L'utopia è là all'orizzonte. Mi avvicino di due passi e lei si allontana di due passi. Cammino dieci passi e l’orizzonte si sposta dieci passi più in là. Per quanto io cammini non la raggiungerò mai. A cosa serve l’utopia? Serve proprio a questo: a non smettere mai di camminare.

(Fernando Galeano)

La città, una volta, sembrava una promessa. Un grande spazio per incontri, scambi, opportunità.

E magari lo è anche stata: la polis greca racchiusa nell’abbraccio dei campi coltivati; il comune rinascimentale con le belle architetture merlate e lo sfondo di boschi e colline; le villes lumières - Parigi e non solo - della Belle Époque; i centri che rinascevano nell’Europa del secondo dopoguerra e nell’Italia del boom economico…

Poi la speculazione edilizia ha prevalso su tutto, le città si sono ingrandite in maniera disordinata e incontrollata, il verde e il mare sono scomparsi dall’orizzonte, il traffico e il cemento hanno deturpato o inghiottito le aree libere, infrangendo i vincoli paesaggistici e perfino quelli idrogeologici, mettendo così a repentaglio anche la sicurezza.

E purtroppo, sacrificato tutto il sacrificabile in senso orizzontale, la mercificazione degli spazi si è imposta anche in senso verticale. Sono nate così architetture altissime che hanno stravolto l’essenza di città che con i grattacieli non avevano assolutamente niente a che vedere.

La legge del più forte e il potere di acquisto hanno modificato e omologato l’aspetto dei centri storici, soppiantando antiche botteghe familiari e artigianali con catene di franchising e anonime attività di fast food.

Un assurdo paradosso, poi, ha fatto il resto. Quel paradosso che tiene insieme, non si sa come, due convinzioni diffuse e opposte: “L’Italia deve puntare sul turismo” e “Con l’arte non si mangia”. Come se potesse avere un senso viaggiare se non fosse mai esistita l’arte, se non ci fossero mai stati gli artisti. Immaginate di spostarvi per andare a visitare Agrigento senza templi, Ravenna senza mosaici, Lecce senza il Barocco.

Le città, senza arte, sarebbero state tutte uguali, senza identità. E allora avremmo mai preso un treno o un aereo per andare lontano a vedere luoghi anonimi, grigi e senz’anima?

Grigiore e anonimato, d’altronde, incombono già troppo sulle nostre vite. E fa male vedere che intorno a noi gli edifici più tristi sono, per assurdo, quelli destinati alla parte più fragile della società: parallelepipedi di cemento, alti per gli ospedali, bassi per le scuole. L’esigenza di funzionalità e di essenzialità, travisata, è diventata un alibi per chi commissiona e per chi progetta, un alibi che giustifica l’ordinarietà, la monotonia, la bruttezza.

Così quelli che dovrebbero essere i primi edifici di nuovi quartieri residenziali sorgono ai margini dei margini delle periferie, occupano spesso spazi di risulta, hanno viste desolanti e rimangono per anni al centro di polverosi cantieri dove nugoli di operai, tra un viavai di camion, si danno da fare per realizzare ancora altre abitazioni e per cercare di adeguare le infrastrutture. Come in un girone infernale.

La città, vissuta in questo modo, è una promessa mancata.

Eppure dovremmo trovare da qualche parte, fuori o dentro di noi, un’ancora a cui aggrapparci… sicuramente la bellezza e magari l’utopia. Smettere di disinteressarci, di vivere nella rassegnazione illudendoci di poter fuggire chissà dove e chissà quando e di poter iniziare a coltivare la felicità più in là nel tempo e nello spazio, in un momento migliore, in un luogo migliore, altrove.