della tigre in gesso sulla roccia ci annuncia la discesa alla spettacolare valle del Murgab, ovvero “fiume degli uccelli” in persiano. A 9 ore dalla partenza eccoci a destinazione: ai posti di blocco militari, come sempre è l’autista che scende a consegnare i documenti e nessun poliziotto è mai venuto solo a guardarmi. Giornata di sole, calda, e viaggio easy. Solo una settimana fa a Murgab è nevicato, con la temperatura a meno 4. In inverno dicono si arrivi a meno 50. Valutate le varie proposte di alloggio, tutte con le “latrine” nei cortili, a 30m dalle camere, per poca differenza di prezzo, decido di alloggiare al Pamir Hotel (11 euro), il top della zona. Tuttavia anche qui non esistono tubature o scarichi e tutto è organizzato in modo artigianale; i bagni sono in comune e le scarpe si lasciano giù nella hall. Murgab è la “città” più alta del Tagikistan (3650 m), una distesa di povere case in argilla sviluppatasi su morbide terrazze nella parte nord della valle, col suo fulcro nel singolare bazar formato da due vie parallele di negozi, magazzini, ristoranti e caffetterie ricavati da cassoni di furgone, baracche in ferro e box di lamiera, in una scenografica quanto unica container-ville. Colpisce il contrasto fra la miriade di antenne tv a parabola e le primitive abitazioni su cui sono montate. La “cittadina” è abitata dai pacifici Sarik, popolazione tagiko/kirghiza, che indossano i loro tradizionali cappelli felpati di genere himalayano. Tutti salutano e con garbo invitano ad entrare nelle loro case. Quando s’incontrano, l’uomo bacia la mano alla donna e la donna all’uomo. Nulla a che vedere coi burka e la distanza abissale fra uomo e donna del vicino Afganistan. L’impressione è che qui facciano tutto le donne, gli uomini fumano e guidano. L’atmosfera generale è molto gradevole.

Verso Sary-Tash, nel Kirghizistan

Col buio delle 5, si parte in Toyota 4x4 dallo spiazzo alle spalle del bazar e si sale subito all’Akbaytal (4655 m), il passo più alto della Pamir Highway. Sembra di essere in cima al Monte Bianco. Luminose vallate lunari d’alta quota riprendono in successione tra guadi, fiumi, neve e montagne vellutate dalle mille sfumature, armoniose nei colori e nelle forme: “da estasi perpetua”. Dopo il tendone del check point di Karakul, sperduto villaggio sul lago omonimo, e le baracche cilindriche della dogana, il monumento dello stambecco al Kyril-Art Pass (4280 m) segna il confine tra Tagikistan e Kirghizistan: zero controlli in entrambe le frontiere, neppure una domanda. A sinistra il Pik Lenin (7134 m) domina la bianca catena dell’Alau e davanti, un verdissimo altipiano ci accompagna a Sary-Tash, remoto paese kirghiso collocato al bivio per la Cina. Sono le 10.30 e qui termina la parte più bella e vergine della Pamir Highway, la seconda strada internazionale più alta del mondo dopo quella del Karakorum, mia prossima destinazione. Percorsa da millenni, conosciuta come via della seta e del commercio d’oppio, è oggi una strada molto trascurata e, in certi punti, gravemente danneggiata da erosioni, terremoti, frane e valanghe. Tuttavia percorrerla , è stato più facile di quello che pensavo, tenendo presente che sono stato fortunato per il clima e non solo: nessuna temuta bufera di neve e nessun problema per l’altitudine.