A Londra acquisto un biglietto scontato “a miglia”, ovvero sulla distanza. Dopo avere saltellato per le isole del Pacifico, mi trovo a Mount Hagen, capoluogo delle highlands nel cuore della Papua Niugini. E’ il secondo Stato dell’Oceania dopo l’Australia, da cui dista un centinaio di chilometri. La religione è perlopiù cristiana, ma rimangono profondamente radicate credenze ancestrali di carattere animistico. La mia presenza in questa grossa isola è puramente casuale: quando si viaggia in assoluta libertà, senza l’assillo del tempo, è il viaggio stesso a scegliere per noi i luoghi in cui sostare e le relazioni del momento.

Sono giunto tra le montagne interne della Papuasia in autobus da Lae, sospinto dalla curiosità di conoscere la comunità di connazionali qui residenti e, soprattutto, dai bizzarri racconti sui nativi fatti dal console italiano Peter Ferraris: “Per tre giorni non crederai ai tuoi occhi”, mi aveva detto. Aveva ragione. Mai visto tanto colore, fantasia e aborigeni in vita mia; un’ubriacatura di immagini singolari e spettacolari. In particolare in questo periodo, poiché a giorni avrà inizio il grande festival del sing-sing (canta-canta), il raduno interetnico che si celebra ogni anno, dal 17 al 19 agosto, allo scopo di stemperare, con sfide estetiche e danzanti, le rivalità e i rancori esistenti tra le numerose tribù che popolano le “Terre Alte”. Un osservatorio d’eccezione. In poche altre parti del pianeta si ha l’opportunità di assistere all’assembramento di migliaia di indigeni provenienti da svariati villaggi e decisamente autentici. A Mount Hagen, inoltre, si gode di un clima eccellente: sono a 1677 metri, altitudine che garantisce aria fresca, assenza di umidità e di fastidiose quanto temibili zanzare, diffuse in tutte le aree tropicali.

Appena sceso dal bus, resto colpito da una donna che, nel pieno di una lite tra maschi si spoglia e, completamente nuda, si mette a urlare e a correre in un campo aperto, con due ali di uomini silenti che le corrono accanto guardandole il viso senza fiatare. Dopo circa cento metri, la donna si arresta di colpo e tutti assieme tornano indietro mogi e silenziosi. Mi dicono in seguito che le donne usano queste strategie quando è in atto una lite: tentano in questo modo di placare gli animi dei litiganti. Può capitare che gli uomini si prendano “a macetate” e la causa è spesso legata all’infedeltà delle mogli. Specie se l’amante è di un’altra tribù o ancor peggio se di una tribù rivale.

Pochi istanti e sul ciglio della strada vedo passare la figura altezzosa di un omaccione ben ritto, sguardo fiero e una lunga lancia in mano. E’ seguito da tre mogli in fila, con le schiene curve a causa del peso dei bambini e di enormi fasci di legna. Nello stesso istante passa, a bassa quota, un piccolo aereo che lancia sulla piazza dei normali sottobicchieri di cartoncino pressato a scopo pubblicitario, quelli comunemente usati nelle nostre birrerie. Alla vista del lancio, di colpo il fiero capo famiglia e tutti gli altri perdono ogni controllo; si scompongono per rincorrere e raccogliere quei cerchietti venuti dal cielo, poi li tagliano ad arte col coltello, quindi si tolgono l’osso dalle narici dentro al quale infilano il cartone per mostrare, altezzosi, il loro trofeo appeso al naso: “Drink Jolly Beer”. Esilarante! In netto contrasto con l’atteggiamento superbamente virile di pochi attimi prima. Per di più, a un indigeno che rincorre i cerchietti, nello scomporsi, si stacca il laccio che lega e sorregge la scultura di un enorme fallo in legno che copre i genitali, mostrando così il vero membro, di dimensione decisamente inferiore.

Fatti curiosi si susseguono quasi a ogni passo. Già dal semplice abbigliamento è facile intuire la fantastica creatività di questo popolo: uomini scalzi che indossano giacche doppiopetto attillate, poste sopra a gonnellini di foglie, piume sulla testa, occhiali scuri da donna ornati di brillantini, ossa al naso, oltre a mascelle di pipistrello, fischietti da arbitro e ogni zavaglio (ciarpame) d’importazione appesi al collo. Ma quando vedo una mucca avvicinarsi, da dietro, a due indigeni intenti a conversare, staccare loro le foglie che coprono i genitali, come “merenda”, questa loro normalità mi appare decisamente “comica”. Cerco allora di specchiarmi sulla nostra normalità che, per certi aspetti, mi appare altrettanto ridicola. Immagino un aborigeno che ci vede passeggiare tenendo al guinzaglio un cagnolino, magari avvolto da un vestitino fatto su misura, ecc, ecc.

La loro stessa lingua è qualcosa di insolito e di buffo, frutto di contaminazioni prodotte dal colonialismo. Qui si parla il tok-pisin, ovvero tok da “parlare” e pisin da “pidgin”, che è la lingua creola basata su un inglese storpiato, fortemente semplificato e spesso privo di articoli. Un anglo-idioma derivante dalla mescolanza, appunto, della lingua dei colonizzatori e le lingue indigene pre-esistenti. E’ stato lo stesso Ferraris, con una telefonata da Lae, a mettermi in contatto con la comunità di italiani residenti quassù e a chiedere al veneto Dino di ospitarmi. Oltre a Dino, tra gli italiani presenti, lego in particolar modo con il sanguigno Gianni Franzin o Johnny, proprietario del forno Mt. Hagen Bakery, e soprattutto con suo nipote di Treviso, il ventiduenne Luciano Franzin. Tutti gli anziani residenti sono giunti in Australia nell’immediato dopoguerra e poi si sono trasferiti qui per svariate opportunità di lavoro. Gli anziani parlano con nostalgia del periodo di Mussolini e ricordano con entusiasmo la figura del defunto principe golpista* Valerio Borghese, che negli anni ‘70 venne pure a Mount Hagen a trovarli.

Gli italiani del posto soffrono di un’ansia comune a tutti coloro che cominciano a sentire l’intero pianeta a propria disposizione e le diverse possibilità lavorative che esso offre, con una visione globale tipicamente anglosassone. Cominciano così a pensare di trasferirsi altrove, si lamentano, ogni giorno ripetono che sarà l’ultimo, ma poi grazie al lauto stipendio e ai benefici concessi agli occidentali restano “inchiodati” nelle highlands per anni. Qui si appartiene a una élite solo per il fatto di essere white, un “privilegio” che a molti dispiace perdere, mentre altrove diventerebbero anonimi come chiunque. In definitiva, si parla molto di lavoro, di soldi e delle “mattane” che combinano gli indigeni.

All’alba Egidio di Brescia mi invita ad accompagnarlo a Mendi, distante 97 km, dove ha il compito di dare disposizioni sull’utilizzo di enormi Caterpillar che stanno spianando il terreno. Un giro di lavoro in pick-up Toyota, tanto per farci reciproca compagnia e mostrarmi l’altopiano del nord. Mi spiega che guidare in Papuasia è pericoloso: “Siccome gli indigeni si assomigliano un po’ tutti, la stessa patente la usano in dieci”. Dopo circa un’ora di guida lungo la strada deserta e sterrata, che solca la fertile valle del Wahgi, cominciamo a vedere sempre più indigeni armati, che Egidio definisce: “Più agitati del solito”. Con aria di sufficienza, quasi annoiato, comincia a inveire contro quei “rompiballe” dei nativi. Sgrano gli occhi per non perdermi nulla ma, per gli occidentali che lavorano qui, è la consuetudine e dopo anni delle stesse sceneggiate, definite “ridicole e infantili”, danno segni di forte insofferenza: “E’ troppo difficile convivere con questi primitivi fuori di testa”.

Ancora pochi minuti e, davanti a noi, vediamo due turbolente tribù sui lati opposti della strada che si stanno affrontando con lanci di frecce, grida di guerra e gesti scalmanati. Un centinaio di persone in tutto. La tribù a destra è posizionata su un lieve promontorio simile ad un argine, mentre l'altra è più in basso, in un terreno leggermente spiovente. Tutti sbraitano, inveiscono, gridano, ogni tanto parte una freccia tirata in alto, nel vuoto, giusto per intimidire. Le donne delle due fazioni sono raggruppate ai lati e a loro volta urlano come ossesse ma non per spaventare i nemici. Sono urla di timore, preoccupate solo di evitare che il tutto sfoci in uno scontro vero, con mariti e figli che “finirebbero per farsi del male”. Egidio, per niente preoccupato, con una brusca frenata blocca l’auto proprio tra i due schieramenti di guerrieri, esattamente nel tratto di pista al centro della baraonda. Scende deciso dalla vettura e, a pieni polmoni e in italiano, urla: “Basta! Non rompete i coglioni, tornate a casa!” Poi in inglese: “Go back home!”. Li sgrida! A quel punto, incredibile ma vero, gli indigeni si bloccano in un silenzio surreale e, intimiditi dalla presenza di Egidio, cominciano a guardare verso l’alto, nel vuoto, imbarazzati come bambini piccoli messi in castigo dalla maestra. Non osano neppure guardarci. Un atteggiamento inatteso, strambo, per me difficile da decifrare. Egidio risale in auto sbattendo la portiera con veemenza e appena partiamo i guerrieri ricominciano a urlare esagitati come e più di prima.

Egidio spiega che succede di frequente, gli scontri tribali sono all’ordine del giorno, ma in genere quando si dispongono in quel modo, si sa che non combinano niente: “Can che abbaia non morde”. Non vanno oltre: “Qualche freccia che per sbaglio si conficca nella chiappa di un avversario, null’altro”. Continua: “Quando fanno sul serio, urlano e schiamazzano in un modo diverso e gli scontri in genere sono seguiti da un pubblico di altre tribù che tifa come a un incontro di calcio. A volte interviene la polizia per dividerli e allora le due tribù rivali si alleano per battere la polizia”.

Continua la lezione di Egidio in papualogia: “La pigrizia di questi nativi è ben nota ai residenti bianchi”. Solo un esempio fra mille: “Per rimediare alla scarsità di grossa selvaggina e quindi di carne, il governo ha escogitato un piano per incrementarla. Ha quindi importato e donato a ogni villaggio un toro e dieci mucche, allo scopo di fare prolificare il bestiame e rendere la popolazione autosufficiente. I nativi hanno visto che il toro era più grosso delle mucche e lo hanno mangiato per primo”. Un po’ come il nostro “Meglio un uovo oggi che una gallina domani”. Egidio mi apre gli occhi anche sul simbolismo dei nativi, che aiuta a capire meglio questi curiosi comportamenti: “Le ragazze con il gonnellino aperto ai lati non sono sposate e civettano in cerca di un marito, mentre se indossano la gonna tutta cucita indicano che sono sposate. Le vedove sono invece riconoscibili per la gonna mezza scucita e per i mille giri di collana attorno al collo”.

Per strada si vedono molte donne senza dita: “E’ la punizione che infligge il marito quando la moglie non sa cucinare, ma alcune donne usano tagliarsi un pezzo di dito e tingersi il volto di giallo anche quando un parente muore”. In generale, il marito può comprare tante mogli, che sistema ognuna in un proprio singolo capanno, come un harem. Quando restano incinte devono trasferirsi a casa dei genitori, l’uomo non vuol sapere niente a riguardo, e possono tornare dal marito solo quando il bimbo è già in grado di camminare. Le donne allattano i propri figli, quelli degli altri e anche i cuccioli di maialino. Attaccano il bimbo a un seno e contemporaneamente il maiale all’altro. “Se muore il figlio di un capo tribù, questi viene cotto e mangiato, per impossessarsi della forza di un erede leader”. Infine un disappunto di Egidio, dal tono quasi irritato: “Se vedono una coppia di bianchi che si tengono per mano si scandalizzano, mentre loro vanno in giro seminudi”.

Per l’ora di cena sono nuovamente a casa di Nando, che ora è la mia base nelle highlands. Un semplice materasso al suolo in uno stanzone disadorno e tutto per me. Nando convive con una donna locale, Amì, acquistata pagando al padre un migliaio di Kina (US$ 400 circa). Amì è forse l’unica ragazza bella di tutto il paese ma, essendo indigena, la mentalità dei bianchi del luogo non fa sconti: Nando non è più ben accetto nel club dov’era solito andare, di chiara matrice anglosassone, ma a lui poco importa. Amì ha un figlio di 5 anni di nome Ribì, che vive con loro; la “fissa” di Nando pare essere quella di voler educare Ribì all’occidentale, con vestiti puliti e bei modi. Per questo non sente ragioni, diventa severo e pretenzioso, vive questa idea al pari di una missione. In cuor suo vorrebbe farlo diventare o apparire come un piccolo Lord inglese, ovvero “più bianco di un bianco”.

E’ domenica, saliamo tutti cinque sulla jeep Toyota di Nando per andare a trovare i genitori di Amì che vivono in un villaggio a una ventina di chilometri. Per arrivarci, seguiamo un sentiero tra la sterpaglia: il villaggio è composto da un'unica capanna solitaria in mezzo al nulla. Dentro troviamo i due anziani genitori seduti al suolo, a gambe incrociate, che stanno cuocendo della carne posta su dei sassi neri bruciati dal fuoco. Il fumo invade tutto l’interno e trova sfogo dal grosso foro situato nella parte alta della capanna. Ribì è vestito con un completino formato da giacca, pantaloni corti, calze e scarpe tutto rigorosamente bianco, sul genere prima comunione. Appena vede la carne sul fuoco perde completamente la testa, non gli frega più niente del vestito, delle regole e dell’occidente: si precipita sulla carne carbonizzata, quasi si tuffa, ne prende un pezzo a mani nude, se lo ficca in bocca e si sporca tutto l’abito di nero carbone in un modo “ignobile”. A quella vista “orribile”, a quel cedimento da “richiamo della foresta”, Nando pare impazzire, va in fibrillazione, balbetta, corre a staccare un piccolo ramo da un albero vicino e comincia a frustare freneticamente nelle gambe il piccolo Ribì: “Yu no gud, mi stik yu”.

Interveniamo e, a fatica, Nando si placa, mentre, dietro alla capanna, i genitori di Amì hanno appena accecato un maiale con un ferro rovente. “Come mai un gesto tanto crudele?”. Chiediamo. “Che senso ha, a cosa serve?”. E’ semplice, per arare. Il padre lega il povero animale a un albero con una corda lunga circa due metri. Questi, essendo orbo, raspa e smuove la terra tutto attorno all’albero. Quando ha finito gli mettono al collo una corda più lunga e così via, finché il maiale non ha arato un buon tratto di terreno. Una volta terminato, da corda a corda e da albero ad albero, arriva il padre che butta i semi e semina, a conferma della proverbiale pigrizia di questa gente. Luciano mi presenta Peter, un giovane greco dai modi leziosi, che si è fatto mandare da Singapore un mezzo a pedali, attrezzato per vendere gelati sulle strade ma, purtroppo, il suo gelataio ambulante si mangia sempre tutto e alla sera i conti non tornano quasi mai. Lo stesso Peter ha preso in gestione l’unico cinema presente in città.

La sera entro a dare un’occhiata alla sala del cinema, che è affollatissima e si sta proiettando un film in bianco e nero di genere romantico. I posti a sedere sono tutti occupati, così come le quattro colonne tonde in ferro, dal diametro di una ventina di centimetri. Due colonne per lato. Arrampicati su ognuna, uno sopra l’altro fino al soffitto, trovano posto tre o quattro spettatori, che seguono la trama rilassati e perfettamente a loro agio. A un certo punto la tensione generale cresce e il vociare aumenta di volume fino a diventare incontenibile, con urla e lattine di bibite che volano dalle loggione contro lo schermo e un po’ dappertutto. Follia pura! Il motivo? La scena dove lui piange per lei, accentuata dal suono di violini. Vedere un temuto “Masta” (così chiamano ancora i padroni bianchi) che piange per amore, per gli indigeni è davvero troppo! Una visione che fa saltare i loro bioritmi e rivoluziona ogni loro parametro mentale e sociale faticosamente inculcato dai colonialisti. Il lato romantico dei rudi e potenti bianchi, mai neppure ipotizzato dai nativi, ne ha evidenziato una sorta di debolezza insospettabile. In sintesi, hanno distrutto il cinema e ora Peter si rimprovera la scelta errata sulla tematica della proiezione. Giura che appena terminerà il contratto restituirà il cinema: “Non farò mai più un errore del genere”. Nel frattempo la polizia corre in fondo alla valle dove altre tribù si stanno affrontando. Le forze dell’ordine sono in perenne movimento. A Mont Hagen regna in permanenza un animato fermento, non ci si annoia mai.

In giro si dice che gli operai indigeni non sono affidabili, infatti rubano di tutto e di più. Dal forno di Franzin portano via zucchero e farina; da Egidio pezzi di ricambio, arnesi, ecc. I bianchi li chiamano “scimmie” e qualche tempo fa un datore di lavoro che li trattava male è stato ucciso a sassate dai suoi operai. Una sera, mentre attraversava un ponte in auto, questi hanno messo un tronco al suolo all’uscita del ponte e un altro dietro per ostruire i passaggi e le vie di fuga. La polizia ha catturato solo quattro colpevoli, che hanno avuto una pena di tre anni soltanto, avevano l’attenuante di essere brilli. Un altro bianco è stato colpito con un macete alla schiena. Queste sono solo alcune delle tante storie di dominio pubblico qui a Mount Hagen, dove pare che tutti sappiano tutto di tutti.

Ognuno si raccomanda vivamente con me di non offrire mai qualcosa ai nativi, poiché loro equivocano il gesto: “Scambiano la gentilezza per debolezza”. Un gesto generoso è espressione di timore nei loro confronti per cui si potrebbero creare situazioni complicate da gestire. Il suggerimento diretto è: “Se stai mangiando del pane e ne offri loro un pezzo, la volta successiva devi offrire loro la stessa quantità, altrimenti si offendono a morte, perché ormai lo considerano dovuto. In caso contrario, si dimostra pubblicamente di non temerli più e viene considerata come una sfida”. La stessa cosa succede per una bevanda, se offri le due dita in fondo alla bottiglia, quelle due dita di liquido, secondo i loro parametri, saranno dovute loro per sempre. In tal caso: “Guai dimenticarsi di finire la bibita senza passargliela. Meglio evitare: mai offrire!”.

Il giorno dopo prendo un minibus collettivo per tornare a valle e siedo accanto a un ragazzino taciturno. A metà mattinata scarto un sandwich e faccio la prova, dopo un paio di morsi chiedo al ragazzo, perennemente accigliato, se ne vuole un pezzo. Senza fiatare lo prende e se lo mangia, guardandomi per tutto il viaggio in “cagnesco”. Molti bianchi pensano a come sfruttare economicamente questa realtà priva di tante facility (servizi), considerati scontati da noi in Occidente. C’è chi, addirittura, sta considerando un servizio di aliscafi per l’isola di Rabaul. Piero Nacci, altro italiano di Mont Hagen, mi confida di stare progettando l’importazione di una cabina fotografica, di quelle che fanno le foto tessera per strada perché qui ancora non ne esistono. E’ sicuro che, alterando le tonalità dei chiari-scuri dell’immagine, fino a fare risultare i nativi molto più chiari, quasi bianchi, sarà un successone. Una parte dei residenti occidentali sembra si limiti ad osservare i nativi con distacco e pigra tolleranza, magari sfruttando proprio le loro ingenuità.

Finita la sosta in Papuasia, mi ritrovo sul volo per Manila via Brisbane. Sull’aereo da Port Moresby vedo svariati giovani australiani sposati con ragazze del Niugini. La maggioranza sono impiegati di banca che, dopo uno o più anni di isolata permanenza in Papuasia, cominciano a cogliere in queste ragazze, incredibilmente femminili nei movimenti ma decisamente poco avvenenti, il fascino più della bellezza. Personalmente sto andando a studiare da vicino i guaritori filippini, capitanati da Alex Orbito, ma questo è un'altro racconto ...

*golpe annullato dallo stesso Borghese, mentre era in corso di esecuzione, per motivi mai chiariti - 1970.

Tutte le immagini sono relative al Festival del Sing-Sing di Mount Hagen.