Nei primi anni Ottanta, in occasione della partecipazione a un concorso di idee bandito dalla Provincia di Perugia per valorizzare l’isola Polvese (la più grande, per estensione, del lago Trasimeno), ebbi modo di frequentarla con insolita assiduità e, soprattutto, ebbi modo di guardarla con rinnovata attenzione. Peraltro, poiché all’epoca ero proprietario di una piccola imbarcazione che tenevo ormeggiata in un porticciolo privato situato nei pressi del paese di San Feliciano, mi capitò di trattenermi sull’isola anche dopo la partenza dell’ultimo traghetto serale. Il che mi consentì il privilegio di percorrerne i sentieri sterrati in totale solitudine, respirando il profumo delle ultime ginestre e dei primi oleandri, nonché di contemplare i tramonti estivi senza essere distratto dagli schiamazzi dei turisti, apprezzandone le struggenti valenze pittoresche: tanto quelle naturali quanto quelle artificiali. Perché l’isola Polvese, contrariamente a quanto recitano sbrigativamente le guide turistiche, non è solo “un luogo naturalistico incantevole”, ma è anche un capolavoro di architettura del paesaggio, in cui le vedute spontanee si fondono (e si confondono senza soluzione di continuità) con le vedute artefatte.

Non a caso, se il carattere rovinoso del castello medievale e della chiesa olivetana chiama in causa l’incuria dell’uomo, il carattere sofisticato della villa e del parco chiama in causa la cura dell’uomo. Ovvero chiama in causa le mani di due grandi disegnatori: quella dell’architetto-ingegnere milanese Tomaso Buzzi e quella del paesaggista fiorentino Pietro Porcinai. Due protagonisti dell’architettura italiana del Novecento che, nei primi anni Sessanta, sono presenti con continuità in Umbria: Buzzi perché ha appena acquistato il convento francescano della Scarzuola dalle parti di Montegabbione e Porcinai perché è sempre più conteso dalle dinastie industriali perugine (Buitoni, Servadio, Spagnoli) per conferire alle proprie ville la necessaria rappresentatività.

Ma quello della Polvese rimane un caso a sé, la cui storia recente ha inizio nel 1939, quando l’imprenditore perugino Biagio Biagiotti, acquisita la proprietà dell’isola dagli eredi di Ferdinando Cesaroni, si dedica al minuto mantenimento (strade, moli, muri di contenimento) e commissiona a Sisto Mastrodicasa la ristrutturazione del villaggio dei pescatori, riservando a se stesso un piccolo casino rustico. Tanto piccolo e talmente rustico che, quando nel 1959 la proprietà passa alla società N.E.C.I.T. di Milano e l’isola viene adibita a riserva di caccia, il suo amministratore unico, conte Giannino Citterio, lo ritiene inadeguato al proprio stile di vita e conferisce a Buzzi l’incarico di convertire il casino rustico in una magniloquente villa padronale e a Porcinai l’incarico di trasformare lo sciatto parco agricolo in un elegante giardino-paesaggio. Incarichi che peraltro Buzzi e Porcinai espletano con grande passione oltre che con grande mestiere.

Laddove Buzzi, amplificando la presenza prospettica del casino con l’introduzione di due portici laterali, impianta un viale di tigli tra l’imbarcadero e la villa puntato direttamente sull’asse centrale individuato dal balcone aggiunto al primo livello e dal fastigio con fregio e guglie applicato in copertura. Mentre Porcinai, confermando un’inguaribile vocazione minimalista, media il rapporto tra la villa e il lago con un sistema articolato di parterre erbosi, confinati a monte da un giardino misurato da un reticolo ordinato di alberi di ulivo a loro volta contrappuntati da una boscaglia di arbusti mediterranei (corbezzolo, mirto, lavanda, timo ecc.) posti a cornice di un’invenzione paesaggistica geniale, capace di conciliare reminescenze classiche e nostalgie romantiche: una piscina naturale scavata in una cava di pietra arenaria dimessa (la cui modellazione scenografica è affidata al pittore Alberto Longoni) e disposta in posizione altimetrica strategica (per ingenerare nei bagnanti l’illusione percettiva della continuità con lo specchio lacustre). Ma anche una sorta di biopiscina ante litteram, visto che l’acqua invasata dal lago, una volta tracimata, ricade su un sistema di ninfei perimetrali volti a esercitare un’azione tanto decorativa quanto fitodepurativa. Abbastanza per inserire a buon diritto il microcosmo della piscina polvese nell’elenco delle migliori opere paesaggistiche del Novecento. Eppure l’avvento del turismo di massa non risparmia l’isola Polvese, i cui canneti vengono dragati per allestire grotteschi scenari balneari, e meno che meno lo snobismo radicale grazia la piscina di Porcinai, rea di avere allietato i week-end dei capitalisti industriali del “miracolo economico”.

Così, dopo il 1974 (anno del trasferimento della proprietà dell’isola alla Provincia di Perugia), il giardino e la piscina patiscono lunghi anni di oblio e di degrado. Fino a quando, nel 1988, vengono riabilitati e, finalmente, vengono sottoposti a un attento restauro filologico, consentito dalla riscoperta dei disegni originali di Pietro Porcinai nell’archivio privato di villa Rondinelli a Fiesole. Così, anche se ormai la piscina è ridotta a malinconico giardino acquatico (preso d’assedio da orde di fotografi dilettanti ignari del suo nobile passato), gli stenditoi di pietra, orientati secondo l’asse sud-est/nord-ovest per favorire l’esposizione al sole, e i locali tecnici, ricoperti con un terrapieno per minimizzare l’impatto ambientale, continuano a testimoniare una sensibilità contestualista che, probabilmente, incarna il vero testamento spirituale di Porcinai. Soprattutto laddove sembra volerci ricordare che “la sostenibilità ambientale” non sta nell’enfasi delle dotazioni tecnologiche (dai pannelli fotovoltaici alle pale microeoliche), ma sta nella creazione di un rapporto armonico tra natura e artificio che, a ben guardare, ha molto a che fare con i principi fondativi del pensiero francescano.

Così come profetizzato dallo stesso Porcinai. "Per vigliaccheria o per denaro la maggior parte degli architetti ha abbandonato il mondo delle cose costruite in armonia con la Natura, consentendo che sorgessero brutte città e orribili periferie. Spetta all’architetto paesaggista trovare rimedio a questa situazione, ma deve essere qualcuno che sa pensare prima di agire. […] Affinché in questo mondo non si diffondano la bruttezza e la distruzione e il gusto per il bello possa affermarsi, il futuro ha bisogno di architetti che siano coraggiosi fautori dell’arché e armati di tutti gli aspetti della techné che operino come autentici maestri sulla scia degli insegnamenti di San Francesco d’Assisi".