Qualche anno fa ebbi l’occasione di leggere uno dei saggi pubblicati da due appassionati e profondi conoscitori del giardino ma soprattutto di praticare il giardino, l’orto, di comporre angoli di natura imitandola e cercando di conoscerla nel profondo anche dal punto di vista botanico e agronomico. Pia Pera, scrittrice purtroppo scomparsa prematuramente e Antonio Perazzi paesaggista attento che propone ogni mese una rubrica sulla rivista Gardenia piante insolite o peculiari da inserire nel giardino con molta attenzione alle esigenze della pianta in ogni suo aspetto. Contro il giardino pubblicato nel 2007 da Ponte Alle Grazie di Firenze, oggi ancora reperibile, aveva come sottotitolo Dalla parte delle piante. E apprezzai questo sforzo degli autori di spiegare in forma leggera e interlocutoria, una sorta di scambio di missive tra i due, il perché di tanta mancanza di cultura, conoscenza del mondo vegetale in Italia e sulle conseguenze persistenti sul panorama dei giardini contemporanei, soprattutto quelli più visibili ai più in quanto piccoli o meno piccoli giardini privati che costellano il paesaggio antropizzato italiano.

Delle brutture dei giardini contemporanei ne aveva già parlato uno stuolo di studiosi del giardino a partire da Ippolito Pizzetti, paesaggista e letterato, Paolo Pejrone architetto e divulgatore sul tema del paesaggio, Mimma Pallavicini naturalista e scrittrice, Paola Lanzara studiosa della storia del giardino italiano, solo per citarne alcuni. Ci si riferisce soprattutto a quel paesaggio costruito e frammentato delle villette “geometrili”, come le chiamò con un neologismo calzante il poeta Andrea Zanzotto, che già dagli anni Settanta vide l’uniformazione con una modalità ripetitiva mutuata dal modello della riproducibilità dell’oggetto industriale. Quell’epoca di cui parlò diffusamente e molto esaurientemente il critico Walter Benjamin a proposito dell’opera d’arte affrontando la società di massa contemporanea e la sua fenomenologia.

Ebbene la sostanza del libro dei due volenterosi critici, osservatori del paesaggio italiano era questa, come si legge in una breve recensione: “Cosa vuol dire essere dalla parte delle piante ma contro il giardino? Sulla scia di un senso di saturazione di fronte a spazi verdi sopraffatti dal design e dal mercato, dove le piante vengono trattate come oggetti, violate nei loro tempi e modi di crescita, piegate alle mode col loro ordine effimero, una scrittrice e un paesaggista iniziano uno scambio epistolare. Di lettera in lettera emerge una poetica che, attraverso la cura del paesaggio e del patrimonio botanico, osa un'intensa dichiarazione d'amore per il giardino inteso come il luogo privilegiato dove si rinnova il nostro dialogo interiore con la natura, ricordandoci quanto noi stessi ne facciamo parte”.

Passano, quindi lustri, decenni, secoli e le situazioni purtroppo si evolvono senza darci tregua in un’incessante aggressione alla natura: uno scenario che se prima poteva figurasi come una caduta stile e un’epopea del cattivo gusto, i ben noti giardini privati “ingessati” ripetuti in serie prodotto di un vivaismo commerciale, di cui c’è ancora traccia, oggi si manifesta come ignoranza, quindi non conoscenza della materia botanica-giardinistica e forestale a tal punto da creare non più solo danni estetici ma naturalistici, ecologici mettendo a repentaglio anche la sicurezza dei loro proprietari e di coloro che vivono nelle pertinenze.

Purtroppo mi troverei a ribadire dei concetti, appunto, già trattati in molte analisi critiche fatte negli anni forse già in Inghilterra e negli Stati Uniti da nature writers come Annie Dillard, Barry Lopez, Jane Smiley, Gary Paul Nabhan, Barbara Kingsolver, Terry Tempest Williams, autrici e autori contemporanei che trovereste leggendo Americana Verde, testo ripubblicato nel 2017, dell’omaggio a Elio Vittorini che pubblicò Americana, nel 1941, con un’introduzione di Fernanda Pivano.

Attenzione alla flora del luogo, rispetto del genius loci, gestione responsabile delle risorse verdi urbane e periurbane, salvaguardia di grandi territori da mantenere a riserva integrale. Ma ne abbiamo più volte parlato in questa rubrica. Voglio, invece, fare un richiamo sostanziale, che ritengo impellente oggi in un’epoca, quella del primo ventennio del secondo millennio, in cui assistiamo a un oltraggio pericoloso e dannoso per tutta la comunità per due ragioni essenziali. La prima è la perdita del valore in sé della componente più importante del pianeta in quanto la si demonizza e la si lacera amputandone i suoi elementi costituenti (alberi – siepi- cespugli – coperture verdi), la seconda è la diffusione di pratiche inammissibili dal punto di vista della tradizione della coltura dell’allevamento degli alberi e della loro gestione nel tempo (potature di allevamento, di contenimento, di riduzione delle chiome per entrare nei termini più tecnici, ormai d’obbligo per non essere tacciati di “ambientalisti da salotto”!).

Arriviamo al punto: ci avevano preconizzato 20-30 anni fa che gli ambienti urbani sarebbero stati quelli di maggior urgenza per quanto riguarda lo studio degli ambienti vegetali perché sarebbero cambiate le condizioni climatiche radicalmente, molta siccità alternata a periodi di alluvioni e tifoni, inoltre le città e i giardini privati – moltissimi ! – e pubblici avrebbero presentato alberature, secondo alcuni forestali, da considerarsi “a fine carriera”, quindi, bisognosi di interventi radicali e sostituzioni. Siamo di fronte a un periodo di grandissima crisi del paesaggio antropizzato e dei giardini privati, pubblici e soprattutto delle importanti alberature cittadine.

Immaginate i milioni di esemplari di conifere arrivate in Italia dopo la seconda metà dell’800 che furono poi diffuse nel mercato vivaistico dagli anni ‘20-‘30 del Novecento dall’esplosione degli stabilimenti orticoli. Farò un esempio eclatante sotto gli occhi di tutti: i cedri del Libano.