C’era una volta una piccola piazza di un’importante città che era nata dai Celti, poi conquistata dai Romani e poi diventata lei stessa capitale dell’Impero. Questa grande città, nata in mezzo alla pianura, “Midland”, poi “Mediolanum”, infine Milano o Milàn, si era raccolta, per secoli, attorno, appunto, a questa piccola piazza, dove i Celti veneravano la loro Minerva Insubre - che i successivi occupanti romani rispettarono - e dove i Cristiani edificarono due basiliche, una invernale e una estiva, un battistero e tutto intorno c’erano piccoli portici e strette viuzze. Poi, sempre in questa piccola piazza, ecco nascere il nuovo, assoluto protagonista, quel Duomo, dedicato alla protettrice della città, Maria Nascente, e simboleggiato dalla Madonnina, che proprio la piccola piazza permetteva di vedere solo guardando da sotto in su, provocando quasi un senso di vertigine.

Passarono anni, passarono decenni, e la città diventava sempre più grande e la piazza sembrava essere sempre più piccola anche perché, nel frattempo, il Duomo aveva messo su una facciata sempre più alta, più svettante e la città, ormai, faceva parte di un grande stato, che voleva celebrare la sua grandezza. Allora, via i vecchi portici, le vecchie case, residui di un lontano Medioevo, e al via una nuova, vera grande piazza, degna dell’“Italietta”, con imponenti nuovi portici e palazzi in stile eclettico e dove il Duomo doveva fare i conti con una nuova, ingombrante “vedette”, la Galleria.

Fu inaugurata il 15 settembre 1867: “Quanto strisciar di piedi sul lucido pavimento di marmo quella sera – ricorda Otto Cima, nostalgico bozzettista della Milano fine Ottocento – in cui la Galleria Nuova venne aperta al pubblico, e quanti nasi all’aria e quanti ah! e oh! La Galleria era allora illuminata come una gran sala, da una serie di braccioli a grossi globi di cristallo lavorato, sporgenti dalle lesene, fra negozio e negozio, e da un giro di fiammelle intorno alla cupola, le quali venivano accese per mezzo di quel rattin che col Duomo, l’Arco della Pace, il Cenacolo vinciano, fu per parecchi anni una delle meraviglie di Milano”.

Ma fu un’inaugurazione virtuale, perché ci vollero ancora dieci anni perché fosse terminata e, fra l’altro, sotto cattivi auspici perché il progettista, il romagnolo Giuseppe Mengoni, nel suo ultimo giro d’ispezione cadde rovinosamente perdendo la vita, o, forse, come si insinuò, volle volontariamente buttarsi giù, angustiato dai contrasti con gli ingegneri del Comune e dalle critiche che da parecchi anni circondavano la sua creatura, che si diceva nata da un progetto condizionato dalla speculazione sugli spazi commerciali.

In effetti, se come opera ingegneristica, la Galleria fu innovativa, con il suo uso di strutture in vetro e metallo, diventando anche modello per altre costruzioni simili in Italia e all’estero, dal punto di vista architettonico rimase un ibrido e da un punto di vista urbanistico rientrò in quel progetto di ampliamento indiscriminato della piazza del Duomo, che ne snaturava tradizione e significato. Come scrisse Delio Tessa, appassionato cantore poetico della città, secondo cui la nuova sistemazione della piazza e la sostituzione degli antichi portici, mostrava la “deprecabile mania del mastodontico” e, ancora più caustico, Giuseppe De Finetti giudicava l’arcone della Galleria una “pacchiana mascheratura”.

Detto ciò, bisogna comprendere che, al di là di queste doverose critiche, un sito e un monumento di una città, che ne diventano uno dei simboli, vanno al di là di una valutazione “oggettiva” e occupano lo spazio della memoria e dell’emotività, dove il cittadino ritrova se stesso, le sue esperienze e la sua storia. Sta di fatto che poi, tra la Galleria e i milanesi, nonostante tutto e nonostante qualche successivo abuso degli ultimi decenni, nacquero e sono ancora vivi, affetto e amore, anche perché, ferita dalla guerra, seppe risorgere, a testimoniare la rinascita della città e non è un luogo comune definirla come il suo salotto.

Ma questa costruzione, già auspicata da Carlo Cattaneo negli anni ’30 dell’ Ottocento, fu anche teatro di lotte e manifestazioni politiche, con scontri tra operai e polizia e tra neutralisti e interventisti. In particolare fu luogo di incontro e propaganda futurista e Rissa in Galleria di Umberto Boccioni e Galleria di Milano di Carlo Carrà ne hanno lasciato pittorica testimonianza; ancora prima fu “demitizzata” da Paolo Valera e dagli Scapigliati, che volevano rivelare che, dietro lo scintillio delle vetrine e dei caffè, vi bivaccava una turba di mendicanti, prostitute, piccoli delinquenti che vi trovavano riparo e sostentamento.

E molti non milanesi l’apprezzarono e descrissero come il siciliano Luigi Capuana, collaboratore del Corriere della Sera, che così la rappresentò nel 1881: “È il cuore della città. La gente vi si affolla da tutte le parti, continuamente … tutte le pulsazioni della vita cittadina si ripercuotono qui. Quando pare che anche qui ogni movimento sia cessato, dai grandi occhi di cristallo del pavimento può scorgersi che nei suoi sotterranei ferve sempre il lavoro, quasi che in questo centro vitale l’attività non possa mai addormentarsi … bisogna convenire che la prima impressione che se ne riceve è di cosa grandiosa e imponente: se i diversi stili architettonici s’urtano, s’azzuffano insieme nella facciata dell’arco … dappertutto … è impossibile mettere in dubbio che la Galleria non abbia un carattere tutto suo, modernissimo e così milanese”. E Giovanni Verga, nei suoi racconti milanesi la descriveva come “Alta, sonora, coll’arco immenso spalancato” e vi aveva ambientato, anticipando una dolorosa situazione ancor oggi attuale, un racconto dove i protagonisti erano: “i poveri diavoli che fingono di spassarsi andando su e giù per la Galleria deserta, col vento che vi soffia gelato da ogni parte, aspettando che il custode volti il capo, o finga di chiudere gli occhi, per sdraiarsi nel vano di una porta, raggomitolati in un soprabito cencioso”.

A distanza di 150 anni, accanto a siti storici, a vetrine di lunga, gloriosa data, è vero, c’è qualche tavolino o bar-pizzeria di troppo o qualche negozio di facile curiosità turistica, ma l’atmosfera è sempre calorosa, ricca di incontri e sotto le volte mosaicate, il via vai intenso di giapponesi fotografanti, di milanesi di corsa, di ambulanti di tutto il mondo, si fonde in un brusio e in un calpestio quasi musicale un’oasi, dove tutto sembra più sospeso e rallentato, per cantare, con Giovanni D’Anzi, Quater pass in Galleria e con Alberto Testa, Memo Remigi e Ornella Vanoni, “Sapessi com’è strano sentirsi innamorati a Milano … sapessi com’è strano darsi appuntamenti a Milano in un grande magazzino in piazza o in Galleria che pazzia ...”