Una consueta passeggiata tra le colline del Parco Naturale dei Colli Euganei mi ha condotto in una giornata afosa di luglio a riprendere una riflessione affrontata qualche mese fa in occasione di un dibattito sulle relazioni tra la nascita del pensiero ecologista del XIX secolo e l’attuale approccio filosofico sul tema della Natura, sul rapporto conflittuale tra Tecnica e natura, natura e uomo.

Nel soffermarmi in compagnia di un amico, anch’esso appassionato osservatore di paesaggi, a guardare l’orizzonte che scompariva nella foschia in un pomeriggio estivo, ho colto un desolato versante montuoso che scendeva verso la pianura padana operosa e densamente costruita.
Apparentemente arido e privo di significati, a un osservatore distratto, questo declivio vegetato ha immediatamente catturato la nostra attenzione. Scendendo quindi la collina e inerpicandoci tra rovi, rocce di scaglia rossa affiorante e rose selvatiche, cominciavamo ad apprezzare un innumerevole varietà di specie dai colori più diversi e delle tonalità più delicate. Tutto aveva l’aspetto di un grande giardino paesaggistico firmato da un progettista di chiara fama (1). Specie graminacee dai fluenti pennacchi ormai secchi si presentavano in grandi macchie e bordure miste giustapposte in modo magistrale a quelle erbacee più vistose con fiori blu papilionacei, a pulvini grigi, da cui svettavano capolini giallo limone per formare una prateria arida apparentemente studiata e governata.

Increduli di quello che ci circondava – vista l’avanzata stagione vegetativa che solitamente non è così ricca di fioriture – abbiamo tentato di studiarne la tipologia vegetazionale, l’origine e il corso evolutivo da un punto di vista ecologico e naturalistico. Ci trovavamo in un area definita Riserva integrale riconosciuta nel suo valore naturalistico come Sito di Interesse Comunitario e sicuramente da più di 50 anni lasciata indisturbata dopo l’abbandono delle colline e quindi non più soggetta da tempo al pascolamento. Il grande dubbio che assalì i più noti ecologi e gli scienziati dopo un secolo di sperimentazioni di selvicoltura, che paradossalmente furono la prima minaccia istituzionale della biodiversità (furono sostituite le foreste primarie con boschi monospecifici di conifere), consisteva nel quesito: “qualora l’uomo non intervenisse nelle grandi aree ormai addomesticate, queste tornerebbero ad essere popolate dalle foreste planiziali che caratterizzavano tutto l’areale dell’Europa centrale?”.

La logica cartesiana ebbe il suo compimento anche nei principi ordinatori della scienza forestale che semplificava macroscopicamente il paesaggio nelle forme e ne riduceva sostanzialmente la complessità biologica. Duecento anni dopo, nel XX secolo gli studiosi tornarono a riconsiderare in chiave diversa l’approccio riduzionista e le sue conseguenze sulla economia del sistema terra in termini di energia e risorse. Non si può negare l’apporto di alcuni scrittori, filosofi e naturalisti americani e del grande movimento ecologista che poi trasloca in tutta l’Europa nel secolo successivo : Ralph Waldo Emerson, Henry David Thoreau, John Muir e Aldo Leopold. Essi esprimono con toni diversi la necessità della difesa della Wilderness per i suoi valori testimoniali, sociali, storici ed ecologici.

“Il Paradigma sociale è descrivibile come un'immagine mentale della realtà costituita da un sistema di valori, opinioni costumi e norme che formano la struttura di riferimento della collettività orientando i comportamenti e le aspettative dei suoi membri” (2). Oggi il paradigma più diffuso è quello della civiltà industriale e della cultura occidentale. Come forse per il pensiero filosofico anche l’approccio alla gestione e all’uso delle risorse ha attraversato nella metà del secolo scorso un periodo in cui non si era in grado di stimare le conseguenze del modello di consumo a ritmi compulsivi e si è sottovalutata l’importanza delle componenti ambientali del nostro pianeta. Ci si è soffermati a lungo sulla analisi e classificazione in virtù di una auspicata conservazione – sempre necessaria e indispensabile – rischiando di perdere una visione d’insieme, ma soprattutto di dare delle indicazioni accettabili e perseguibili per interrompere il processo di alterazione e degrado ambientali ormai in atto. Per fare un esempio la scienza botanica applicata, la fitogeografia, lo studio dei biomi e delle associazioni vegetali solo recentemente, tranne rare eccezioni, non si limitano a classificare e suddividere i biomi ma di comprenderne approfonditamente i flussi, i processi in atto, le connessioni e le evoluzioni.

Alla svolta teorica per una visione olistica dell’ecologia e dell’ambiente hanno contribuito alcuni studiosi del XX secolo: primo tra tutti il sociobiologo Edward O. Wilson (3) che pone i grandi interrogativi sul posto dell’uomo nel grande “ecosistema” dell’universo mettendo in crisi i più radicati pregiudizi antichi e recenti. La visione olistica, che parte dalle proprietà globali di un sistema senza ridurne il significato alla somma delle sue singole parti, si oppone a quella riduzionista che ha sostenuto il modello contemporaneo occidentale. Nell’ambito della pianificazione ecologica e paesaggistica, ad esempio, rimane disattesa per molto tempo l’idea di ricreare anche nel paesaggio stesso un rapporto di simbiosi e sinergia che riproponga a scala ridotta, naturalmente, quelle dinamiche originarie dei luoghi con i rispettivi climi, suoli e le associazioni floristiche.

Nel 1992 il Summit Mondiale dei Capi di Stato di Rio de Janeiro stabilisce tre convenzioni fondamentali: Convenzione sulla Diversità Biologica, Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici e Convenzione contro la Desertificazione. Il concetto di Biodiversità costituirà elemento chiave per una serie di indirizzi, piani di intervento e conservazione delle specie da attuarsi nei paesi aderenti alla Convenzione stessa (all’epoca 193 paesi) e si applica a tutti gli organismi viventi sia selvatici sia selezionati dall’uomo.

In questo nuovo ordine di idee spicca l’idea di giardino planetario di Gilles Clement, un ingegnere agronomo filosofo progettista e scrittore, che introduce a partire dagli anni ’80 nuovi concetti di interpretazione e lettura del paesaggio. Il Giardino planetario è innanzi tutto una presa di coscienza, ciascuna porzione di biosfera condensa la sua totalità. Una visone decisamente olistica. “Il giardino planetario è un progetto politico di ecologia umanista” (Clement G. , 2011) dove tutto il vivente uomo compreso interagisce senza frontiere. Il giardino come espressione di un pensiero ordinato esplode a sua volta, sostiene Clement, come vengono rivoluzionati gli ordini classificatori che incasellano specie in luoghi adatti secondo un'idea che li censiva e raggruppava per affinità.

E’ qui che interviene l’altro concetto chiave riferito al paesaggio e al giardino; l’uomo con il suo approccio sostanzialmente riduzionista considera essenzialmente tre categorie plastiche di paesaggio:
- una, interamente affidata alla natura: il paesaggio selvaggio
- un’altra,sottoposta a rendimento, rimanda agli sfruttamenti agricoli, industriali e forestali
- un’ultima, affidata all’"artista", produce città, opere di alta ingegneria e impianti vari.

Il paesaggio quindi “oggetto” tout court non è mai soggetto del vivente. La bellezza biologica non è contemplata. Si può apprezzare un campo giallo di colza perché è l’ordine agricolo che è anche una piacevole visione, ma non un incolto di Isatis tinctoria con fiori gialli. Dovendo semplificare o meglio sintetizzare il suo pensiero si può parlare di “Utopia realista”, poiché attraverso una nuova idea di giardino si risolve l’eterna antinomia tra paesaggio e ambiente che separa i valori paesaggistici da quelli ecologici. Lo studio e la misura dei parametri più oggettivi, tassi di inquinamento, caratteristiche climatiche, esigenze geopedologiche diventano strumenti chiave per progettare e pianificare un paesaggio secondo un approccio dinamico che segue ritmi e processi dinamici dell’ecosistema e si adegua ad essi.

Di conseguenza gli spazi fino a pochi decenni fa considerati di scarso interesse (spazi di risulta nelle periferie, aree marginali a scarsa produttività agricola, incolti) diventano oggetto di indagine e luogo di combinazione di fenomeni nuovi poco indagati anche in chiave ecologica e naturalistica. Spazi di sperimentazione in cui l’estetica non è posta in secondo piano in quanto il paesaggio diventa soggetto e viene sperimentata e monitorata. Paradossalmente questi “paesaggi indecisi “ agli occhi dell'uomo che interviene per lo più in termini di destinazioni d’uso, restituiscono comunità vegetali in evoluzione con nuovi adattamenti e specificità. Gli ambiti urbani, industriali, le aree di riserva, gli incolti, frutto di anni di abbandono costituiranno i nuovi ambiti, covi di biodiversità.

La nuova estetica del paesaggio acquista anche nuovi linguaggi meno carichi di vergogna – gli incolti – sostiene Gilles Clement (4). Mentre la natura classificata ci rassicura, un campo di grano, un giardino storico, un parco divertimenti, un bosco governato, l’idea di paesaggio soggetto dà a tutte le specie viventi pari dignità e valore; soprattutto le specie più semplici e rustiche sono le più adattabili, le più ubiquitarie, sono dette anche vagabonde cioè colonizzatrici degli spazi aperti sottratti alla coltivazione e sfuggiti all’urbanizzazione.

Questo nuovo modo di interpretare la natura e quindi il paesaggio ha poi implicazioni notevoli e innumerevoli in termini di ripensamento dell’uso delle risorse, risparmio energetico (acqua e suolo in primis), riduzione di operazioni di manutenzione del verde pubblico, vivibilità degli spazi aperti... ma aprirei un altro capitolo…

Note:
(1) E qui mi riferisco a un autorevole rappresentante del più recente movimento naturalistico continentale, apparso a partire dagli anni ’70, l’olandese Piet Oudolf nato nel 1944. Le sue teorie, che sono il fondamento di una vera e propria ulteriore corrente neo-naturalistica, consistono essenzialmente nel riconsiderare alcune specie erbacee perenni spontanee quali elementi strutturali del giardino e non più di corredo per formare bordure a corollario di specie arboree o arbustive. Queste specie selezionate anche attraverso attenti studi sull’habitus, le esigenze agronomiche e le qualità estetiche, diventano elementi fondanti del progetto paesaggistico in un'ottica di progettazione che non fornisce soluzioni definitive, ma aperte a continui adeguamenti. Il giardino non è più congelato e “imbalsamato” in spazi funzionali permanenti nel tempo, siepi, bordure, radure, boschetti, camminamenti, ma si evolve in base alle esigenze di espansione e convivenza spontanea tra specie. Oudolf P., Kingsbury N. Designing with plants, Conran Octopus Limited, London, 1999; Oudolf P.Gerristen Henk, Planting the Natural Garden, Timber Press, 2003.

(2) M. Andreozzi, Verso una prospettiva ecocentrica, LED, Milano, 2011

(3) Nel capitolo “Il posto giusto “ di Biofilia (Mondadori, 1985) Wilson esprime dei concetti base per far capire il rischio del processo di semplificazione: "senza la bellezza e il mistero al di là dei propri confini, la mente viene privata, per definizione, di ciò che la sorregge, e si lascerà andare alla deriva , verso le configurazioni più semplici e più elementari. Gli artefatti sono incomparabilmente più poveri della vita che vogliono imitare; sono solo uno specchio dei nostri pensieri."

(4) Incolto che in francese l’autore definisce la friche, ma non ha equivalenti in altre lingue “Esso indica in generale un terreno incolto e abbandonato rurale, ma anche urbano.” L’etimologia non è chiara: tardo latino friscum, da cui fractitium, campo che è stato lavorato la prima volta, fractus spezzato ; frèches antico francese e dialettale; versh medio olandese, fresco. (G. Clement, Il giardino in movimento, Quodlibet, 2011)