Se ci chiedono cosa sappiamo dell’esplorazione dello Spazio, con molta probabilità la prima cosa che ci verrà in mente sarà lo sbarco sulla Luna, o magari i clamorosi lanci spaziali di Elon Musk, che con le sue navi vuole colonizzare la Luna e Marte. Più raramente ci ricordiamo della Stazione Spaziale Internazionale, che da oltre 25 anni esiste nello Spazio come una piccola città invisibile, a cui solo pochi anni fa si è aggiunto il “Palazzo Celeste” della Cina. A queste due presto se ne aggiungeranno altre, sia Nazionali che private, che andranno a popolare i cieli sopra il nostro pianeta, diventando dei veri avamposti dell’umanità nello Spazio.

L’antesignana delle attuali e delle future stazioni spaziali fu la MIR, che operò in orbita terrestre dal 1986 al 2001, inizialmente gestita dall'Unione Sovietica e successivamente dalla Russia. Prima ancora, ci furono cinque Salyut russe e lo Skylab americano. Piccole città invisibili ai nostri occhi, ma che ospitarono per molti anni, donne e uomini di diverse nazionalità.

Uno sviluppo, quello delle città spaziali, che ebbe le sue origini fin dai primordi della fantascienza, per poi concretizzarsi nei calcoli di pionieri come Konstantin Tsiolkovsky, Hermann Oberth e Robert Esnault-Pelterie, padri fondatori dell’Astronautica. Nomi oggi dimenticati, ma che tracciarono le linee guida necessarie agli ingegneri per costruire i mezzi a raggiungere lo spazio. Ma i calcoli da soli non bastavano, infatti, oltre alla genialità erano necessarie somme di denaro così alte, che al tempo solo sconvolgimenti politici o peggio guerre, permettevano di essere stanziate. È ciò che accadde per le V2 di Hitler, i primi missili balistici della storia, che dalle coste olandesi piovevano seminando strage sui cieli di Londra.

Alla fine della Seconda guerra mondiale, nonostante gli atti di pace universali, fu sempre a scopi militari che Stati Uniti e Unione Sovietica, prima alleati e poi rivali, dirottarono enormi quantità di denaro per prepararsi a un confronto armato, anche nello Spazio. Anni nei quali le popolazioni del mondo vissero in una atmosfera di non guerra, che fu chiamata “guerra fredda”, dove il pericolo dell’olocausto nucleare, rappresentato dall’arsenale militare dei due Stati, consentiva la pace mondiale grazie alla strategia della “deterrenza”, poiché l’attacco da parte di una delle due superpotenze avrebbe visto la risposta da parte dell’altra, con il conseguente annientamento di entrambe e di tutta la vita sulla terra.

Le prime avvisaglie della fine della guerra fredda risalgono al 1989, con la caduta del Muro di Berlino. La stessa città dove nel 1948, si era creata una delle più forti crisi diplomatiche fra USA e URSS, quando i sovietici bloccarono tutti gli accessi stradali e ferroviari a Berlino Ovest. Berlino, città al di fuori dei confini dei due Stati, ma che ci fa comprendere come l’eredità della Seconda guerra mondiale, abbia portato i vincitori a spartirsi in zone d’influenza l’intero globo terrestre, e non poteva esserne da meno lo Spazio, una frontiera ormai “a portata di mano” grazie alla più giovane delle scienze: l’Astronautica.

La contesa per il controllo del mondo conobbe fasi alterne, con contrasti fra USA e URSS ben più gravi degli attuali, come la crisi missilistica di Cuba (1962) e di molte guerre 'calde', combattute dai protagonisti senza mai avere uno scontro diretto, come quelle in Corea (1950-53), in Vietnam (conclusa nel 1975), e in Afganistan (1979 – 1989). Non mancarono comunque lunghi periodi di relativa stabilità del quadro internazionale, che condussero, nel corso degli anni Ottanta, alla distensione nelle relazioni tra le due superpotenze, fino alla dissoluzione dell’Unione Sovietica nel 1991, e alla nascita della Federazione Russa, che portò alla realizzazione della Stazione Spaziale Internazionale.

Da un punto di vista storico, la guerra fredda nello Spazio, o perlomeno l’idea di dominarlo per dominare dall’alto la terra, nasce nel 1947, quando il Segretario alla Difesa degli Stati Uniti James Forrestal dichiarò: “Chi arriverà per primo a lanciare nello spazio un satellite artificiale, sarà il padrone del mondo”.

Con un occhio al posizionamento strategico sulla terra e ai suoi accadimenti, le due superpotenze iniziarono quindi a guardare “in alto”, consapevoli della verità contenuta nelle parole di Forrestal. I russi non persero tempo, contrariamente agli americani, che si illudevano che l’ex alleato fosse uscito dalla Seconda guerra mondiale quasi completamente distrutto. Un ritardo che avrebbero pagato caro in termini militari e di primati spaziali, e che recuperarono solo dopo dieci anni di “inseguimento”.

La Corsa allo Spazio, quindi, iniziò come una sfida militare, e come tale continuò incessantemente fino 1989, per poi rallentare con la caduta dell’Unione Sovietica. Ciononostante, il controllo delle vie d’accesso allo Spazio e la sua militarizzazione non cessarono mai del tutto, riprendendo con maggior vigore all’inizio del terzo millennio, quando la disponibilità di tecnologie avanzate a basso costo e l’avvento della Intelligenza Artificiale, hanno consentito l’affacciarsi allo Spazio di soggetti privati, come SpaceX di Elon Musk e Blue Origin di Jeff Bezos, e di nuovi pretendenti nazionali, primi fra tutti Cina e India. Una situazione strategica che ha messo in allarme i paesi occidentali, Stati Uniti in testa. Una crisi che si è ulteriormente aggravata a causa dell’aggressiva politica estera adottata dalla Russia, che pur continuando a essere un valido partner per la Stazione Spaziale Internazionale, l’ha portata prima ad annettersi di forza la Crimea (2014) e poi attaccare militarmente l’Ucraina (2022) per il controllo della regione orientale del Donbas, scatenando una guerra in Europa, che tutt’ora non vede ancora alcun spiraglio di tregua.

La Luna, quindi, negli anni 60 del secolo scorso non fu un vero obiettivo scientifico, ma solo una meta simbolica. Un luogo inaccessibile dove piantare una bandiera, e poter dimostrare al mondo “di essere arrivati per primi, e quindi, d’avere un sistema politico, industriale ed economico in grado di consentire traguardi prima impensabili”. Una meta, quella della Luna, che gli Stati Uniti raggiunsero nel luglio 1969, quando Neil Armstrong e Buzz Aldrin lasciarono nel mare della Tranquillità la bandiera statunitense: “a nome di tutta l’umanità”. Fu solo dopo aver raggiunto l’obiettivo politico, che la comunità scientifica poté far valere il proprio peso sulla NASA e sul Governo, affinché l’impegno di miliardi di dollari, mezzi e uomini, non fosse disperso in una semplice gara, ma si trasformasse realmente in una esplorazione scientifica a vantaggio di tutti i popoli.

Sebbene sconfitta nella gara lunare, l’Unione Sovietica però non si dette per vinta, e rilanciò dove gli Stati Uniti erano ancora in ritardo, e cioè nelle stazioni spaziali. Infatti, se studiamo le dichiarazioni e i documenti dell’epoca, insieme alle interviste rilasciate sul finire degli anni ’90 da coloro che parteciparono al programma spaziale sovietico, non era la Luna l’obiettivo primario della nazione, ma bensì la realizzazione di stazioni spaziali, proposito che fu tralasciato quando il Cremlino si fece trascinare nella competizione con gli Stati Uniti per prestigio politico, in quello che fu senza dubbio un successo strategico statunitense, che riuscì in questo modo a distrarre l’URSS, e milioni di rubli, da altri impegni militari.

Per i russi, ma lo era anche per gli americani, la messa in orbita di stazioni spaziali militari, oltre a controllare lo Spazio circostante, avrebbe permesso di sorvegliare le frontiere, individuare in anticipo movimenti di truppe, e contrastare dall’alto un potenziale nemico senza il pericolo di essere colpiti. Per aggirare il "trattato per il bando degli esperimenti di armi nucleari nell'atmosfera, nello spazio cosmico e negli spazi subacquei", firmato a Mosca nel 1963, i sovietici semplicemente “travestirono” le loro prime stazioni come basi scientifiche, nella certezza che nessuno sarebbe stato in grado di controllarle.

Fu così che il 19 aprile 1971, l'Unione Sovietica mise in orbita Salyut 1, la prima stazione orbitale del mondo. Progettata per una vita operativa di sei mesi in orbita, la Salyut incontrò molte difficoltà, tant’è vero che il primo equipaggio non riuscì neppure ad accedervi, e dovette rientrare. Andò meglio al secondo, composto da Georgi Dobrovolski, Vladislav Volkov e Viktor Patsayev, che l’abitarono per 24 giorni, un vero record per quegli anni. Purtroppo, la missione si concluse tragicamente quando l'equipaggio trovò la morte durante il rientro, a causa dell'improvvisa depressurizzazione della loro navicella spaziale Soyuz 11.

Diversamente dalla prima, le Salyut 2 e 3 erano delle vere basi militari, ufficialmente dichiarate come laboratori di ricerca, il cui vero nome era “Almaz”. La Salyut 2 non entrò in funzione per problemi tecnici, ma la 3, lanciata nel 1974, divenne presto operativa iniziando a spiare i siti militari statunitensi. Le pellicole ottenute dall’osservazione venivano sviluppate a bordo, e poi rimandate a terra in contenitori che potevano essere recuperati a mezz'aria da appositi aerei.

A destare i primi sospetti agli osservatori occidentali erano la bassa quota, unita alla scelta di un equipaggio proveniente esclusivamente dall'aeronautica sovietica, e all'uso di frequenze radio normalmente destinate all'uso militare. Ma fu solo molti anni dopo che si seppe che la stazione era armata per l’autodifesa con un cannone, che i sovietici collaudarono nello spazio distruggendo un satellite bersaglio nel 1975. La quarta generazione di stazioni militari dovevano portare a bordo due razzi al posto del cannone, ma il programma fu annullato prima che venissero lanciate. Nei decenni successivi, gli ingegneri sovietici continuarono a migliorare il design originale delle Salyut, lanciando in orbita generazioni sempre più performanti, l’ultima delle quali, la Salyut 7, terminò le sue operazioni nel 1991. Queste piccole stazioni monoblocco, furono in grado di ospitare equipaggi per periodi sempre più lunghi, e diedero vita alle prime “case” spaziali, embrioni di quella modulare, la MIR, che in futuro sarebbe diventata la prima piccola città dello spazio. In quegli anni gli Statunitensi trovarono un modo più economico per spiare i russi, infatti, iniziarono a utilizzare fin dal 1959 un sistema di satelliti spia (programma Corona) gestiti direttamente dalla CIA. Le fotografie scattate in orbita venivano poi inviate a terra tramite un'apposita capsula, anche questa recuperabile in volo da un aereo tramite un apposito sistema.

Fu solo nel 1973 che gli americani lanciarono Skylab, la loro prima e finora unica stazione spaziale nazionale. La stazione, sempre del tipo a monoblocco e che per volume era molto più grande delle Salyut, ospitò tre equipaggi fino al 1974, per poi essere spinta su di un'orbita più alta, grazie ai motori dell’astronave Apollo dell’ultima missione, la Skylab 4. I calcoli della NASA prevedevano che questa manovra avrebbe garantito la sopravvivenza dello Skylab fino al 1983. I programmi della NASA prevedevano che attorno al 1979, uno Space Shuttle avrebbe agganciato un apposito modulo propulsore alla stazione, per riportare nuovamente lo Skylab in un'orbita più alta e continuare a presidiarla.

A marzo del 1978 però, i tecnici che periodicamente si collegavano alla stazione per verificarne le condizioni, si accorsero che ruotava lentamente su sé stessa, e quindi i sistemi radio funzionavano correttamente solo quando i pannelli solari erano rivolti verso il sole. Inoltre, i tecnici notarono che la sua orbita decadeva molto più velocemente di quanto era stato calcolato. Dopo numerosi controlli si arrivò alla inevitabile conclusione che la stazione era persa. Così, il 19 dicembre 1978, la NASA dovette dare l'annuncio ufficiale che lo Skylab non poteva più essere salvato. L’11 luglio 1979, durante l'ultima orbita intorno alla Terra, prima che iniziasse a precipitare, la NASA diede l'apposito comando ai propulsori di Skylab, così da allungare la sua traiettoria fino alla zona d’impatto prevista nell’Oceano Pacifico. La stazione però non rispose al comando, e fuori controllo si spezzò in più parti, frantumi anche di grosse dimensioni, che si diressero verso un’area molto più a est di quanto previsto, che comprendeva anche la città di Perth, nell'Australia Occidentale. Alcuni rottami caddero al suolo, ma fortunatamente non ci furono danni a persone o cose, ma l’incidente fece comprendere come il rientro dallo spazio di oggetti di grandi dimensioni, dovevano essere assolutamente eseguiti sotto controllo.

Furono ancora una volta i russi con la MIR, a realizzare la prima stazione spaziale modulare permanentemente presidiata. La stazione era composta da diversi moduli lanciati separatamente e successivamente uniti nello Spazio. L'assemblaggio iniziò il 20 febbraio 1986, e il suo completamento impegnò oltre un decennio, attraversando uno dei periodi più difficili della storia, con il disfacimento dell’Unione Sovietica e la nascita della Federazione Russa. Fino al 2000, la Mir fu l’unico avamposto permanente della presenza umana nello spazio. Oltre a innumerevoli esperimenti di carattere scientifico, ne vennero effettuati molti di carattere medico, studiando in particolare gli effetti che una lunga permanenza nello spazio provoca sull’organismo umano. Diversi cosmonauti, infatti, rimasero a bordo della stazione spaziale per molti mesi, stabilendo dei veri e propri record come quello di Valeri Poliakov, (1942-2022) che fra l’8 gennaio del 1994 e il 22 marzo del 1995 rimase a bordo della MIR per 437 giorni di fila.

Sebbene i Russi sperassero di mantenere la MIR in orbita ben oltre gli anni 2000, i costi della sua gestione, la vecchiaia delle strutture, e l’imminente presidio della Stazione Spaziale Internazionale (ISS), posero fine alla sua storica permanenza nello Spazio. Fu così che il 23 ottobre 2000, venne annunciato ufficialmente l’addio alla stazione. Cinque mesi dopo, nelle prime ore del mattino del 23 marzo 2001, venne avviata la manovra di rientro controllato in atmosfera, che avrebbe portato i frammenti più grandi a cadere nelle acque dell’Oceano Pacifico.

L’esperienza acquisita con l’assemblaggio della Mir fu fondamentale per lo sviluppo e la messa in funzione della ISS, il cui primo modulo, denominato Zarja, fu lanciato il 20 novembre 1998. Secondo i programmi iniziali la stazione doveva essere completata entro il 2017, tuttavia la ISS non ha mai smesso di essere ampliata, infatti, il laboratorio Nauka e il modulo Prichal sono stati installati nel 2021, completando 23 anni dopo il segmento orbitale russo. Sebbene il termine della sua operatività sia stato fissato per il 2030, la NASA ha firmato un contratto con Axiom Space per l'installazione di tre nuovi moduli, con il primo previsto per il 2024. Questi moduli costituiranno il primo "porto" commerciale per la ISS, e dopo la sua dismissione, l’embrione della prima stazione realizzata da un “privato” nello Spazio. A questa Base, alla quale la NASA avrà libero accesso tramite contratti di noleggio, ne seguiranno altre già in fase di progettazione, lasciando libera l’Agenzia di dedicarsi alla realizzazione della stazione translunare Lunar Gateway, che sarà il punto d’appoggio per le future missioni lunari, e che riunirà i partner attualmente coinvolti nella ISS, a esclusione della Russia, che da tempo ha pianificato la realizzazione di una stazione spaziale Nazionale, i cui primi moduli dovrebbero entrare in orbita sempre nel 2030, forse utilizzando il segmento attualmente collegato alla ISS.

Se ci chiediamo quali siano i motivi che hanno portato alla frammentazione della più lunga e pacifica collaborazione fra Nazioni nello spazio, e al ritorno alle stazioni spaziali nazionali, basta osservare l’attuale situazione geopolitica sul nostro pianeta. Negli ultimi decenni del secolo scorso, pur fra alti e bassi, la collaborazione nello spazio fra Russia, Stati Uniti ed Europa, ha continuato in modo proficuo oltre che sulla ISS, anche con missioni scientifiche congiunte, ma già da qualche tempo si notava un senso di insofferenza da parte della Federazione Russa. Un disagio spesso espresso in modo aggressivo dall’ex responsabile della Roscosmos, (l'agenzia spaziale russa), Dimitri Rogozin, che in seguito alle sanzioni messe in atto da parte dell’Occidente in protesta per l’annessione della Crimea nel 2014, ha più volte minacciato lo spegnimento dei motori del blocco russo che governa la stazione, causandone il deorbitamento incontrollato, per poi ripensarci e dire che avrebbe assicurato la propria presenza almeno fino al 2024, data poi spostata al 2030 dal nuovo capo della Roscosmos Yuri Borisov.

La volontà di continuare da soli nello spazio è solo una delle conseguenze della volontà di riscatto nazionale introdotta dal presidente russo Vladimir Putin, che in modo aggressivo e antidemocratico non si fa scrupolo di eliminare i nemici interni, e di regolare le relazioni internazionali con le armi. Così ha mandato soldati in Siria, in appoggio al presidente siriano Bashar al-Assad, e con i paesi confinanti, come accaduto con la Cecenia, e in seguito con l’Ucraina, dove con la scusa di liberare le popolazioni russofone del Donbass, in realtà nasconde la volontà di prendere il controllo delle ricche miniere di terre rare presenti nella regione. Una ricchezza ancora tutta da sfruttare, e che permetterà alla Russia un grande vantaggio competitivo nell’economia del futuro. Inutile sottolineare come questa aggressione abbia fatto inasprire i rapporti fra USA e Russia, che pur collaborando fino alla fine sulla ISS, di fatto l’unico anello ufficiale di congiunzione che attualmente esiste con l’Occidente, stanno cercando di arrivare a una separazione consenziente per non compromettere la sicurezza della Stazione e dei suoi occupanti.

La realizzazione della Ross (Russian Orbital Service Station), fa seguito all’annuncio di un accordo con la Cina per la realizzazione di una base lunare, è stata approvata da Putin nel 2021. In quella occasione il Presidente inviò un importante messaggio alla Nazione, nel quale sottolineò come la Russia guardi allo Spazio non solo come strumento di supremazia militare, ma anche come catalizzatore sociale di ricerca e di sviluppo economico, teso alla creazione di una space economy nazionale, per l’espansione della componentistica spaziale di nuova generazione, e sulla produzione di nuovi vettori di lancio e satelliti. Un discorso molto “Occidentale”, che guarda con attenzione al mercato dello Spazio, come accade negli Stati Uniti, dove la nascita di numerose start up, e l’espandersi dell’offerta commerciale dei vettori riutilizzabili di SpaceX, di proprietà del miliardario e patron di Tesla Elon Musk, stanno monopolizzando il mercato della componentistica e dei lanci, offrendo opportunità anche a Nazioni che mai avevano pensato di accedere allo Spazio.

A questo scenario, già di per sé critico, si aggiunge il prepotente ingresso nello Spazio della Cina. Il programma spaziale cinese è di vecchia data, ma solo recentemente si è concretizzato in una lunga serie di successi. Infatti, il lancio del loro primo Taikonauta (in Cina gli astronauti sono così chiamati da tai kong che in cinese significa Spazio) è solo del 2003, ma da quel primo lancio hanno realizzato con successo una serie di missioni sempre più ambiziose, saltando le tappe intermedie percorse negli anni ’60 del secolo scorso da Russia e Stati Uniti, che hanno portato alla realizzazione della loro stazione spaziale Tiangong (Palazzo Celeste), completata nel novembre 2022. La Cina inoltre ha annunciato che non si fermerà alla sola stazione, ma che ha intenzione di sbarcare sulla Luna e impiantarvi una base.

Il ritmo con il quale il gigante orientale sta scalando le orbite terrestri inquieta gli Stati Uniti, che pur dominando ancora lo Spazio vedono nella Cina la vera antagonista in una nuova “gara spaziale”. Un avversario, già “sorvegliato speciale” per il suo atteggiamento aggressivo nei confronti di Taiwan, che ha chiaramente dichiarato di voler ricongiungere alla “madre patria”, creando una fortissima tensione nella regione dell’Indo-Pacifico, con il pericoloso rischio di un “contatto” fra la flotta navale cinese e quella americana, alleata della piccola isola, che in quei mari staziona con la Flotta del Pacifico.

Se la Cina è pronta a giocare un ruolo da protagonista nell’attuale club spaziale insieme a Stati Uniti e Russia, non dobbiamo dimenticare l’India, un altro importante pretendente alla Luna. Infatti, dopo i recenti successi ottenuti con missioni automatiche inviate sulla Luna, Marte e il Sole, l’Agenzia spaziale indiana ISRO sta lavorando per lanciare il suo primo astronauta con la navicella Gaganyaan, una missione annunciata per il 2025 che farà da apripista a una già dichiarata volontà di scendere sulla Luna.

Il futuro dello Spazio, quindi, è quanto mai incerto e potenzialmente pericoloso. Il fattore destabilizzante è la mancanza di una precisa regolamentazione internazionale, o meglio il mancato aggiornamento di quella vigente. Questo lascia spazio a un vulnus giuridico che pur non permettendo a una nazione di prendere possesso di un astro, non impedisce a chi arriva per primo a piantarvi una bandiera, e poi a iniziare lo sfruttamento delle risorse presenti nell’area “conquistata”, senza chiedere il permesso a nessuno. Questa situazione, unita alle tensioni geopolitiche presenti sulla Terra, potrebbe creare una sorta di pericoloso stallo, poiché sebbene tutti si stiano ufficialmente dando da fare per avviare programmi scientifici e di sfruttamento della Luna e degli asteroidi, dall’altro tutti si stanno egualmente preparando a difendere le posizioni acquisite, finanche a combattere una guerra spaziale, che speriamo non si avveri mai.