Si dice che quando si desidera molto e troppo a lungo una cosa, se questa finalmente si verifica non può che deluderci. Questo è un po’ quel che mi accadde visitando le case di Pablo Neruda in Cile.

Grande ammiratore di Neruda in gioventù, avevo sempre sognato una visita alla mitica Isla Negra, la sua residenza sul Pacifico in cui tante delle sue opere avevano visto la luce. Tale sogno poté infine avverarsi, grazie ad un viaggio di lavoro a Santiago del Cile.

Prima delusione: contrariamente al suo nome, Isla Negra non è un’isola. È il nome di fantasia (ormai entrato nella topografia ufficiale) dato da Neruda alla località sulla costa cilena dove decise di costruire la sua residenza.

Seconda delusione: all’interno della casa si mescolano cose sublimi, quali le antiche polene dei velieri o gli oggetti di arte orientale acquisiti (oggi si direbbe trafugati?) dal poeta nel corso delle sue missioni diplomatiche in Asia, con vera e propria paccottiglia – apribottiglie, portaceneri in plastica, sottobicchieri di cartone per la birra, souvenirs per turisti, ombrelli. Un po’ come nella sua poesia?

Terza delusione: perché il poeta, potendo attingere alla sua vasta e multiforme opera, decise di trascrivere sul muro di casa proprio la banalotta “Oda al vino” tratta dalle sue Odas elementales?

Ma ecco che, dopo aver dato sfogo a queste recriminazioni da amante tradito, mi ravvedo ed entro senza altri preamboli in argomento. E parlerò non soltanto di Isla Negra, ma anche delle altre case di Neruda da me visitate in Cile: la Chascona di Santiago e la Sebastiana di Valparaiso (alla morte del poeta, tutte e tre sono state riunite in una fondazione e trasformate in altrettanti musei aperti al pubblico).

In generale va detto che Neruda appartiene alla categoria dei costruttori e degli accumulatori seriali, come Victor Hugo (la casa di Place des Vosges, Hauteville House a Guernesey) e D’Annunzio (La Capponcina, il Vittoriale). Fra i tre, D’Annunzio è forse quello dal gusto più sicuro, Neruda quello esteticamente più incerto, ai limiti del Kitsch.

La sua smania di costruire case, di essere architetto, fu una costante che lo accompagnò fino alla morte. Come disse Delia del Carril, la sua seconda moglie in un’intervista: «Pablo era un costruttore. Doveva costruire case». E le sue case si moltiplicano, crescono nel tempo e si impregnano di un'aria nerudiana che le rende uniche. Inoltre, come per Hugo e D’Annunzio, ad ogni costruzione corrisponde una determinata fase della sua poesia.

Nel recensire nel 1936 il suo capolavoro Residencia en la tierra un altro Premio Nobel cileno, la poetessa Gabriela Mistral disse che «Neruda è un mistico della materia», dando così probabilmente la migliore definizione della sua intera opera. Ecco che case e versi scaturiscono da un unico movimento del cuore e della mente, dalla sensualità e dal contatto fisico con le cose materiali.

Come dice un altro importante poeta cileno, Raul Zurita «…è questo legame con la materia -in ciò che è più irriducibile, più tattile e metafisico, più immediato e resistente - che costituisce il filo conduttore, attraverso le sue molteplici metamorfosi e mutamenti, di tutta la scrittura di Neruda».

Come per la poesia, Neruda coltiva uno stile proprio anche nell’architettura. Grande ispiratrice è la natura - in particolare l’Oceano - che suggerisce line architettoniche ondulate e senza angoli e un grande uso del legno e della pietra. E le sue case crescono, come in natura, e per usare le sue parole, «come le persone e gli alberi». Ad Isla Negra il legno usato per le travi, i tavoli e gli interni è quello recuperato dal mare.

L’arredamento degli interni permise a Neruda di dar sfogo al suo collezionismo compulsivo. Ancora come D’Annunzio e Victor Hugo, Neruda affastellava gli oggetti più curiosi e disparati, comprati nei mercatini delle pulci e dagli antiquari: carte geografiche, carillon, cavalli a dondolo, cannocchiali, conchiglie, denti di capodoglio, navi in bottiglia. Oltre che a pezzi scelti, come le antiche polene dei velieri; o gli oggetti d’antiquariato che si era procurato a Colombo, Batavia (Giava), Rangoon e Singapore quando vi aveva abitato negli anni Trenta, da console del Cile, assieme alla prima moglie Maria Antonieta Haagenar .

Una vera e propria ossessione furono le polene, ad ognuna delle quali attribuisce un nome: la Medusa, la Sirena, la Maria Celeste, la Novia, la Cymbelina, la Bonita, la Micaela…

Jorge Edwards, l’importante scrittore cileno recentemente scomparso, nella sua fondamentale biografia di Neruda Adios, poeta… dedica un intero capitolo a questa sua patologica ansia di accumulazione. Scrive che Neruda «era un collezionista nato, incorreggibile, che dedicava molte ore a questa inclinazione… Il collezionismo di Neruda inizia con la sua stessa opera poetica... che mostra una costante tendenza alla litania, all'enumerazione, all'accumulo di metafore».

Ma veniamo concretamente alle case, una per una e in ordine cronologico di costruzione, cominciando da Isla Negra, la preferita dal poeta e quella che lo rispecchia di più.

Isla Negra

Il luogo è magnifico, con l’oceano che muggisce e s’infrange incessantemente sulle rocce nere, ed alte araucarie (l‘albero simbolo del Cile) avvolte dalla nebbia marina. Luogo eminentemente propizio alla creazione letteraria del poeta, che infatti vi visse a lungo e decise di esservi sepolto.

In cerca di una casa, il poeta giunse su questa costa, allora molto selvaggia, a cavallo, nel 1937. Intuì subito che lì, il confronto con gli elementi gli sarebbe stato fonte costante d’ispirazione. Scrive in proposito nel suo libro Una casa en la arena: «ho sentito come una fitta, questo odore di inverno marino, un misto di boldo e sabbia salata, alghe e cardo».

Delia del Carril raccontò come quella che era inizialmente una casetta in pietra andò trasformandosi negli anni in un palazzo, in un museo, con tanto di torre da cui scrutare il mare.

Ad Isla Negra, il mare è il grande protagonista. Scrive Neruda, sempre in Una casa en la arena: «L’Oceano Pacifico debordava dalla mappa. Non si sapeva dove metterlo. Era così grande, disordinato e azzurro che non ci stava da nessuna parte. Per questo lo lasciarono davanti alla mia finestra».

E ancora sull’oceano:

«Non legatelo. Non rinchiudetelo. Sta ancora nascendo. L'acqua si schianta sulla pietra e i suoi infiniti occhi si aprono per la prima volta. Ma si richiudono, non per morire, ma per continuare a nascere».

Tipico della produzione riconducibile a Isla Negra il libro di poesie Maremoto. Il titolo allude alla natura del Cile, caratterizzata dalla tragica frequenza di terremoti ed eruzioni vulcaniche che da sempre ne martellano la geografia. Il maremoto è preceduto da un movimento dell'oceano che si ritrae per chilometri e chilometri, lasciando sul bacino asciutto tutta la moltitudine delle sue specie: alghe, molluschi, pesci, stelle marine. Saranno questi frutti del mare ad essere celebrati da Neruda in queste poesie. Due esempi fra tutti, quella sul riccio di mare: «…il riccio è come il mondo: rotondo, fragile, nascosto: umido, segreto e ostile: il riccio è come l'amore» ; e quella sul polipo «oh testimonianza viscerale, ramo di lampi ghiacciati, capo di una monarchia di braccia e presentimenti; nuvola plurale di pioggia nera».

La Chascona

È la casa di Santiago, costruita fra una vegetazione lussureggiante sulle pendici del monte San Cristobal che domina la capitale. Qui Neruda visse gli amori clandestini con Matilde Urrutia prima che diventasse la sua terza e ultima moglie.

La costruzione iniziò nel 1953 quando la sua relazione con Matilde, di vent’anni più giovane, era già nota a tutti, tranne naturalmente che a Delia.

Essendo inizialmente destinata ad alcova per gli incontri con l’amante, prima sorsero la camera da letto ed il soggiorno, poi, dopo la separazione da Delia nel 1955, la cucina, la sala da pranzo, il bar - altra costante delle sue abitazioni - e la biblioteca. Neruda pretese, con logica da poeta, che l’abitazione, anziché alla città sottostante, guardasse alla Cordigliera sul retro.

La Sebastiana

La Sebastiana si trova a Valparaiso, abbarbicata sulla collina sovrastante il grande e pittoresco porto. Il poeta la volle, come disse in una poesia ad essa dedicata, costruita “interamente d’aria”, nel 1959.

Neruda sente un fascino precoce e viscerale per Valparaiso - la città dalle funicolari colorate - che, vista di notte dall’alto appare come una vaga miriade di fosforescenze sullo sfondo dell’oceano.

Il poeta volle dare alla Sebastiana un aspetto navale, sostituendo alcune finestre con oblò e facendo entrare l’Oceano dalle grandi vetrate, in modo che la luce inondasse tutte le stanze e soprattutto lo studio con la scrivania in legno grezzo e le consunte poltrone in pelle. Anche qui, abbonda la paccottiglia.

Nell’avviarmi alla conclusione del mio pezzo, mi accorgo di essere forse stato un po’ troppo severo con il mito (infranto?) della mia gioventù e le sue debolezze. Cerco quindi di riparare.

Neruda è un grande scrittore. Nel 1971 ricevette il Premio Nobel per la letteratura, ed è il poeta sudamericano più amato e famoso del Novecento. Basterebbe il suo libro Residencia en la Tierra - che recepisce e trascende le esperienze del simbolismo e del surrealismo - per consacrarlo come una delle vette della poesia moderna, assieme a T.S. Eliot, Montale, Valery o Garcia Lorca. Gli si perdonino quindi l’eloquenza enfatica e la facilità di molta della sua produzione successiva, gli scivoloni politici (le odi a Stalin…), le cadute di gusto, la retorica e la propaganda.

Fino a poco tempo fa Neruda era molto popolare in tutto il mondo per la facilità/felicità torrenziali di molta della sua produzione e il suo carattere istrionico. Non c’era quasi giovane innamorato che non si fosse sdilinquito sui Veinte poemas de amor y una cancion desesperada o terzomondista che non si fosse sentito battere forte il cuore alla lettura del suo Canto general. Grazie anche al sostegno che sempre ricevette dall’intellettualità internazionale di sinistra, Neruda riuscì ad oscurare la fama dell’altro (e forse più) grande poeta cileno del Novecento, Vicente Huidobro.

Oggi temo che non sia più così. Si tende a mettere Neruda nello stesso calderone di altri, assai meno validi scrittori sudamericani quali Isabel Allende, Luis Sepulveda o Paulo Coelho, immersi tutti in quella melassa “buonista”, “esotista” e “politically correct” in cui invariabilmente si cade quando si parla di America Latina. Pronto per essere declamato ai matrimoni o ai funerali. Ma questi sono i tempi in cui viviamo.