Sono quasi ottocento anni che la città di Assisi, iscritta nella World Heritage List dei siti Unesco proprio perché disseminata di luoghi francescani, incarna una delle mete più ambite del pellegrinaggio cristiano “ad Sanctos”. Ed è soprattutto la tomba di San Francesco, preservata nelle viscere dell’omonima basilica-reliquiario voluta da papa Gregorio IX, ad attrarre i circa sei milioni di fedeli che ogni anno affrontano viaggi spesso interminabili pur di sentirsi partecipi di un messaggio di pace e di amore che va al di là del credo religioso di appartenenza. Ma i tempi cambiano e, con essi, cambia il modo di comunicare.

Così come nel caso della cripta che custodisce le spoglie di San Francesco, laddove sono state installate due webcam, attive 24 ore su 24, che ne consentono la visita virtuale dai luoghi più reconditi del pianeta. Dopo l’installazione si sono registrati miriadi di contatti, che hanno raggiunto un picco il 3 maggio 2013, quando Jorge Mario Bergoglio, il primo papa della storia della chiesa che ha scelto di chiamarsi Francesco, si è collegato al sito www.sanfrancesco.org invocando l’intercessione del santo “per la pace nei nostri cuori”. Il che ha suggellato un fenomeno planetario senza precedenti, facendo assurgere la cripta assisate alla ribalta delle cronache mediatiche. Nessuno però si è interrogato sulla sua datazione, forse dando per scontata la contestualità con la basilica inferiore, e ancor meno sulla sua paternità, magari attribuendola d’ufficio a uno dei tanti soprastanti avvicendatisi nel cantiere duecentesco.

Ma così non è. La storia della cripta, infatti, è tutt’altro che lineare e coinvolge molti architetti. Tutto ha inizio il 4 ottobre 1226, quando la cassa di legno contenente la salma di San Francesco viene trasportata quasi furtivamente nella piccola chiesa di San Giorgio (dove è posta in un sarcofago di travertino di età romana, a sua volta involucrato in un cassone di legno e ingabbiato con una grata di ferro), per poi essere traslata in pompa magna, il 25 maggio 1230, in una cella-sepolcreto scavata al di sotto dell’area deputata alla realizzazione dell’altare maggiore della specialis ecclesia. E ivi rimane fino alla ricognizione del 1819, quando viene rinvenuto uno scheletro, poi effettivamente attribuito a San Francesco da papa Pio VII, e comincia a manifestarsi il proposito di valorizzare la presenza della tomba, che altrimenti è di fatto invisibile.

Così, liquidata la proposta minimalista dell’avvocato Carlo Fea, favorevole alla realizzazione di una “confessione” finalizzata all’ispezione della tomba, viene bandito una sorta di mini-concorso a inviti, in cui sono coinvolti i due principali architetti assisati dell’epoca: Lorenzo Carpinelli, che propone un santuario, scavato intorno alla tomba e accessibile mediante due scale aperte nei bracci del transetto, e Giuseppe Brizi, che propone una terza chiesa, sempre scavata intorno alla tomba ma accessibile mediante un’unica scala centrale. Dopo un acceso dibattito, risolto in virtù del parere autorevole di Giuseppe Valadier, prevale il progetto di Brizi, che tuttavia viene realizzato solo dopo essere stato sottoposto a una profonda revisione da parte dell’architetto pontificio Pasquale Belli. Il che non risparmia Brizi dalle critiche. Infatti, l’algida climax neoclassica della cripta, amplificata dalle algide decorazioni di Francesco Gianfredi, incassa i giudizi lusinghieri degli accademici romani (capitanati da Giuseppe Camporese), ma è condannata senza appello dagli accademici perugini (da Luigi Carattoli a Mariano Guardabassi fino a Giovan Battista Rossi-Scotti), che la ritengono “non conforme ai criteri di dignità artistica e religiosa”.

Fino a quando nel 1919, in occasione del primo centenario del ritrovamento del corpo di San Francesco, si fa strada l’idea di conferire alla tomba una sistemazione più consona allo spirito austero e raccolto della basilica inferiore, riconosciuta da tutti come l’unica vera cripta. Così, liquidata la proposta avanzata dal soprintendente Piero Guidi, l’incarico è affidato a Ugo Tarchi, che all’epoca è titolare della cattedra di Architettura nell’Accademia di Belle Arti di Perugia e che frequenta con continuità la città serafica per dirigere i lavori di costruzione di palazzo Capello. E Tarchi, nonostante l’arduo confronto con i più grandi artisti dell’età di mezzo (da Cimabue a Gattapone), intraprende la progettazione senza tradire timori reverenziali e, soprattutto, senza arrendersi di fronte alle ripetute difficoltà. A cominciare da quelle logistiche dettate dalla distanza geografica, visto che nel 1921 è chiamato a ricoprire la cattedra di Architettura dell’Accademia di Belle Arti di Brera.

Tarchi però non solo non demorde, rifuggendo ogni tentazione di rimettere l’incarico, ma addirittura rilancia, presentando più versioni progettuali. Fino a quella definitiva del 1926: che è contestata dal soprintendente Umberto Gnoli, avverso alla rimozione integrale degli stucchi neoclassici, ma che è approvata dalla famiglia reale oltre che dalle massime cariche istituzionali, perché l’adozione dello stile neoromanico restituisce alla tomba del Santo l’auspicata austerità. D’altronde, come dichiarato apertamente dallo stesso Tarchi nella didascalia che illustra lo spaccato assonometrico della cripta pubblicato nel quarto volume dell’opera L’arte medioevale nell’Umbria e nella Sabina, il progetto consiste in un vero e proprio restyling scenografico.

La pianta della nuova cripta infatti, seppure trasformata da croce greca a croce latina, “non ha subito mutamenti sostanziali comparata alla precedente. È stata modificata l’ubicazione delle scalette che discendono dalla Chiesa e creato un atrio abbastanza spazioso dove è possibile ai devoti restare in preghiera al di qua del cancello che, per ordine della S. Sede, deve rimanere chiuso quando non si hanno funzioni religiose. La strozzatura del passaggio centrale, che era resa ancora più angusta dalla presenza di grosse colonne doriche non aventi nessuno scopo funzionale è stata allargata ed allungata, trasformando così la originaria croce greca della cripta in croce Latina. Lungo questo braccio sono state aperte delle piccole absidi non troppo profonde ma lievemente incurvate sì da rafforzare la statica del sotterraneo”. I muri, le volte e pavimenti vengono così rivestiti con i conci calcarei cavati dalle falde del monte Subasio e il pilastro-tabernacolo, ridisegnato in forme più semplici, assurge a fulcro prospettico dell’intera composizione. Ma soprattutto viene eliminata qualsiasi componente inessenziale e vengono introdotti alcuni elementi di arredo, quali la cancellata d’ingresso e i candelieri in ferro lavorato che, anche grazie alla preziosa consulenza garantita da Caramba (nome d’arte di Luigi Sapelli, all’epoca direttore degli allestimenti scenici del Teatro alla Scala di Milano), introducono un’inedita climax crepuscolare. Che ancora oggi attrae, e ammalia, miriadi di visitatori di ogni condizione sociale, cultura, razza e fede religiosa. Anche via internet.