Lo scorso 26 maggio è stata inaugurata la sedicesima edizione della Biennale di Architettura di Venezia. Sedicesimo appuntamento per un evento di richiamo internazionale che dal 1980 è entrato nel circuito dei prestigiosi eventi culturali della città lagunare. Le curatrici di questa edizione intitolata Freespace sono gli architetti irlandesi Yvonne Farrell e Shelley McNamara, socie fondatrici dello studio Grafton Architects.

Apparentemente circoscritto allo spazio non costruito, il tema scelto per questa Biennale racchiude in sé significati ben più ampi che vengono esplicitati nel Manifesto. Freespace rappresenta la “generosità dello spirito” e il “senso di umanità” al centro dell’agenda architettonica. Freespace è la celebrazione dell’architettura che riesce a trovare “inaspettata generosità in ogni progetto”. Freespace è uno “spazio per le opportunità, uno spazio democratico, non programmato e libero per usi non ancora elaborati”.

Se gli architetti sono considerati dei creatori di spazio (spacemaker), il termine freespace rappresenta il componente extra che scaturisce dal processo progettuale. L’architettura è intesa dalle curatrici non come costruzione ma come strumento in grado di elevare e dare valore alle cose. Pertanto la generosità del progetto menzionata nel Manifesto rappresenta il dono che l’architettura è in grado di restituire ai luoghi dove interviene attraverso la qualità dello spazio che crea. Un porticato, una facciata preziosa che diventa quinta, uno spazio pubblico.

L’architettura, grazie alle sue donazioni, assume quindi un ruolo attivo nei confronti della società civile che da essa può trarre giovamento. Diventa allora importante trasmettere le potenzialità latenti del processo progettuale e “promuovere il desiderio di architettura” come ha spiegato il Presidente della Biennale, Paolo Baratta.

Se l’architettura è intesa come la risposta i bisogni dell’uomo, la condizione in cui versano molte aree periferiche sia nelle nostre città che nelle megalopoli dei paesi sottosviluppati ci fa pensare che la domanda sia stata mal posta. Pertanto il “desiderio di architettura” che si vuole promuovere deve trovare la sua giusta collocazione all’interno del dialogo fra addetti ai lavori e società civile, intesa questa sia come istituzione che come singolo individuo.

Quando gli interessi economici fanno muovere ingenti capitali di denaro per promuovere strutture spettacolari che hanno vita breve e non lasciano nulla alle realtà locali, oppure quando vengono abbandonate al loro destino intere parti di città che disordinatamente accolgono grandi flussi migratori, diventa evidente che la società civile si muove su binari lontani dall’architettura intesa come generatrice dello spazio. Tutto questo è dovuto in parte alla presenza di forti interessi che spingono in una data direzione, ma esiste anche una non-conoscenza del valore attribuibile all’architettura. Spesso non viene colto come l’assenza del pensiero applicato allo spazio in cui viviamo sia di fatto un’occasione perduta per accrescere il nostro benessere. Il valore delle cose è ormai fortemente monetizzato e questo porta a trascurare il valore percettivo di ciò che ci circonda. Così come allenando il palato si è in grado di discernere il cibo di qualità dal cosi detto junk food, allo stesso modo vanno allenati tutti i cinque sensi fra i quali la vista perché un fruitore consapevole è un interlocutore in grado di porre domande appropriate all’architettura.

Eventi come la Biennale di Architettura di Venezia sono senza dubbio occasioni importanti per sviscerare tematiche di rilievo come quelle sopracitate. Nonostante questo, a fronte dei grandi temi espressi in sede preliminare attraverso comunicati e conferenze stampa, resta sempre il grande quesito relativo all’efficacia che le installazioni hanno nel trasmettere le intenzioni comunicative che stanno all’origine del gesto espressivo. Cosi come accade con le grandi mostre di arte contemporanea, l’estensione degli spazi espositivi spesso non permette ai fruitori di soffermarsi a lungo davanti alle singole opere limitando in questo modo la possibilità che i messaggi vengano recepiti nella loro interezza se non con l’ausilio di una traccia scritta che guidi l’osservatore più meticoloso. In un mondo ideale, si potrebbe pensare di avere accesso illimitato agli spazi espositivi per ritornare più volte e lasciare il tempo ai nostri sensi di assorbire con la giusta calma il flusso dei pensieri espressi attraverso ciò che stiamo guardando.