Quando si propaganda il carattere medievale dell’acropoli di Perugia, si commette un duplice errore: prima di tutto perché si evoca una climax pittoresca che in realtà, a ben guardare, sussiste solo blandamente (ed è in buona parte riferibile alle invenzioni eclettiche di Ugo Tarchi, Pietro Angelini e Antonino Bindelli), ma soprattutto perché si misconosce il carattere rinascimentale impiantato d’imperio dal papa Paolo III (1468-1549) nell’area centrale. Area che non a caso, in molti scorci, sembra clonata dalla Roma farnesiana. È infatti evidente che l’ordine cartesiano introdotto ampliando e rettificando la rete viaria, la gerarchizzazione prospettica stabilita disseminando microarchitetture scenografiche in corrispondenza dei principali assi visuali e il collegamento percettivo assiale tra cattedrale e rocca perseguito con la regolarizzazione planoaltimetrica dell’antica platea magna rivendicano di per sé l’esistenza di un progetto unitario d’autore.

D’altra parte, considerata la veemente reazione pontificia alla “guerra del sale” (1540), è ragionevole supporre che Paolo III, per ribadire la propria autorità, non si sia limitato all’edificazione di un pur devastante presidio poliziesco quale la rocca Paolina (concepita per annientare fisicamente quanto idealmente il covo della famiglia Baglioni, leader dell’insurrezione), ma abbia voluto marchiare la città ribelle con un sigillo indelebile, rivoluzionandola sia dal punto di vista materico (con l’introduzione del connubio laterizio-travertino) sia dal punto di vista stilistico (con l’adozione di portali, finestrature e marcapiani di nuova invenzione) sia dal punto di vista spaziale (con la dilatazione dimensionale delle vie e delle piazze). Così come è ragionevole supporre che, per attuare un programma politico tanto ambizioso, Paolo III, liquidato Antonio da Sangallo il Giovane (poco incline, con le proprie remore antiquarie, a stravolgere il tessuto edilizio preesistente), sia intervenuto in prima persona, demandando la traduzione esecutiva al giovane Galeazzo Alessi (1512-72), che incarnava molte delle qualità necessarie per il successo dell’operazione, perché perugino di nascita, di estrazione culturale romana e smanioso di affermarsi professionalmente. Nonostante la cronica carenza documentaria (in parte imputabile alla soppressione della magistratura dei Priori tra il 1540 e il 1553), il serrato programma edilizio promosso da Paolo III, e con esso la paternità alessiana, è puntualmente registrato da Adamo Rossi nel 1873: “durante la legislazione del Cardinale Tiberio Crispo si aprì la via che dal corso mette al Sopramuro e le si fabbricò accanto la Chiesa della Madonna del Popolo, si fece la Piazza della Paglia, la strada che di lì mena alle Prome, e da capo sullo scoperto donde si prospetta la Svizzera perugina, un portico non guari dopo cangiato in tempietto; si accorciò ad uso di residenza governativa e si coronò di loggia il palazzo attiguo a quello del Popolo; si spianò il Campo di Battaglia; si costruì il ponte sul Chiagio nel luogo detto della Bastiola. È tradizione che il Cardinale si giovò dell’Alessi per queste cose raccomandato dal predecessore - cardinale Ascanio Parisani - e dalle sue stesse opere”.

Ma i contenuti del programma farnese dovevano essere di ben più ampia portata. Laddove, al di là dell’occasionalità delle opere alessiane acclarate (la via Nuova, la chiesa di Santa Maria del Popolo, la chiesa di Sant’Angelo della Pace, il complesso monastico di Santa Caterina), dall’analisi morfologica dell’impianto planimetrico dell’acropoli perugina, così come modificato in seguito all’edificazione della rocca Paolina, emerge un disegno preciso, qualificato da una sapiente composizione geometrica fatta di spezzate mistilinee e di anse sinuose che, raccordando due imbuti contrapposti (con origine nelle attuali piazza della Repubblica e piazza IV novembre-piazza Danti, da dove si dipartono le triforcazioni verso via Bonazzi, via del Forte e corso Vannucci da un lato e verso via Bontempi, via delle Prome e via Bartolo dall’altro), tradiscono una propensione scenografica evidentemente declinata dalla riforma urbanistica avviata nella Roma del primo Cinquecento sotto l’egida artistica di Raffaello Sanzio. In tal senso, non è certo velleitario avanzare l’ipotesi secondo cui Alessi, una volta portato a compimento il cantiere della rocca Paolina, sia stato chiamato da Paolo III a redigere un vero e proprio piano particolareggiato ante litteram, volto a trasformare l’acropoli medievale in una cittadella farnesiana. D’altra parte tale ipotesi, seppure non è suffragata dai riscontri documentari d’archivio, è suffragata dai riscontri fisici in corpore vili. Il che giustifica l’impasse di molti studiosi di fronte ad architetture che, seppure apparentate stilisticamente, non sono attribuibili all’Alessi e spiega le ragioni per cui molte opere di Valentino Martelli e Bernardo Sozi tradiscono un forte debito verso la maniera alessiana. Ma soprattutto tale ipotesi è indirettamente comprovata dai successivi incarichi professionali espletati dall’Alessi in Valsesia, con la stesura del piano per il riorganamento del Sacro Monte di Varallo, e soprattutto a Genova, dove il maestro perugino viene chiamato nel 1548, su segnalazione di Bartolomeo Sauli, per inventare “la Strada Maggiore” (poi strada Nuova e oggi via Garibaldi) che ha rappresentato, e continua a rappresentare tuttora, l’intervento urbanistico più innovativo dell’epoca. Chi mai, infatti, si sarebbe arrischiato a coinvolgere un progettista giovane e sconosciuto, senza avere prima verificato gli esiti di una sua qualche analoga esperienza? Ma, evidentemente lo splendore magniloquente della cittadella farnesiana di Perugia era una garanzia più che sufficiente per convincere una committenza notoriamente diffidente come quella genovese.