Accostare il termine Design a quello di Beni Culturali avrebbe avuto fino a pochi anni fa il sapore di una provocazione, il gusto paradossale dell’ossimoro. Da un parte il termine Design – per definizione legato all’idea moderna dell’artefatto seriale –, dall’altra una nozione, quella di Beni Culturali, per tradizione legata essenzialmente alla conservazione dell’antico e al valore dell’unicità. Persino la creazione dei Musei del Design ha finito con l’accentuare tale distanza, ammettendo che il Design entra nel museo solo quando si percepisce decaduto il suo valore di novità e si apre la strada alla sua catalogazione come reperto del passato.

È dunque evidente che la nuova dizione di Design dei Beni Culturali assume un’accezione molto precisa solo in quanto risultato di una duplice e reciproca trasformazione che ha modificato sia la nostra percezione del concetto di “bene” ereditato dal passato, sia il campo dei significati attribuiti alle pratiche del progetto del nuovo. Questo processo, tanto lungo quanto controverso, è stato oggetto di analisi e di valutazioni tra loro assai diverse, riassumibile in una nutrita letteratura critica e scientifica che sta alla base del lavoro di ricerca finanziato dal MIUR nell’ambito del Programma Prin 2008 – “Il design del patrimonio culturale tra storia, memoria e conoscenza. L’Immateriale, il Virtuale, l’Interattivo come materia di progetto nel tempo della crisi" – di cui questo volume propone gli esiti di analisi e di sperimentazione prodotti dal lavoro di quattro unità operative dirette, in qualità di responsabili scientifici, da Fulvio Irace (Politecnico di Milano), Philippe Daverio (Università degli Studi di Palermo), Giampaolo Proni (Università degli Studi di Bologna), Carlo Vannicola (Università degli Studi di Genova).

Ogni trasformazione nasce dalla constatazione di uno stato di crisi: dall’acuta percezione cioè dell’obsolescenza di concetti cristallizzati in formule ormai non più rispondenti alle dinamiche culturali, sociali ed economiche di cui dovrebbero essere rappresentazione e dalla consapevolezza che solo la cultura del progetto sia in grado di determinare nuovi equilibri di senso, prospettando gli scenari più congruenti alle trasformazioni in atto. Il punto di partenza di questa ricerca è stato dunque individuato nel concetto di crisi che mette in discussione la sedimentazione di valori ridotti allo stato di inservibili stereotipi, contesta l’inattualità dei rigidi confini disciplinari (e delle conseguenti pratiche operative) tra conservazione e progetto, e motiva la sperimentazione di virtuose relazioni tra storie diverse in modo da mettere al centro la dinamica della produzione culturale nella sua più ampia accezione creativa.

Se infatti l’analisi storico-critica delle nozioni di Design e di Beni Culturali è stato fondamento in questi ultimi decenni di innumerevoli riflessioni, ancora aperto rimane l’esame delle relazioni tra i vari attori in gioco, tra cui, prima di tutto, nuove tecnologie che hanno occupato il dibattito sul Cultural Heritage aprendo inediti scenari di competenze, di ruolo e di metodo del Design che voglia proporsi come strumento per favorire e promuovere in senso pieno la valorizzazione del patrimonio. La dimensione dell’“heritage” va infatti oltre l’accezione del Bene Culturale come patrimonio materiale, configurandosi con una prodigiosa estensione di campo verso quei paesaggi antropologici che pur essendo all’origine del mondo tridimensionale, vi rimangono ai margini per l’impossibilità di essere opportunamente conosciuti e rappresentati con strumenti tradizionali. In tal modo si genera infatti una cartografia che, oltre alla fisicità del territorio, è intenzionata a registrare la persistenza di saperi e comportamenti: a includere cioè nella sua catalogazione le dimensioni dell’immateriale e dell’intangibile, per cui metodiche e tecniche di inventariazione e trasmissione sono ancora quasi del tutto da inventare.

L’evocazione del termine “immateriale” introduce infatti immediatamente una concezione estesa del patrimonio e dei suoi aspetti intangibili – il paesaggio umano, le pratiche, le espressioni, i rituali, l’oralità di una comunità, dall’Unesco definiti “tesori umani viventi” – che i metodi tradizionali di conservazione e di valorizzazione non riescono a coprire con l’efficacia richiesta. In tal modo si attiva una nozione attiva di rapporto con il patrimonio che non può essere considerato come un giacimento cui attingere, ma come un’entità da promuovere e da incrementare. La cultura digitale, favorendo per sua stessa natura la dinamica dell’interrelazione e della comunicazione, può essere strumento efficace di promozione di questa visione attiva dell’eredità, cui consente attraverso i suoi linguaggi di esprimersi, di trasmettersi e di produrre ulteriori significati. In quest’estensione vanno dunque compresi anche tutti quegli atti di riconoscimento di valore e di archiviazione storica riferiti alla processualità del progetto, suscettibili di generare forme di musealizzazione attiva in grado di aumentare la realtà archivistica e quindi incrementare i beni delle memoria e non già ridurli a poche icone.

Appare tuttavia chiaro – al di là degli entusiasmi e delle facili approssimazioni favorite dalla duttilità dei nuovi media – che non si tratta semplicemente di sviluppare un’addizione tra le due componenti – heritage e digitale – ma piuttosto di elaborare una cultura dell’integrazione che metta a confronto e faccia lavorare in maniera convergente le caratteristiche principali di ciascuno. Ogni tecnica non è solo strumento, ma porta con sé una visione del mondo, cioè un sistema organico di osservazione che mette in crisi i vecchi paradigmi e ne rende improduttiva la semplice sussistenza. Al suo interno contiene elementi potenzialmente distruttivi dei principi su cui per secoli si è formata, trasformata e consolidata la tradizione del patrimonio come valore inalienabile e collettivo. Se la semplice conservazione non basta più, è tutt’altro che pacifico il dibattito sull’idea sostitutiva di valorizzazione e sulle sue innumerevoli e contrastanti accezioni, da quella puramente economica a quella di accessibilità o di partecipazione allargata.

Nasce da qui l’impegnativo compito di riformulare il tema del patrimonio in una società che la globalizzazione e i mezzi di comunicazione hanno profondamente cambiato. Determinare le coordinate di un progetto che corrisponda a una visione della cultura nel mondo è un compito etico che riguarda tutte le componenti della società. Spetta però al Design dare concretezza di metodo a queste aspirazioni, facendosi progetto di mediazione e di relazione “oltre la crisi”: proponendo quindi modelli e schemi interpretativi che pongano al centro la cultura come espressione critica e non semplice omologazione a canoni imposti dalla suggestione pubblicitaria. Di questi modelli e di questi schemi si occupano gli interventi raccolti in questo volume che ha l’ambizione di proporsi come un atlante di idee, di riflessioni e di progetti sperimentali.

Testo di Fulvio Irace estratto dal volume Design&culturalheritage, Electa,