"E' mattina. Dalla mia finestra vedo un'altra finestra. Ogni mattina una vecchia donna dai capelli bianchi si affaccia, aspetta che succeda qualcosa, qualcosa di bello, che io non so e non vedo, e dà degli abbracci e dei baci dalla sua finestra aperta. Poi la chiude e il giorno inizia. E il giorno inizia anche per me."

Queste sono le parole che utilizza l'artista Alessandra Spranzi per raccontare il suo lavoro Ogni mattina del 2006, unico video esposto alla galleria p420 di Bologna che le dedica la personale Maraviglia visitabile fino al 31 gennaio. E' proprio una signora dai capelli bianco neve che ci accoglie all'entrata dell'esposizione, questa immagine di questa anziana che potrebbe essere la vicina di casa di ciascuno di noi mi ha riportato alla mente la scena della busta di plastica che danzava nel vento nel film American Beauty, in entrambi i casi viene cioè celebrata l'epifania dell'ordinario, quello a cui non dedichiamo più tempo perché di tempo sembra non essercene più.

Uno dei protagonisti del film di Mendes esordiva così: "Era una di quelle giornate in cui tra un minuto nevica. E c'è elettricità nell'aria. Puoi quasi sentirla... mi segui? E questa busta era lì; danzava, con me. Come una bambina che mi supplicasse di giocare. Per quindici minuti. È stato il giorno in cui ho capito che c'era tutta un'intera vita, dietro a ogni cosa. E un'incredibile forza benevola che voleva sapessi che non c'era motivo di avere paura. Mai. Vederla sul video è povera cosa, lo so; ma mi aiuta a ricordare. Ho bisogno di ricordare. A volte c'è così tanta bellezza nel mondo, che non riesco ad accettarla... Il mio cuore sta per franare. "

"C'era una vita intera dietro ogni cosa", con questo assunto come non ricordare il maestro bolognese Morandi? Chi meglio di lui ha saputo dare tempo e sguardo profondo alle cose, e voglio sottolineare il sostantivo "cose" alla Remo Bodei, cose sulle quali viene sedimentato del significato, non oggetti, meri oggetti privi di attribuzioni. Trovo quindi in perfetto dialogo la poetica della Spranzi con il grembo morandiano bolognese. Bologna è la città perfetta per comprendere il lavoro dell'artista.

Le opere che la Galleria P420 ospita appartengono a vari cicli: Io? (1992-93), Vendesi (dal 2007), Dizionario Moderno (2012-14), Sortilegio (dal 2012), Obsoleto (dal 2012). Alla Spranzi interessa una bellezza già esistente, non vista, per questo motivo è una grande collezionista e riciclatrice di immagini preesistenti che provengono da manuali pratici, libri scientifici, o riviste di annunci economici. Lei rifotografa, ritaglia, ingrandisce, stampa con tecniche diverse come in Sortilegio, dove illustrazioni di manuali pratici in cui si vedono mani al lavoro su materiali e oggetti sono rifotografate e stampate con la tecnica della fotoincisione. L'immagine esistente viene rimaneggiata per diventare altro. Perfino la propria.

In Io? fotocopie di collage nei quali l'artista ha sostituito il proprio viso a quelli di diversi personaggi tratti da libri e riviste. Ecco allora la Spranzi astronauta. Metafora interessante, l'artista che esplora i crateri dell'invisibile. Non fare attenzione alle cose ci rende profondamente lacunosi nei confronti della scoperta dell'ordinario. Cosa c'è di più trascurato delle fotografie delle offerte? Quasi le bypassiamo irritati, con totale disinteresse e voluta cecità. In Vendesi le immagini di annunci economici di oggetti messi in vendita, originalmente poco più grandi di francobolli, sono rifotografati e ingranditi fino a svelare la loro grana tipografica, un autentico zoom sulla pelle delle cose. La Spranzi, con il proprio modo di lavorare apre a una questione ormai obsoleta, obso-lenta, ma in questo caso interessante, risalenti agli anni Settanta. L'artista non è una fotografa, ma un'artista che utilizza la fotografia. E' necessaria questa distinzione?

Come anche Claudio Marra in Fotografia e pittura nel Novecento sottolinea, "È proprio negli Settanta che si assiste al clamoroso ribaltamento della vecchia formula "fotografia come arte" in quella di "arte come fotografia", dal momento che non è più l'invenzione di Daguerre a chiedere accoglienza nella palazzo dell'arte, vestendo ossequiosamente i panni della pittoricità, ma è l'arte stessa a uscire dalle proprie stanze sostituendo la mono-identità pittorica con tutta una serie di identità decisamente prossime alle categorie messe in gioco dal medium fotografico." E ancora sento di citare una frase faro di Marra "Di fatto la fotografia funziona come un ready-made."

E la Spranzi ama partire proprio dal già fatto. Risposte dogmatiche quindi non ce ne servono, sicuramente la fotografia più che mai negli ultimi decenni ha dimostrato di uscire da se stessa. E anche l'artista lo fa, la Spranzi ama profondamente l'immagine fotografica soprattutto se abbandonata, solo una persona che nutre profondo amore e cura può farci godere così dell'ordinario. La fotografia diviene un corpo palpato, toccato, rimanipolato, mischiato, accarezzato e tagliato, ingrandito. La Spranzi sveste e riveste. Sgualcisce e rende presente ciò che era stato bandito all'angolo. Il banale smette di essere tale.

La capacità del conservare uno sguardo vergine sulle cose ordinarie rimane il punto saldo dell'arte della Spranzi che dimostra anche nelle proprie parole una poetica ricca e potente: "Da anni rifletto sul potenziale, spesso addormentato o consumato, presente nelle immagini, tornando a guardare e utilizzare materiale anacronistico o povero con progetti ogni volta diversi, che portano alla luce, o svelano, il lato nascosto e irrazionale delle cose e delle immagini. Raccogliere, avvicinare, mettere insieme, far incontrare è un modo per riorganizzare, o sorprendere, la visione e il pensiero, per rimettere in gioco la natura enigmatica dell'immagine fotografica che continuamente ci interroga."

Nella serie Obsoleto, più che mai, secondo me, l'artista attua questa modalità di "far incontrare per sorprendere". Numerosi fotomontaggi che mettono insieme pagine di vecchi libri o riviste di vari argomenti (scienze naturali, geografia, astronomia, arredamento, botanica) a delle polaroid scattate dall'artista. Il soggetto delle polaroid sono oggetti raccolti per strada, o ritagli di fotografie, messi in scena su un tavolo. Come non ripensare a Morandi? Il tavolo diviene un set per gli oggetti orfani che vengono adottati, scelti o trovati, e ai quali viene soprattutto riconsegnata fascinazione e maraviglia.

Maraviglia, la parola scelta dalla Spranzi per questa mostra: "Maraviglia, la ripetizione della a come uno stupore ripetuto, o uno stupore del secondo sguardo. Chiudo gli occhi, li riapro, riguardo o ritrovo qualcosa che appare inaspettatamente nuovo." Maraviglia, l'opera, che fa da arciere-guida di tutta l'esposizione, una fotografia di dettagli di una copia del Dizionario Moderno trovata dall'artista in un mercato dell'usato. L'ignoto proprietario aveva arricchito il libro con definizioni ritagliate da altri dizionari e incollate sulle pagine. Una delle definizioni aggiunte era appunto "maraviglia".

Ecco allora la Spranzi ricercatrice funambola, attenta, che con cura cerca, trova, sceglie i propri preziosi fossili, sedimentati, scava l'immagine fotografica, qualunque essa sia, ci va a fondo e le restituisce "maraviglia", dal latino mirabilia, appunto, significante "cose ammirevoli". E allora, ogni cosa è illuminata.