Simbiosi col bosco

Il naso è qui nel bosco a raccogliermi profumi. Questo mio rilievo splancocranico, dal dorso piccolo, da sempre un poco femmineo, sembra oggi boccetta d'essenze, sembra oggi cosa viva,

nell'allargare le narici e stringerle, come due zampette intente ad arraffar profumi: aroma di bosso qua, effluvio di echinacea là, fragranza di ginepro, e grazia di alloro, e essenza di azalea:

dal naso i balsami mi invadono la mente, come sollevandomi dal terreno, e sbattendomi da un oleandro a un cespuglio di rose, lo sguardo sovvertendomi; e così, preso al naso, incapace

di capir, preda di ricordi… galleggianti souvenir, vestigia a brandelli, orme d'immagini… vago e rievoco; e la testa mi gira, per il buon odore di foglie, di cortecce, e chiome soffiate dal vento,

gira e diventa leggera, come vetro di Murano; e non riesco a fermare il passo, né riesco a non respirare, ma anzi, più forte lo farei, respirerei grovigli di radici, e peduncoli di fiori, tufferei il

naso nelle zolle, lo schiaccerei su foglie cadute e sulle appese, e anzi, a occhi chiusi, lascio ai profumi di accomodarmi allo sguardo arbusti sempreverdi e prati rustici fioriti da sementi di

festuca, e fasci di fogliame variegato, e il verde glauco (e lo conosco dal profumo, sì…) delle specie arboree; e così, ceco ma pieno di faville su palpebre chiuse, il bosco mi si serra attorno

e mi carezza con le fronde e i ciuffi d'erbe, coi tronchi, ruvidi al tatto ma dal tocco gentile, s'appressa, il bosco, e mi sfiora, e poi è dentro me, il bosco, passando tutto quanto per il naso,

lo sento crescermi nello stomaco e nel torace, uscirmi dalle orecchie, sgorgarmi dalla bocca, spremersi dalla pelle: il passo mi si irrigidisce, le dita si allungano, si dividono, il naso cresce e

cresce, i piedi si sfrangiano, diventano radice, bucandomi le scarpette, la lingua si secca e si fa di pietra, anzi di legno, piena di scanalature, screpolature, come tronchetto d'albero, i denti

pure diventan lignei, il palato membrana dura, setolosa, e i capelli si sfanno in ciuffi di piante marine, la pelle si squama come foglia secca e scaglie di cortecce d'albero, e spalanco gli occhi

e sono uomo d'alberi, Uomo-Bosco, e tutto s'è impresso in me intricandomi le sembianze, ogni pianta, ogni fiore, ogni filo d'erba, granello di terra è in un lembo, ancorché minuscolo, del

mio corpo, e in sembianza silvestre, respiro ora bosco e non c'è cellula a non gridare… estasi!

Simbiosi con la pioggia

Le gocce cadono sulle tamerici e cadono sulle canne di bambù, suonandole aiutate dal vento, un suono di flauto, leggero leggero, diverso dal picchiettio sulle foglie cedue di una farnia, però

indistinguibile al nostro orecchio, anche se non all'orecchio dannunziano, secondo il quale, nel cadere, la pioggia fa suoni diversi su diverse specie arboree; e invece, non mi fa differenza,

il trapestio della pioggia sulle nostre teste, ora poi che ti ho persa, non fa differenza, il suono, è un acciottolio monotono, e non m'importa se la pioggia cade, e dove cada, non importa se la

pioggia sia dappertutto, lo so, non cade solo sul mio orto, ma pure su quello del vicino e del vicino del vicino, la pioggia riguarda tutti, e noi lo sappiamo, ma non lo immaginiamo: i versi di

Dannunzio vogliono farci vedere con la mente, vogliono farci immaginare, insegnarci; ma a me non importa, ora poi che ti ho persa, e mentre passo, la pioggia mi punzecchia, la pioggia cade

su di me, e questo basta. Cade sui miei capelli, crespi e attorti, cade sulla mia fronte, affranta e corrugata, sulle sopracciglia inarcate e storte, cade sulle palpebre, semichiuse e tristi, e cade

sugli occhi oggi grigi e ieri celesti, strabuzzati, e sanguinei, ma secchi, senza lacrime, ed eppure come pieni di orzaioli, e mi cade sul naso con le narici come infilzate di spilli, la punta mobile a

scacciare moschini, cade, la pioggia, sulla bocca contratta, piegata, vinta, chiusa, aperta, cade sulle labbra ora sporte, e dopo rinserrate, cade anche sui denti, digrignanti, avorio giallo, irati,

una goccia si deposita sulla lingua, dal sapore incolore, e salmastro, di lagrima, è una lagrima, cade sul mento aguzzo ma oggi spuntato, cade sulle guance crepuscolari e su zigomi affacciati,

nelle orecchie curve e curvilinee, ingombranti, sgocciola nel collo venoso e gozzuto, e striscia fastidiante giù dal torace all'ombelico, e cade sulle mani, sui dorsi e sui palmi, su dita ossute,

dita tremanti, dita ghermenti, dita frementi, e cade in mezzo alle dita, cade sui vestimenti, per me in cammino a capo chino, triste, nel dì che sei persa, cade sulla casacca, cade sulla giacca,

cade sulla camicia, trapassando alla maglietta, cade sui jeans chiari, e sugli sbreghi di tessuto, su lembi di pelle e peli, e cade sulle scarpette e dentro le scarpette sulle calze, cade e cado pur

io, in zuppa di fango e indumenti muovendomi, lavacro di lagrime, cade la pioggia e cado io, la sciacquatura facendosi violenta, sciacquando e risciacquando, il risciacquo mi risciacqua, da te

persa per sempre, sciacquio sciacquante, tu in ogni cellula, in ogni punto del mio corpo, lava, l'acqua, infilzandomi di spruzzi, avvolgendomi, ed ecco: ogni rilievo viscerocranico si stacca via

e viene risucchiato, la pelle si scrosta a brani e bande, rivelando le ossa facciali, e si sradicano, i capelli, e le dita saltano, come dita lebbrose, morto vivente, e non lo sono forse, zombie, ora

che sei persa? L'acqua nelle scarpette zuppe mi corrode e io sono a terra, come bastone, faccia nel fango rimasto in ossa nude: mi appartenevi. Eri me. Tu eri me. Adesso sei sparsa fuori di me.