Come un pomeriggio d’autunno ma in piena estate, entrare delicatamente tra le increspature dell’atmosfera, bagnata, umida, soffice e particolarmente diversa. Una di quelle giornate guscio che si schiudono per l’alba raffinata che si portano appresso, come un’ombra preziosa e troppo fragile. Una giornata silenziosa ma bella da gridare e da stringersi ancora di più. La sensazione era quella di un cuscino di piume, vere, sottili, e così leggere da volare via con il più timido dei sospiri e così bianche che il latte più liquido sfiorirebbe. Ma queste piume erano libere, la fodera del cuscino non le conteneva più e si sparpagliavano tutte confuse, sempre con molta grazia. Poi un tonfo, attutito, di una chiave rugginosa, ambrata, metallica, ci cade sopra, e scompare tra gli ultimi rumori soffocati, tra il piumato pallido.

We might live like never before
When there's nothing to give
Well how can we ask for more
We might make love in some sacred place
The look on your face is delicate

Così canterebbe malinconico Damien Rice con la sua voce, sospirando lentamente. Adagio. Con un lento crescendo.

E poi il video di Javier Pérez che narra di una ballerina danzante. Una danza che diventa al tempo stesso sforzo e lotta, visto che alle classiche punte sono legati coltelli dalle affilate, spietate e crude lame. Ma lei continua a provare, prova a muoversi, sopra un pianoforte in un teatro semibuio, accoccolato da tiepide e fioche luci. La stessa complessa e difficile danza che ha portato Félix Gonzalez-Torres ad amare la vita, l’amore e il suo compagno Ross, sopra di tutto.

Un incipit, una serie di escursioni estetiche per introdurre “sensorialmente” ciò che il lavoro il Gonzalez-Torres mi ha fin dal primo sguardo regalato. Cresciuto a Porto-Rico, da 1979 si trasferì a New York dove continuò a studiare arte e fotografia. In un post-moderno che trova nella sfera quotidiano-intimistica la propria radice, Gonzalez-Torres ha puntato sempre all’essenza nelle sue installazioni dall’aspetto minimalista.

Pochi materiali, pressoché comuni, quali caramelle, lampadine, fogli di carta, gomme da masticare, predisposti in cumoli, ma anche coppie di orologi, fotografie, grandi cartelloni posizionati in aree urbane.

Come la ballerina del video “En puntas” di Pérez, l’artista portoricano grida ad alta intensità in un silenzio delicato, al dolore, alla malattia, a quella lama spietata che è l’AIDS. La malattia che si portò via Ross e poi lo stesso Félix.

Ma quella lama nel video, lascia segni e tracce incancellabili sul quel pianoforte muto. E l’arte di Gozalez-Torres ne sono la prova, sono il regalo inestimabile che un uomo dall’intensità e dal lirismo vibrante, colonne portanti della sua poetica, ci ha lasciato. Lui stesso affermava: “L’arte è soprattutto un modo per lasciare una traccia della mia esistenza: io ero qui. Ho avuto fame, sono stato tradito, ero felice, ero triste, mi sono innamorato, ho avuto paura, ho avuto tante speranze, ho avuto un’idea, avevo un buon fine, ecco perché faccio arte

E proprio perché lui era ed è vivo nelle sue opere, noi non dobbiamo essere da meno. E per questo tutti i suoi lavori prevedono uno spettatore attivo, che sia lì, che sia presente anch’esso, le sue opere sono destinate a consumarsi, scomparire, ad esaurirsi, proprio come la nostra esistenza.

L’opera che ha acceso letteralmente il mio cuore, attivandomi profondamente, facendomi cadere tra le piume bianche, sordidamente e delicatamente, lasciando un segno dentro di me, una di quelle opere che ti cambiano il modo di guardare, e ti fanno salire il nodo alla gola, sempre in punta di piedi, è sicuramente “Untitled” (portrait of Ross in L.A.) del 1991.

Apparentemente il gioco di un bambino, profondamente diversa. Un’opera che con il suo valore simbolico, si disvela lasciandoci stupiti.

Un cumulo di caramelle colorate, equivalenti al peso dell’amato Ross. Gli spettatori non devono e non possono restare indifferenti, ma devono interagire e far vivere l’opera come se fosse il corpo di Ross in carne ed ossa. Come? Prendendo semplicemente una caramella per farne quello che si vuole, scartarla, mangiarla, spostarla. Ogni cosa è Ross. E noi davanti a quella piccola montagna colorata di caramelle, sappiamo. O meglio riconosciamo, e sapere o riconoscere vuol dire ricordare, perché Félix ci parla dell’amore, dell’amore perso, e dal particolare vola all’universale, perché ognuno di noi ha un cumolo di caramelle lì sul cuore. E quando scartiamo quella caramella, spogliamo un’esperienza comune. L’esperienza dell’aver amato, dell’aver vissuto, dell’essere stato, e siamo lì senza copertura. Siamo nudi. Davanti a tanta semplicità. L’artista non prevede grandi esecuzioni manuali tecniche, prende delle caramelle e ci spoglia. Ma come lo stesso Jung affermava: “La vera difficoltà sta nell’essere semplici.” Semplicità che attenzione, non va assolutamente confusa con la facilità che ammette l’assenza di un processo creativo. Niente da aggiungere, niente orpelli, kitsch o superfluo. L’arte di Félix mira al cuore. Dritto, dritto. Fitto. L’essenza. Ecco. L’assenza vive tramite l’essenza, sempre in ogni lavoro. Mi viene in mente un passo che vede protagonisti Beckett e Giacometti che Paolo Rosa in L”arte fuori di sé” riprende per ricordare quanto sia importante levare per restituire l’invisibile, soprafatti come siamo oggi da una saturazione semiotica continua propinata soprattutto dai mass media e dalle tecnologie.

“Beckett aveva scelto l’albero come unica scenografia del suo primo allestimento parigino di “Aspettando Godot” e ne aveva affidato la realizzazione a Giacometti.“Ci doveva essere un albero. Un albero e la luna. Siamo stati lì tutta la notte, con quell’albero di gesso, a togliere, ad abbassare, a fare i rami più sottili. Non andava mai bene, per nessuno dei due. E uno diceva sempre all’altro:”Forse”. Passa il tempo. Nessuno in sala, o sul palcoscenico, osa fiatare. Quando Giacometti si alza deciso. Attraversa il teatro, sale su un praticabile e guardando da vicino il proprio albero comincia a togliere un rametto dopo l’altro. Ogni tanto si ferma e grida a Beckett seduto laggiù nel buio della platea:

Giacometti – Adesso va meglio no?
Beckett – E’ perfetto. Adesso va proprio bene.
Giacometti – Un momento ancora. Aspetta…e così?
Beckett – Bè, così è perfetto.
Giacometti – Aspetta, ecco.

Quando Giacometti fu soddisfatto, dell’albero era rimasto soltanto l’esile tronco. Dalla platea, dove i due si ritrovarono per fumare insieme, si vedeva un cosa striminzita e storta, una specie di niente della natura che a loro sembrò l’ideale.”

E come non ricordare l’eco cinquecentesco e rinascimentale michelangiolesco, del levare per giungere all’essenza che è già lì, spetta solo all’artista donare all’invisibile forma visibile.

“Neve che conserva l’impronta di un uccello”, con queste parole Jean Cocteau deiniva le sculture di Giacometti. Lo stesso effetto lo lasciano le opere di Félix. Opere che sono esse stesse concetto e simbolo di un durata temporale effimera. Tutte sembra decisamente volto a perire. Ma è proprio questa caducità che freudianamente parlando conduce alla bellezza.

Bellezza che è quindi imperfezione come in “Untitled (perfect lovers)” 1991, due orologi pressoché identici, sono fissati alla parate, sincronizzati e vicini, come una coppia. Improvvisamente uno si fermerà, uno andrà avanti. La solitudine è una condizione imprescindibile. Inevitabilmente qualcosa finirà.

Ogni anno nella giornata mondiale contro l’AIDS viene ripetuta un’installazione, per la prima volta esposta il primo Dicembre 1991 al Williams College Museum of Art, “Untitled” (Placebo), un tappeto argenteo di caramelle disposte in un rettangolo, che piano piano tenderà a dissolversi, perché i passanti potranno portare con sé parte dell’opera, scegliendo di prendere una caramella. Un deposito di lacrime amare, Félix incarta il suo dolore per non dimenticare, e noi diventiamo custodi di un pianto e di uno straziante sofferenza che in questo modo però trova vita e evita l’inerme. Mangiamo una caramella, mastichiamo il dolore. Se non se ne parla, lo si deve almeno manipolare in qualche modo. Una distesa metafisica, una paesaggio della memoria, che acquista valore solo se “calpestata” dallo spettatore, ecco come si presenta l’opera.

L’arte si confonde con la vita, e Gonzàlez-Torres lo fa tramite l’utilizzo di materiali anonimi, ha reso pubblico le proprie battaglie personali, come l’essere immigrato cubano negli USA, l’omosessualità, l’AIDS, ha dimostrato quanto l’amore può generare.

E l’elettricità generata dalle due lampadine usate per l’installazione “Untitled” (March 5th) #2 non è solo fisica ma simbolica. L’immaterialità della luce diventa simbologia della coppia, un elàn vitale dal flusso irregolare e fragile. Il flusso di luce da stabile si protrarrà all’intermittenza e ad un fioco perire. Vi è sempre quindi un attivo dinamismo lirico, sottile, leggero, so delicate..

Un altro lavoro, sempre del 1991 che non può non essere ricordato, è la decisione di far diventare cartellone pubblicitario, una foto intima, preziosa, l’immagine di un letto disfatto, quel letto dove probabilmente si era consumato l’amore con Ross.

Ross che è l’elettricità dei lavori di Félix.

Guardando quella foto ognuno di noi si può riflettere, navigando così a fior di pelle in un torrente di ricordi, che ci riporta alla mente i momenti nei quali esser spettinati, tra quelle lenzuola stropicciate, ci faceva sentire vivi. Si perché quel letto vissuto è l’impronta sulla neve, passeggera ma con un peso specifico sul corpo della memoria di tutti quanti noi.

Ma se non ricorderemo, sicuramente l’arte di Félix fa riflettere sul sottile confine così scivoloso tra arte e vita, tra pubblico e privato.

Félix è un po’ di ognuno di noi. Ross è un po’ di ognuno di noi. Entrambi sono parti di un sentire comune, potente ed intenso. Amplificato. So delicate. So strong.

Rileggo spesso l’intervista che Cattelan fece a Félix per Mousse Magazine, e che concludeva così:

Cattelan: Credi che questa mostra scatenerà molti ricordi nella mente delle persone?

Gonzàlez-Torres: No. La gente semplicemente non ricorda. È come in Casablanca, quando Humphrey Bogart dice: “Molto tempo fa, la notte scorsa.” Le persone non ricordano la notte scorsa.

Cattelan: Allora perché farlo? Per cosa?

Gonzàlez-Torres: (pausa) Onestamente, senza perdere tempo: per Ross.

Così tra le note di “Olsen, Olsen” dei Sigur Rós, scivoliamo via, tra le piume bianche, in un pomeriggio autunnale in piena estate. So delicate.