Figli dell'epoca

Siamo figli dell'epoca,
l'epoca è politica.

Tutte le tue, nostre, vostre
faccende diurne, notturne
sono faccende politiche.

Che ti piaccia o no,
i tuoi geni hanno un passato politico,
la tua pelle una sfumatura politica,
i tuoi occhi un aspetto politico.

Ciò di cui parli ha una risonanza,
ciò di cui taci ha una valenza
in un modo o nell'altro politica.

Perfino per campi, per boschi
fai passi politici
su uno sfondo politico.

Anche le poesie apolitiche sono politiche,
e in alto brilla la luna,
cosa non più lunare.
Essere o non essere, questo è il problema.
Quale problema, rispondi sul tema.
Problema politico.

Non devi neppure essere una creatura umana
per acquistare un significato politico.
Basta che tu sia petrolio,
mangime arricchito o materiale riciclabile.
O anche il tavolo delle trattative, sulla cui forma
si è disputato per mesi:
se negoziare sulla vita e la morte
intorno a uno rotondo o quadrato.

Intanto la gente moriva,
gli animali crepavano,
le case bruciavano e i campi inselvatichivano
come nelle epoche remote
e meno politiche.

(Wislawa Szymborska)

Per introdurre il lavoro dell'artista palestinese Nawras Shalhoub mi sono servita delle parole di un'altra grande poetessa. Per parlare di poesia è necessaria la poesia, e Shalhoub ci parla poeticamente attraverso le sue opere. Politicamente.

La (galleria+) Oltredimore di Bologna dal 2 ottobre al 22 novembre presenta la prima personale in Italia dell'artista. Un'antologia di lavori in cui l'artista esplora la questione del dolore, venendo da un paese in conflitto, non ha avuto altra scelta che quella di essere in contatto con la sofferenza, sia fisica che morale. La sua ricerca artistica, quindi è il mezzo per entrare in contatto con il dolore, proprio e degli altri, un filtro, un catalizzatore per trasformarlo in energia.

Nato nel campo profughi palestinese di Yarmuck in Siria nel 1974 rientra con la sua famiglia in Palestina solo nel 1994 e rimane nella Striscia di Gaza fino al 2001. Diplomato alla Scuola di Belle Arti di Strasburgo nel 2007 vive ora in questa città. I suoi lavori, che abbracciano tanto la pittura quanto il video, le installazioni e la scultura sono stati esposti anche in Corea, Emirati Arabi Uniti, Francia e Palestina tra il 2008 e il 2013.

La mostra si apre con il lavoro dal mio punto di vista più intenso, A piece of the wall for you mon amour, un'installazione di sette mattoni di cemento con del filo spinato. Un'opera intrisa di poesia, di una bellezza che crea dolore, semplice tanto quanto complessa, che richiede riflessione e sosta per meglio osservarla. Quest'opera manifesto di Shalhoub racconta silenziosa ed elegante il modus operandi dell'artista. Il taglio grossolano, grezzo e pesante del cemento, la scelta di un mattone, che rimane dettaglio di un muro più mentale che fisico, avvolto da esili fili di metallo spinato, leggeri e ancorati; alcuni prendono nonostante tutto, la forma di un cuore. Un gesto quasi elementare, primario, lo sguardo di un uomo si concilia al gesto che potrebbe essere quello di un bambino. La dicotomia che contraddistingue la poetica di Shalhoub è disarmante. Leggerezza e pesantezza. Una precarietà fragile quanto bella.

Lo stesso artista dichiara: "La cosa migliore di una guerra è la sua fine: la fine dell'occupazione, la fine del dolore, la speranza che il domani arrivi senza bombe e senza morti, senza proiettili e senza muri; i muri non restano nella storia, forse durano qualche decina di anni ma non di più, chimere nell'esistenza di un popolo. Il muro di cemento e il muro nelle menti, non si nasconde, è visibile palpabile e lascia delle tracce nei corpi e nelle anime; un muro con il quale si può convivere, che si vede quando ci si abita di fianco, che ci impedisce di andare a vedere i nostri alberi e i nostri vicini, a volte la nostra famiglia, frontiera interna; un muro che si può scegliere di distruggere, con il quale si può scegliere di non convivere, bisogno di liberazione e di grandi paesaggi; per raggiungerli, immaginiamo un "dopo i muri". Eccone un pezzo, un regalo per te, amore mio, un regalo per tutti."

L'artista ci lascia quindi un dono importante, un dopo i muri, un'aperta riflessione di frontiera, difficoltosa, spinosa ma speranzosa. Un mattone che è inizio e seguito, oltre l'invisibile. Un mattone che da orpello diventa appello. Urgente e struggente. Not another brick in the wall.

Harp, è altrettanto poeticamente intensa. Una scultura leggera, appesa, sospesa, in ferro battuto e filo spinato, con corde e un casco militare. Una sinfonia tagliente e lacerante in bilico tra l'orrore della guerra e l'energia vibrante e melanconica di un'arpa ancestrale. Un suono vellutato dei cannoni riecheggia nelle memorie dorate di Shalhoub. Dorata come l'atmosfera tra l'onirico e il reale della fotografia in stampa digitale dedicata a sua figlia Sarah. Sarah davanti al muro, Sarah che si nasconde all'obiettivo con il muro che fa da limbo e ritorna evanescente nei lavori dell'artista. Un muro che separa in due metà speculari l'immagine. Tra l'oscurità e la doratura, un'atmosfera rarefatta quasi in procinto di sciogliersi come cera al sole. Delicata ma profondamente oscura, una barriera che può essere affrontata solo con un gesto di una bambina. Un sorriso.

Quella cera la ritroviamo non a caso fisicamente utilizzata per la scultura La guardienne des oliviers. L'artista impiega cera d'api, alberi d'olivo, terra e vetro. Materiali in trasformazione, che vivono, profumano e sono caduchi. Caduchi di una bellezza messa sempre a repentaglio dall'orrore. Il dolore e la sofferenza però si trasformano in un'installazione aulica, una donna dorata, giace accovacciata e seduta, scolpita nel tempo della memoria. Severa e scheggiata osserva e fa da guardia a un tumulo di terra. L'atmosfera è rara e sacra. Una perfetta armonia, oltre alle piante di olivo sembra essersi radicata in un'attesa atemporale. Le sottili filamenta di vetro, ritraggono uno sguardo di luce, mischiandosi alla terra, all'origine, e sembrano dare vita alla stessa donna di cera.

Monter leger, installazione site-specific pensata per la galleria, prevede una scala dapprima larga poi sempre più stretta. Di legno e delle asticelle vetrate, fibre metafisiche e metafore di un'ascesa complessa e probabilmente impossibile. Siamo sempre sulla soglia con Shalhoub, risospinti alla deriva. Tra amore e sofferenza. Vos dieux ne sont pas dans mon sang, opere che l'artista espone su tronchi di legno, facendo sembrare l'insieme un'unica installazione. Couple perdu, Le reve perdu de mon fils, Rien qu'un biberon, reve survivant, la vie est belle avec tout le bourdel, sans larmes, sans issue.

Tra scritte e silhouette di bambini sotto al mirino, l'artista utilizza proiettili, cera d'api, miele in acquari dalle dimensioni variabili, l'amaro e il dolce si fondono in uno stato conservativo di memoria precaria. L'utilizzo di un materiale inconsueto come il proiettile è decisamente suggestivo, e ci riporta alla realtà dalla quale Shalhoub proviene. Fossili di slogan ben precisi come la vita è bella nonostante tutto il caos. Accumulazione di spari nell'occhio di chi guarda. La moltitudine di proiettili raccolti diventano pixel inesplosi e in alternanza di vuoti e pieni definiscono ombre, sagome e profili di un'identità di un popolo.

Shalhoub eredita dall'arte povera e concettuale l'attenzione per i materiali, l'energia e per le idee, la fusione di istinto primordiale e oggetto dal nouveau realisme, la poesia di Gonzalez-Torres che da un intimismo universale va al singolare, e al misticismo di un primo Kapoor. Interessanti sono anche le due tele presenti in mostra dai titoli entrambi riferiti alla pioggia, due acrilici su tela, J'attends la pluie e Pluie de la mer in memoria di Vittorio Arrigoni, l'attivista giornalista italiano sostenitore della soluzione binazionale in merito al conflitto israeliano-palestinese, ucciso da gruppo terrorista. Un pacifista che amava concludere sempre i suoi articoli con "stay human".

Shalhoub ripropone nelle due tele un colore informe e graffiato, disperso e quasi strappato, aspettando la pioggia in un flusso di memoria liquido. La mostra termina nell'ultima sala con un video intitolato Jerusalem avant la priere del 2014. E in una paziente e silenziosa attesa si consuma la visione. Se dapprima ci troviamo dinanzi a un muro di candele di cera, portando tempo a noi stessi ci accorgiamo che lentamente, questo impedimento decade, sciogliendosi e mostrandoci una Gerusalemme dal sole calante e sopito, in un'atmosfera dorata e sacra.

Una chiusura video che fa da cerniera, ripercorrendo l'intera poetica di Shalhoub, uno sguardo genuino, labile, dicotomico, prezioso che si disvela con il movimento del tempo liquidamente come cera, pungente come proiettili e filo spinato, raffinato come l'unione di amore e dolore. Opere caduche che pur restando umane ci restituiscono l'eterno. Un interstizio al miele tra lo sparo e il suono di un'arpa.

Non c'è vita che per un attimo non sia immortale.
La morte è sempre in ritardo in quell'attimo
.
(Wislawa Szymborska)