Che fascino rapinoso esercita la vita dei morti, dei morti remoti, quelli da non piangere perché furono già pianti. Quelli che porgono le tragedie, gli amori, le indecenze, le passioni, persino i rovesci di fortuna e le disillusioni come un assoluto che ci ispira.

Agli Allori, il camposanto di Firenze aperto nel 1878 per accogliere i defunti di confessione non cattolica che fino ad allora venivano sepolti al Cimitero degli Inglesi, questo fascino è cosmopolita e testimonia l’internazionalità vera, lunga almeno duecento anni, di una città straordinaria ben oltre il Rinascimento. Dal Settecento alla Seconda Guerra Mondiale, Firenze attrasse artisti, intellettuali, tipi eccentrici , ma anche tante persone meno eclatanti alla ricerca di una situazione altra. Attrae ancora, ma i troppi turisti casuali, quelli che potrebbero essere in qualunque luogo, un po’ come gli spettatori dei cinema multisala che scelgono il film in base all’orario, sciupano l’atmosfera di un mondo che ebbe in sir Harold Acton, storico e collezionista britannico, scomparso nel 1994, l’ultimo grande protagonista.

Grazia Gobbi Sica, architetto, studiosa acuta di questi argomenti, e anche di altri da donna poliedrica qual è, si aggira da tredici anni per i vialetti tombali che con spirito definisce un “monumento vivente”a quel clima internazionale fiorentino, e sta per pubblicare In loving memory. Il Cimitero agli Allori di Firenze (Leo Olschki editore). Nella galleria di personaggi nei quali si è imbattuta, americani, inglesi, russi, tedeschi, che giudica “assai intriganti”, naturalmente ha le sue sepolcrali preferenze che ci racconta in una passeggiata fra gli angeli, le croci e le parole solenni delle lapidi.

Frederik Stibbert (1838-1906), più noto con il nome italiano Federigo, nato a Florence sull’Arno da una famiglia del Norfolk, è il massimo esponente della categoria di anglobeceri bizzarri, interessantissimi e pazzi per l’antichità. “Stibbert nutrì una rete di artigiani /artisti che facevano falsi meravigliosi ed erano capaci di restaurare di tutto: dalle gualdrappe dei cavalli ai quadri, cornici incluse. Alimentò tante manifatture come quella del maiolicaro Ulisse Cantagalli, marito di un’inglese, autore della loggetta e della cupoletta dell’attuale museoStibbert e compì un grande atto d’amore lasciando a Firenze la villa e la collezione”. Agli Allori riposa in una cappella ormai in rovina, pericolante e transennata, un gioiello neogotico dove fece traslare le salme della sorella e del padre dal Cimitero degli Inglesi. La madre, cattolica, giace alle Porte Sante, sotto la basilica di San Miniato al Monte.

Sir Osbert Sitwell di Londra (1892-1969), critico e romanziere di enorme prestigio del periodo edoardiano, fu un rivoluzionario e abitò al castello di Montegufoni che suo padre aveva fatto decorare dal futurista Gino Severini. A ricordarlo solo “una stelina funeraria molto modesta, quasi nascosta”.

Sir James Hudson (1810-1885) fu ambasciatore della Regina Vittoria e collezionista raffinato, amava l’Italia più dell’Inghilterra e per questo fu criticato in patria, sostenitore del Risorgimento, fu amico di Cavour che diceva di lui: ”Il connait tout le monde”. “Rinunciò alla carriera diplomatica per amore di una signora milanese sposata, molto più giovane di lui, Eugenia Vannotti, che impalmò appena questa rimase vedova. Ma il matrimonio durò appena una settimana: sir James morì a Strasburgo dove era andato per curarsi un cancro alla bocca”. Che tragedia splendida! “Ci piace moltissimo, no?” dice la Gobbi Sica. Eugenia Vannotti Hudson è sepolta a poca distanza dal consorte di pochi giorni.

Rosa Ludmilla Assing di Amburgo (1821-1880) fuggì dalla Germania dopo un processo per la pubblicazione della corrispondenza dello zio e a Firenze si abbandonò all’estasi dei sensi. “Non che fosse bella, ma questo non vuol dire, anzi. L’Italia per lei significa libertà, apre un salotto in via Alamanni, vicino a Santa Maria Novella, e lo descrive come un luogo dove s’incontra l’intellighenzia dell’epoca. Lo frequentava anche un acerbo Giovanni Verga che a Firenze scrisse, tra l’altro, Storia di una capinera”. Ludmilla imbastì intrallazzi amorosi con due patrioti, il mazziniano Pietro Cironi e il salentino Andrea Giannelli, dal quale ebbe un figlio morto fanciullo. Andò poi a nozze con un ufficiale che si uccise, e morì a 58 anni di meningite, sinistramente nell’ospedale dei folli. ”Sensibile per educazione e tradizione famigliare alle problematiche femminili, la Assing scrisse un saggio sulla posizione sociale della donna accolto nella prestigiosa rivista Igea di Paolo Mantegazza e dispose un lascito testamentario per fondare una scuola femminile a lei intitolata”.

La nobildonna russa Elisabetta de Pilar Pilhau detta Lysine (1849-1939) sposò un Rucellai ed era molto estrosa: indulgeva nel mito di sé stessa e raccontava di essere stata partorita durante un pranzo di cosacchi che la battezzarono con lo champagne. Un principio spumeggiante per una vita di conseguenza. Gabriele D’Annunzio, habituè del suo salotto di Palazzo Rucellai, la chiamava Mona Lysa degli Oricellari e sir Harold Acton, nelle sue Memorie di un esteta, la ricorda alta e dalla fulgente chioma rossa. Meravigliosa anche da vecchia. “Mi ritiro dall’arte senza chiasso dopo una carriera forse troppo rumorosa” annunciò la soprano Lina Cavalieri, la femmina più sensazionale della Belle époque, che la collega Frances Alda descrisse così: “Improvvisamente calò un silenzio totale, le chiacchiere si spensero e i violini ammutolirono. Ogni testa si girò per seguire l’ingresso trionfale di una donna vestita con un abito di seta gialla che ricopriva il corpo più bello che avessi mai visto. Sopra la scollatura si ergeva una piccola testa bruna e superba con dei tratti classicheggianti. Il collo, il seno, le braccia e la testa scintillavano di smeraldi. Accanto a lei camminava un magnifico e bellissimo ufficile russo in divisa celeste”. Era il principe Alexander Bariatinky (1872-1910), primo marito della Cavalieri la quale ne ebbe altri tre e morì a Firenze nel 1944 sotto un bombardamento , che è sepolto agli Allori.

“Qui bisogna bignonia” pare fosse una delle poche frasi in italiano conosciute dalla madre della scrittrice Violet Trefusis che così ordinava le piante al giardiniere. La Trefusis, nata in Inghilterra Violet Keppel (1894-1972) da Alice, amante del figlio della regina Vittoria e dama dotata di maniere così giuste da costringere persino Mary, moglie del fedifrago, a mantenere con lei relazioni urbane. Dalla madre, Violet ereditò la spregiudicatezza erotica, ma non la prudenza: innamorata di Vita Sackville West, ritratta da Virginia Woolf nel romanzo Orlando, impazzò per l’Europa inanellando scandalo su scandalo. Entrambe maritate fuggirono a Parigi in abiti maschili.

Il solito Harold Acton descrive Violet come un’arpia attempata che convocava gli amici mostrando gioielli preziosissimi con la promessa di lasciarli loro in eredità. Gli amici morivano uno dietro l’altro e lei campava tenendosi i gioielli, ma infelice, nella villa l’Ombrellino.

Qui bisogna violet, agli Allori. Le violette, e le Violette, s’intonano ai cipressi.