Una visita inaspettata al parco del Museo Stibbert a Firenze con un amico, in una giornata di cielo terso che fa abbagliare la collina di Montughi come mai l’avevo potuta ammirare, mi porta indietro nel tempo con la grazia del genio del luogo e l’eleganza discreta di un santuario del collezionismo, tutto anglosassone.

Mi addentro rapidamente tra i meandri del giardino ottocentesco che con connotati del suo natio splendore non ha subito rimaneggiamenti vistosi e forse, a scapito di un suo mantenimento ottimale, non ha rischiato di perderne il fascino e il carattere originario. Firenze, reputata tra Ottocento e Novecento anche la capitale dell’antiquariato di alto livello, acquisisce grazie alla personalità del collezionista e mecenate Frederick Stibbert (1838-1906) uno dei monumenti più straordinari del cosiddetto delirio dell’esposizione caratterizzando il secolo d’oro del collezionismo fiorentino, che ebbe altri nomi illustri come Berenson, Bardini e Horne, solo per citarne alcuni.

Frederick nasce a Firenze da madre italiana, Giulia Cafaggi e padre inglese Thomas, e pur essendo educato in Inghilterra fa costantemente rientro a Firenze nella villa di Montughi, dove lavorerà in modo indefesso trasformandola in Museo durante un’intera esistenza dedicata all’acquisto di oggetti d’arte in tutto il mondo. Vi si trasferisce nel 1949 quando la madre, vedova, l’acquista come villa Mezzeri per lei e i suoi tre figli, dopo aver ereditato l’enorme fortuna lasciata dal marito. Quest’ultimo a sua volta aveva goduto dell’immane patrimonio ereditato dal padre Giles, accumulato facendo fortuna con la Compagnia delle Indie Orientali durante una fulgida carriera militare. Frederick conduce una vita autonoma fin da ragazzo essendo di natura ribelle e irregolare in tutto, ma poi con la maturità si assunse diverse responsabilità nei confronti della famiglia di origine essendo stato poi riconosciuto come unico erede dal vecchio padre. Non trascura mai la sua passione sfrenata per l’arte che lo conduce a girovagare in tutto il mondo alla ricerca di oggetti artistici, spaziando dalla Russia all’Egitto dal medio all’estremo Oriente per arrivare a consolidare un patrimonio da collezione di decine di migliaia di pezzi a soli ventuno anni.

E’ obbligato, negli anni settanta dell’Ottocento, per mancanza di spazio, ad acquisire la limitrofa Villa Bombicci per suddividere l’abitazione dal Museo che apre gratuitamente nel 1887 in occasione dell’inaugurazione della facciata del Duomo di Firenze a cui aveva contribuito. La sua attenzione quasi maniacale alle soluzioni artistiche più raffinate lo conducono a un ampliamento delle strutture preesistenti che furono anche dotate di nuovi edifici come la scuderia, le serre e la limonaia. Infatti la sua passione per le arti non disdegnava l’attenzione alle mode del tempo, da perfetto dandy inglese, soprattutto per il giardino e l’orticoltura, come veniva chiamato all’epoca anche in Italia il giardinaggio. Infatti tra le mie ricerche di qualche tempo fa non trascurai la Famiglia Stibbert in quanto esemplare nella sua attività e partecipazione alla Reale Società Toscana di Orticoltura che era sorta a Firenze nel 1854. Inoltre il loro giardino, originariamente all’italiana, che affidarono per la riprogettazione nel 1859 al noto architetto paesaggista fiorentino Giuseppe Poggi (1811-1901), figura come partecipante e premiato in diverse Mostre Orticole con particolari specie botaniche, presentate dalla madre Giulia o dalla sorella Sophronia.

Nel 1883 è riportato tra i vincitori il “cavalier Federico Stibbert per le Calceolarie”, nel maggio del 1902 nel Giardino dell’Orticoltura in Via Bolognese il “cavalier Federico Stibbert con un gruppo di Kalmia”, nell’anno successivo nell’esposizione Orto-Avicola, viene premiato per Pelargonium diadematum, e la sorella Sofronia Pandolfini per 40 “cineraria a fiore scempio”. Il loro giardino ebbe come giardiniere uno dei più affermati e richiesti tra i proprietari di Villa dell’epoca a Firenze, e dalle mie ricerche risultava un certo Ferdinando Bucci (1811-1876), anche membro della Società Toscana di Orticoltura, impiegato presso le proprietà della signora Giulia Stibbert a Montughi. Sicuramente era realizzatore fiduciario del Poggi che a Montughi fece un progetto di giardino in puro stile paesaggistico, detto all’inglese, inserendo anche piante esotiche in gran voga all’epoca, ma soprattutto connotando l’intervento con impronta tipicamente massonica. Sia il proprietario, lo Stibbert, sia il Poggi appartenevano alla loggia e, in linea con altre realizzazioni ispirate ai principi massonici, furono inseriti manufatti ed elementi decorativi come il tempietto ellenistico, quello neoegizio, il laghetto, i percorsi sinuosi con riferimenti certi all’ambiente veneto, prima regione insieme alla Lombardia che dette voce alle nuove teorie sul governo del giardino già dal secolo precedente.

Con interventi successivi dovuti all’ampliamento del parco fino a tre ettari circa, il luogo si arricchì di nuovi esemplari e di manufatti con grotte, loggia veneziana, false rovine e la proprietà assunse un carattere tipicamente anglo-fiorentino in un connubio voluto dal proprietario e sostenuto dall’intervento dell’ingegner Passeri in uno stile decisamente romantico. Gianni Venturi, letterato e studioso di storia del giardino, docente all’Università di Firenze, nella sua introduzione alla ristampa dell’opera di Ercole Silva Dell’arte dei giardini inglesi, del 1801, parla di giardino all’inglese quale realizzazione di un'idea e di una “evoluzione del pensiero, ormai europeo, sul paesaggio inteso come rispetto, per quanto razionale, di una natura libera interamente rispecchiata nel limite e nel giro del giardino stesso” e ancora come “cattura del paesaggio nel giardino”, “[…] e l’errore – sostiene in questo passaggio illuminante – sarebbe semmai quello d’interpretare il giardino all’inglese come esclusivo prodotto della sensiblerie preromantica”.

Questa definizione potremmo attribuirla, semplificando, anche a molte tipologie di giardino, ma solamente nel giardino romantico assume quel carattere di ambiguità che tuttora perdura nelle nostre modalità di riconoscimento dell’essenza del giardino. Anche se in estrema sintesi e riducendo a una breve riflessione l’argomento così ampio e complesso, si può affermare che la nascita del giardino all’inglese affonda le sue radici nel fenomeno illuminista avvenuto a fine Settecento in tutta Europa. Anche nell’arte del giardino, “l’arte di riunire ciocchè la natura ha di più vago, e di più interessante, impiegando la stessa sua maniera, e gli stessi suoi mezzi”(L. Mabil, 1801), si manifesta la ricerca di un ritorno alla natura libera da costrizioni, formali, diventando un po’ il simbolo degli ideali di libertà che interessarono la fine del XVIII secolo. Il nuovo modello del giardino ebbe la sua espressione maggiore in Inghilterra, e da qui il termine “giardino all’inglese” per indicare successivamente anche in Europa un giardino romantico pur essendo le connotazioni culturali proprie del romanticismo del tutto estranee all’orizzonte culturale nel quale ha origine il giardino paesaggistico.

Gli studiosi della materia, tra cui anche G. Jellicoe, ne L’architettura del paesaggio (Ed. Comunità, 1969), rimandano infatti l’origine del giardino a un fenomeno molto complesso da riferirsi ai contatti instauratisi fra XVI e XVII secolo tra intellettuali, artisti e aristocratici inglesi e le fonti italiane. Per quanto riguarda quest’aspetto contribuì soprattutto la Repubblica Veneta poiché ospitò diversi rappresentanti dell’aristocrazia inglese nella città lagunare. Il Neo-palladianesimo, fenomeno conosciuto come vicenda architettonica dovuta al fascino del grande architetto Andrea Palladio (1508-1580), esercitato sulla committenza europea e anglosassone in particolare, rientra anch’esso tra quegli elementi che parteciparono, insieme al rinnovato interesse per la natura e il paesaggio, ad abbandonare i rigidi schemi formali del giardino italiano e francese.

L’altro elemento che incise fortemente è il cosiddetto Gran Tour ovvero il viaggio di formazione che artisti, intellettuali e membri di famiglie nobili e aristocratiche, intraprendevano in particolare in Italia per apprendere la cultura e l’arte antica. Soprattutto a seguito di questi viaggi molti autori e artisti, ispirati dalle rovine dell’antichità classica nelle città e nelle aree rurali, si esprimevano attraverso opere letterarie e artistiche che ebbero gran successo nei loro paesi: ad esempio i paesaggi di Claude Lorrain e Nicolas Poussin. Particolarmente in queste opere il paesaggio e il giardino sono liberamente rappresentati in scene con grandi spazi aperti, informali, dove compaiono elementi di richiamo come bacini d’acqua, torrenti, piccole costruzioni, come padiglioni di ispirazione classica, capanne, rovine antiche a evocare il ricordo dei viaggi effettuati. Se in Inghilterra i padri del giardino informale e paesaggistico sono l’architetto William Kent (1685-1748), poi William Chamber (1723-1796), e successivamente Lancelot “Capability” Brown (1716-1783) e Humphrey Repton (1752- 1818), in Italia la moda del giardino paesaggistico fece presa primariamente nel nord, soprattutto nella regione del Veneto e della Lombardia che assistevano all’epoca, tra Settecento e Ottocento, al fiorire di numerosi scambi culturali. Le indicazioni su come realizzare un giardino, secondo i nuovi canoni provenienti dallo spirito anglosassone, erano ben identificati nei trattati di Thomas Wathely Observation on Modern Gardening (1771), Theorie der Gartenkunst di Hirschfeld (1779-1785) e il già citato Dell’arte dei giardini inglesi (1801) di Ercole Silva, pubblicato per la prima volta a Milano nel 1813.

Ma l’episodio che segnò l’inizio di questa nuova era per la storia dell’arte del giardino in Italia fu il dibattito teorico tenutosi a Padova presso l’Accademia Patavina negli ultimi anni del Settecento organizzato dal letterato e teorico dell’arte del giardino Mechiorre Cesarotti (1730-1808) che invitò Ippolito Pindemonte (1753-1728) a esporre pubblicamente le proprie idee sulla progettazione del parco moderno. Con le idee di quest’ultimo, che sosteneva la validità della tradizione delle forme lineari del giardino all’italiana, delle sue peculiarità (spalliere, pergolati, giochi d’acqua, viali, statuaria, ecc.) si incentiva e si auspica l’integrazione della nuova moda del giardino paesaggistico su una struttura classica che può accoglierla a completamento e non quale mera alternativa. E come lui pochi anni dopo, un altro trattatista della materia, Luigi Mabil (1752-1836), docente di estetica all’Università di Padova, pur sostenendo l’artisticità dei giardini inglesi, difende e rivaluta i vecchi giardini formali. Ma qui apriremmo un nuovo capitolo della storia e delle personalità dell’arte del giardino italiano.

Mi aggiro nel parco insieme al direttore del Museo Stibbert, Enrico Colle, che dimostra una profonda attenzione a ogni minima peculiarità del giardino che intende conservare al meglio, mantenendone i caratteri e la bellezza che è arrivata a noi dopo due secoli. Se guardiamo qualche immagine storica del parco ci accorgiamo che il giardino come tutti i giardini ha mutato il suo aspetto per forza di cose, per il deperimento di alcune piante e per il reintegro di altre, per la crescita di esemplari oggi secolari che oscurano certe viste prospettiche magari volute e studiate al tempo dal suo ideatore. Si può affermare che il giardino romantico, come lo si può apprezzare oggi, riporta solo in minima parte gli effetti voluti dal progettista poiché a volte, la scarsa manutenzione, o la poca conoscenza di alcune specie introdotte dall’estero e inserite dai progettisti all’epoca, ha condotto a una trasformazione radicale degli spazi, delle vedute, dei rapporti tra natura e architettura. Avendo tracciato un brevissimo compendio delle peculiarità degli elementi del giardino romantico si sono solo annoverati alcuni elementi chiave che rendono riconoscibile il giardino paesaggistico, ma non dimentichiamo anche la torre come punto focale di un percorso e come punto di osservazione; il luogo della visione oltre che dell’essere visti. Un esempio emblematico la torre neogotica del giardino Torrigiani a Firenze, che campeggia nello stemma della famiglia.

L’adozione dello stile neo-gotico per edifici all’interno del giardino o delle case di dimora, conferisce un apporto originale della cultura sette-ottocentesca con forme “fantasiose” che a volte vanno a confluire nel rococò cinese, creando stili compositi spesso ispirati anche allo “stile tudor” inglese integrandolo in forme classicheggianti. Esempi sono il romanico o l’ogivale veneziano, il moresco a convergere in gusto sfrenatamente eclettico. Qui a Montughi troviamo tutto e il mio augurio è quello di vederlo in una prossima visita accresciuto e valorizzato nei suoi caratteri vegetazionali che ne qualificano tutto il contesto come anche il grande Museo che grazie a un lascito testamentario alla morte di Stibbert andò al governo inglese e al Comune di Firenze qualora gli inglesi avessero rinunciato. Dal 1908 il Museo apre al pubblico e oggi dopo molti anni, diverse vicissitudini e l’intervento di Enti sostenitori, è ancora una collezione straordinaria di opere d’arte che nessun visitatore di Firenze – il grande magnete – dovrebbe trascurare…