Al fronte (26 Marzo). Il mattino seguente, con un taxi pagato dall’organizzazione, in compagnia di Awad e di altri, andiamo verso la base di Irbid e sulla via sostiamo in un campo profughi: le tende sono nel fango e la gente vive in condizioni disastrose. All’arrivo ci dicono che George Abbash, capo e fondatore del D.P.F.L.P. (Democratic Popular Front for the Liberation of the Palestina), vorrebbe parlarci; Awad entra nel suo ufficio e ci annuncia. Sta terminando una discussione animata con altri membri del Fronte; noi attendiamo in disparte assieme ad un giornalista francese dell’Observateur e di Paris Match. Quando si rivolge a noi è per ringraziarci del nostro contributo nel far conoscere al mondo la loro causa. Però, dopo aver osservato l’articolo su Autosprint che Awad gli ha allungato, Abbash cambia espressione dando segni di nervosismo: la foto dei suoi uomini sopra il tetto della 500 Fiat, pubblicata su di un giornale sportivo, lo altera. Avevo portato l’articolo per Awad e mai avrei pensato di trovarmi in una situazione del genere: mi sento come un alunno che ha svolto male il compito. La foto non sarà seria, ma è simpatica e in fondo anche gli sportivi devono essere informati. Quando Awad gli parla della mostra che ho organizzato, sembra quietarsi; deve aver realizzato che, per le nostre possibilità, quello che abbiamo fatto è anche troppo. All’uscita dalla stanza trovo alcune persone che si ricordano di me, beviamo un chai assieme prima di salire sulla Land Rover diretta al fiume Giordano, mentre il giornalista francese rimane ad Irbid. Arrivati al villaggio di Sciuna, 12 km a sud del lago Tiberiade, le persone che difendono questo avamposto sono per me facce nuove: molti adolescenti o giovanissimi, armati sino ai denti. Ad un bambino di dieci anni è stato regalato un grosso revolver in occasione della sua centesima operazione in Cisgiordania. La naturalezza con la quale i più giovani esprimono le loro opinioni agli adulti, tenute in considerazione, è sorprendente. Un’altra delle cose che mi colpisce della prima linea, è qualcosa di impalpabile che è nell’aria e mantiene lucidi e svegli. Sembrerebbe che le condizioni ideali dell’uomo siano proprio queste: la lotta per la sopravvivenza, che permette di apprezzare appieno la vita, e la povertà (la povertà, non la miseria). Sciuna, sul lato orientale del fiume Giordano, è un ammasso di macerie e monconi di case; sono ormai anni che vi cade ogni tipo d’esplosivo ed è tra i villaggi più bersagliati dalle truppe israeliane. Subito dietro al paesino vi sono colline con piccole grotte dove molti combattenti si rifugiano la notte; alle spalle di queste, vicinissima, la parete rocciosa di una montagna, dove grotte più grandi ospitano le guardie del re ed i loro potenti cannoni puntati verso Israele, all’occorrenza usati anche contro i palestinesi. Oltre il fiume ci sono i fortini ‘nemici’ coi loro potenti cannocchiali a periscopio. Ogni sera, al calar del sole, gruppi spontanei di ragazzini si organizzano per operazioni di guerriglia in ‘terra occupata’. Se, per qualche imprevisto, non riescono a rientrare prima dell’alba, si nascondono nelle case dei contadini arabi e attendono il buio per non essere visti. Ad ogni operazione riuscita segue un’offensiva di fuoco israeliana da venti a cento volte superiore: con missili terra-terra o coi paracadutisti che invadono l’intera zona dopo averla bombardata per ore. Queste incursioni punitive all’ultimo sangue a volte coinvolgono loro malgrado anche le pacifiche guardie del re; può succedere però che dall’alto delle grotte assistano all’attacco israeliano senza intervenire.

Appena si sparge la voce che siamo italiani, alcuni ragazzi ci raccontano eccitati le assurde imprese di un sedicente giornalista italiano che era qui qualche giorno prima. Si faceva chiamare Castro ed era in compagnia di una giovane donna inglese. Castro, appostato su di un albero in ‘terra occupata’, ha atteso la squadra israeliana che ogni mattina passa in perlustrazione coi cani per controllare se durante la notte sono esplose le mine. Col teleobiettivo ha quindi fotografato il gruppo in avvicinamento ed appena sono stati a tiro li ha falciati con una raffica di mitra. Con calma, ha poi fotografati cadaveri, cani compresi. La sera prima che partisse, a qualche centinaio di metri da dove stiamo parlando, i ragazzi hanno iniziato a sparare coi mortai e Castro ne ha voluto uno tutto per sé, impartendo lezioni sul migliore utilizzo. Un personaggio che ha galvanizzato tutti. Avendo conosciuto solo Castro, qui c’è chi pensa che tutti gli italiani siano come lui: probabilmente un ex mercenario o qualcosa del genere. Io invece sono qui con delle Istamatic, una storia meno esaltante, speriamo che la capiscano.

Tutti sono cordiali come sempre e ben disposti a conversare, hanno coscienza di un sacco di cose e si può discutere a lungo con molti di loro senza faticare. L’unico che vedo in difficoltà è Ismail, capo momentaneo di questa sezione; di quelli che non sbagliano mai e pretendono di essere capiti al volo con un’occhiata. A parte questo atteggiamento, è un bravo ragazzo, cosciente delle proprie responsabilità. La “colpa” è anche di Milvia, la cui presenza lo tormenta. Turbato ed in continua agitazione, ci parla spesso di attacchi da lui organizzati e mi dice, in modo chiaro che capisca anche Milvia: “Se sei un uomo devi venire anche tu”. Quasi una sfida. Ismail è in verità l’unico un po’ pesante, ma al momento niente di incontrollabile. Awad lo giustifica spiegandomi che una presenza così femminile come quella di Milvia può, in effetti, creare delle turbe mentali a dei ragazzi che vivono al fronte da ormai sei mesi senza mai vedere una donna. Il sesso può essere difficile da controllare e se uccidono per un ideale potrebbero farlo anche per un colpo di testa, ma io continuo a sentire che è tutto sotto controllo. Queste sono comunque le tensioni che girano per il campo.

Dopo un pasto a lume di candela con ciapati (pane), olive e formaggio, ci sistemiamo per la notte nel sotterraneo di una casa bombardata, tutti allineati per terra; noi due dormiamo vicino al muro coperti da un unico panno ed Awad si pone tra noi e gli altri cinque. Durante la notte esplosioni e rumori di combattimenti si odono dal paese più a monte del fiume; i bagliori ci arrivano deboli. Qui a Sciuna si teme la rappresaglia per le bombe da mortaio lanciate la sera di Castro, ma sino ad ora niente.

27 Marzo. Ci alziamo presto e facciamo colazione con ciapati, olive e formaggio; si mangia sempre e solo questo, sembra l’unico cibo reperibile. Con l’aiuto di Awad cerco di convincere Ismail ed altri ad andare insieme a simulare scene di guerra, come in un film, e nonostante mugugni e lamenti come “Non sono cose da veri uomini”, alla fine accettano. Ci rechiamo con una dozzina di uomini in una zona vicina, dove li dispongo armati tra i cespugli; recitano tutti malissimo, non riescono ad essere naturali o si mettono addirittura in posa, decido così di metterli tutti come morti e non se ne parli più. A questo punto il capo Ismail si rifiuta di fare la parte del morto e mi sbotta un secco: “Se vuoi delle foto di guerra vieni con noi domani”. Lo sapevo che andava a finire così. Anche l’idea di dare le macchine fotografiche a dei ragazzi che vanno oltre il fiume è da escludere. Mi vuole in guerra, non ho capito se è per farmi vedere quanto è bravo lui o per ridicolizzarmi. Nel pomeriggio i ragazzi incitati da Awad, che mi presenta come un grande giornalista da rispettare, fanno delle esercitazioni per mostrarmi il loro grado di preparazione e spericolatezza. Con corde si arrampicano su ripide pareti granitiche, carichi di armi e zaini da veri alpini. Spesso mi chiedono che grado avevo sotto l’esercito in Italia, per capire se sono in grado di valutare, o addirittura dei consigli, obbligandomi ad improvvisare. Alcuni scorgono un compagno che ad un centinaio di metri si ritrae dietro ad un grosso masso per fare i propri bisogni e cominciano a sparargli tutto attorno divertiti: il malcapitato urla, impreca, obbligato a rimanere chino più del dovuto. Mentre le manovre di scalata proseguono, Ismail lavora su dei cavi elettrici per cercare di aggiustare un razzo rocket catturato al nemico: si sta preparando per l’attacco di domani.

Alla sera, mentre ceniamo, manifesto molte perplessità sulla mia partecipazione all’operazione in programma il giorno seguente. Mi hanno spiegato il meccanismo dell’azione e la curiosità di questa esperienza mi tenta, ma è una sensazione strana, molto forte. Awad è d’accordo per andare, si tratterebbe della stessa operazione che eravamo tentati di fare quattro mesi fa con Adriano e Paolo e che, per una ‘curiosa combinazione’, è stata rinviata fino ad oggi. In sintesi: bisogna alzarsi all’alba, camminare alcune ore fino a raggiungere una zona occupata dagli israeliani nella riva est del fiume, aggirare un campo minato e due fortini israeliti, appostarsi poi nel punto X e attendere. Alle 12 di ogni giorno un carro cingolato svolge un giro di perlustrazione ed Ismail col suo bazooka-rocket, in un’azione fulminea, dovrebbe distruggere il carro. Bisogna poi correre a buttarsi in un piccolo canale vicino poiché, appena dal forte sentono gli spari e non hanno più segnali dal carro, la zona potrebbe venire invasa dal fuoco delle bombe al napalm ed è quindi di vitale importanza restare ben calmi nell’acqua del canale fino a che non giunge il buio.

Sto scivolando in una confusione crescente e decido di non andare. Anche se non può dimostrarlo, Awad è contento: essendo il mio tutore non va neppure lui. A questo punto, incredibile ma vero, interviene Milvia con la sua candida vocina a pronunciare la frase storica di Ismail: "Se sei un uomo devi andare", testuali parole. “Cos’è questa storia dell’uomo? quale uomo? andare dove? non è mica obbligatorio”, ribatto a raffica sorpreso dalle insensate parole di Milvia. Tutto appare ora tremendamente insensato. Awad scoppia a ridere e con lui tutti gli altri. C’è un ’atmosfera di gioco, notata in altre occasioni, c’è lo spirito col quale all’imbrunire si formano i gruppi che vanno a fare “casino” dall’altra parte: come da noi andare al bar e scegliere i compagni coi quali recarsi al cinema. Una dimensione intensa e contagiosa che fa apparire tutto questo normale, ma la differenza tra un film di guerra, e la guerriglia dal vivo è enorme. E’ vero che l’idea di venire a fare delle foto è mia, così come l’idea di far svolgere il mio lavoro ad altri, ma da questo a farsi ammazzare, così su due piedi, non me la sento. Con la scusa di andare a urinare esco dalla tana in cerca d’aria fresca per ragionare da solo e, tra le tante cose, penso che se dovessi tornare a Modena senza una gamba i miei amici mi prenderebbero in giro per tutta la vita. E’ ovvio che ogni azione ha un proprio grado di rischio più o meno elevato, ma la cosa che più mi lascia perplesso sono gli stessi ragazzi, che non mi sembrano così sicuri. Non sarà che Ismail, dopo quattro mesi di rinvii, ha scelto proprio questo momento perché ci siamo noi? Anche Awad esce per consultarsi: entrambi siamo indecisi. Mi racconta che un mese fa due ragazzi finlandesi hanno partecipato ad un’operazione azzardata: sono tornati stravolti perché hanno dovuto correre per ore, braccati dagli israeliani. Tutti i giorni partono gruppi, ma solo di rado vengono intercettati perché solitamente studiano minuziosamente il piano e le vie di fuga. Con l’intenzione di addentrarmi nei particolari, chiedo chiarimenti su alcuni punti per me oscuri: “Bisogna stare nell’acqua fino a sera, ma loro non vengono a controllare?”. “Si, ma noi seguiamo il canale fino ad allontanarci il più possibile e in genere non si avventurano oltre certi limiti”. Parlando a lungo sotto un manto di stelle mettiamo a fuoco la logica dell’ottimismo, prevale la convinzione di andare, che sarà solo una passeggiata. Soddisfatto di essermi tolto il dubbio, sto per accendermi una sigaretta, ma Awad me la toglie ricordandomi che l’intera zona è sotto il mirino di potenti binocoli a raggi infrarossi. Poco dopo si odono dei carri cingolati sull’altra riva, sembrano a due passi da noi. Lanciano alcuni razzi illuminanti che rischiarano a giorno l’intera valle del Giordano, ma nessuno sparo. Si teme che abbiano intercettato un commando e li stiano cercando.

L’indomani (28 Marzo) Ismail esce presto dalla base e quando ritorna ci spiega che ha avuto un diverbio con i beduini dell’esercito; costoro gli hanno proibito, nel caso ne avesse l’intenzione, di andare da quella parte. Non gli interessa ciò che dicono loro, ma a causa di questa lite è ormai tardi e si deve rinviare l’operazione a domani. Questa notizia mi rattrista perché la spedizione è un pensiero che vorrei togliermi al più presto. Mi chiede se voglio andare in perlustrazione con dei cecchini e scattare così alcune foto. Carico dalla notte prima, accetto di seguirli per rendermi conto personalmente di come si muovono e soprattutto per verificare come reagisco io e farmi un’idea di ciò che potranno essere le difficoltà di domani. Awad mi ritiene in buone mani e resta a fare compagnia a Milvia. Pure Ismail resta alla base per mettere a punto il suo rocket, un’opera d’artigianato balistico.

Per leggere la prima parte:
Diario di guerra dal fronte palestinese: Il Viaggio

Per leggere la terza parte:
Diario di guerra dal fronte palestinese: Operazione "Talet Musa"

Per leggere la quarta parte:
Diario di guerra dal fronte palestinese: Verso casa