Tra il turbinio delle lenzuola, scivolando i corpi danzano nel crepitio di un temporale, diluiti nell'atemporalitá i colori si infiammano, irraggiano e accadono nel perimetro di una canvas-body. Peripezie prismatiche nell'accadimento dell'azione e nell'accadere dello sguardo, sono le opere di Paul Jenkins.

Qualcuno diceva, probabilmente Magritte: "se si è sensibili, bisogna provare vertigini e angoscia". Avvicinandosi all'impero imponente e visivo di Jenkins, posso garantire che se intendiamo la sensibilità come una rilevazione di una percezione, esteticamente e filosoficamente parlando, allora sì, la fantasmagorica vertiginosa angoscia del colore si accanisce nella sospensione retinica.

The spectrum of light è il titolo della retrospettiva di lavori su tela e carta che la città di Prato ha dedicato al grande artista, svoltasi tra due sedi, la Galleria Open Art e il Museo di Pittura Murale in San Domenico dagli spazi suggestivi come il Salone delle Capriate mai presentato dopo il recente restauro. Se gli spazi della galleria hanno accolto le opere di più recente produzione, il Museo di San Domenico ha offerto dal punto di vista dell'allestimento un interessante e proficuo dialogo tra i lavori degli anni '60, '70, '80 dell'artista americano, con ad esempio le sinopie di Paolo Uccello.

Emerge l'eleganza della linea, che diviene "un sempre nel mai". Una linea che da contorno, si slega e si crepa attraverso i secoli per ristabilire i propri confini dell'essere. Una linea che non vuole più marcare, delimitare o contenere, ma al contrario una linea soggetto che diviene puro colore, una protagonista che esplode a ogni gesto. Una linea che si denuda per divenire altro.

Quella linea orientale che Jenkins tanto ammirava come nel caso dell'artista giapponese Hokusai, a tal proposito lo stesso affermava: "Essa aveva un significato autonomo e ha creato una sua forma significativa." e ancora a proposito delle ébauches di Gustave Moreau: "esperienze soggettive in pittura con enfasi sulla pittura." Se ci si vuole immergere, calare, nei mondi immaginari di Jenkins occorre dare corpo a quell'enfasi, occorre essere pronti a respirare, ( a pieni occhi) la pittura come Eros disciolto, freudianamente fantasticando.

E' necessario sottolineare anche l'influsso di un certo contesto culturale e la conoscenza e il legame con artisti quali, Mark Rothko, Jackson Pollock e Barnett Newman. Citando Renato Barilli, nell'introduzione all'informale, si può parlare di "arte concreta", "volta cioè a proporre elementi plastici e cromatici autonomi, che però sono figure anch'essi, anche se prive di un riferimento più o meno fedele al mondo esterno."

La stagione dell'informale o espressionismo astratto (se vogliamo usare la terminologia per gli accadimenti americani) è da sempre stata affiancata inevitabilmente alla seconda guerra mondiale che significò il crollo generale di fiducia verso il progresso tecnologico. Nell'ambito del pensiero Sartre rilesse Husserl padre della fenomenologia, e assieme al "fratello minore" Merleau-Ponty posero l'accento sulla presenza di una sfera primaria, fluida, dominata dalla logica del campo percettivo, sessuale, affettivo, uno spazio organico, uno spazio vissuto. Non è un caso se dal '59 fino alla fine della sua attività artistica, Jenkins inserì in tutti i titoli delle sue opere la parola "Phenomena".

Non esiste più un centro unico, il centro è dappertutto. Come sottolinea Barilli, "siamo molto vicini a una forma omologa dello spazio per scorso dalle onde elettromagnetiche; queste di regola hanno una sorgente, ma una volta ripartite, si diffondono ovunque, rimbalzano, si infrangono, si compenetrano."

E cosa sono i colori se non questo, onde elettromagnetiche, nei lavori di Jenkins? Bios fluido mai uguale a se stesso, concreto e autonomo nel suo esistere. Quei colori che sono "patimenti di luce" come afferma l'artista. Goethe e Kant mentori del creatore americano, guardano attraverso il prisma di Newton. La rifrazione, l'incertezza, la moltitudine, "lo spettro è visibile sono lì" come afferma nel catalogo Beatrice Buscaroli. E ancora "Fenomeni, manifestazioni, non delle cose o della luce che le investe come richiederebbe il programma dell'Impressionismo che l'artista vede come una illustrazione di un evento nella natura, ma piuttosto emergono dall'atto della loro creazione ad opera dell'artista stesso."

Di fondamentale importanza per comprendere la poetica Jenkinsiana è il modus operandi con il quale l'artista produceva i propri lavori. Una vera danza. Una coreografia come descritto da Bosquet: "l'intervento esterno era di due tipi: l'uno il più originale, consisteva nel versare i colori nel cavo del foglio o della tela preparata dopo averla curvata. Poi, dondolata, spostata, ripiegata leggermente o spiegata, essa stessa obbligava i colori a concentrarsi, a stendersi, a trovare il loro letto e perciò la loro forma. L'altro intervento è meno rivoluzionario, benché indispensabile alla comprensione dell'opera di Jenkins. Si riferisce alla direzione che egli dà ai suoi colori e alle sue masse, attraverso uno strumento, una bacchetta che fa le veci di un pennello, o un coltello d'Avorio, il cui ruolo è quello di correggere la parte - certo considerevole - del caso in questa danza."

Mi è impossibile non pensare a Loie Fuller, danzatrice e attrice americana, che pur non avendo mai studiato danza, insieme alla Duncan e St. Denis fu una delle pioniere del balletto moderno statunitense. La Fuller attraverso il movimento di lunghi drappi che altro non erano che estensioni corporali e l'uso performativo di luci, creava danze vorticose, risucchiando lo sguardo in un inafferrabile accadere. Quell'accadere inafferabile che attraverso gli smalti e acrilici su tela trova percorso sulle superfici eteree e fluttuanti di Jenkins.

Si tratta per me di un essere "profondamente superficiale". Un binomio contrastante che diventa emblema di una poetica sublimata nel puro esistere. Una poetica che si snocciola su tele di grandi dimensioni per la maggior parte, la retrospettiva ci conduce ad ammirare il colore come un organismo a sé stante, che si sviluppa e si avviluppa dinanzi a noi, attraverso il tempo. Il tempo diviene coscienza attraverso la metamorfosi del colore. E' palpabile notare come siano diversi i primi lavori dagli ultimi. Jenkins sembra con lo scorrere degli anni trovare una razionalizzazione della pennellata, che si fa più quadrata o dalla larga e invasiva campitura. Abbandona, o meglio matura, le filamenta intrepide e caotiche, a schizzo esuberanti degli anni cinquanta e sessanta.

Quindi, filamenti organici, polifonici e talvolta fragili, talvolta più ingombranti e ampi, altisonanti e lunatici, porzioni di colore o compatte o trasparenti come velari. Colate, compenetrazioni che divengono metafore, quasi radiografie dell'atto sessuale che corona la fusione di due corpi. In ogni caso è un'esplosione all'origine, poi calibrata e direzionata da un corpo mosso da profonda cura. Una cura che diviene attenzione mentale, il caso viene accompagnato da una volontà.

Come in Zabriskie Point, capolavoro Antonioniano, durante la scena finale, i Pink Floyd musicano il big ben tra le cose, Jenkins segna e orchestra l'inizio del caos tra i pensieri. Noumeni cromatici. Prendo in prestito con la stessa cura Jenkinsiana le parole di Alda Merini per concludere così: "Amo i colori, tempi di un anelito inquieto, irrisolvibile, vitale spiegazione umilissima e sovrana dei cosmici 'perché' del mio respiro."