Entrata prepotentemente nei copiosi annali del falso in arte, al capitolo “beffa ai danni degli esperti”, la Burla di Livorno rappresenta un caso esemplare e affascinante per una vicenda densa di colpi di scena, da cui partire in un sorprendente gioco di scatole cinesi che, coinvolgendo numerose figure, implicate a vario titolo e con diverse motivazioni, permette di considerare ambivalenti aspetti del vero e del falso, dell’ampiezza del “fenomeno” Modigliani, sia sottolineando l’amplificazione mediatica, nuovo parametro di produzione di valore e di consenso, sia prospettando, tra vecchi e nuovi assetti, una riflessione sul ruolo dell’arte nella società contemporanea.

La vicenda, scoppiata nell’estate del 1984, a trent’anni di distanza vede le false teste esposte in mostra nella Fortezza Vecchia di Livorno nell'estate del 2014, e poi al Museo Nazionale di San Matteo di Pisa, in concomitanza con la mostra Amedeo Modigliani et ses amis allestita a Palazzo Blu, dal 3 ottobre 2014 al il 15 febbraio 2015, dopo che per anni sono state conservate nei depositi comunali dei Bottini dell’Olio e prestate molto raramente per mostre [1], tra cui Contraffazione dell’Arte/Arte della Contraffazione, tenutasi al Museo di Palazzo Taglieschi di Anghiari nel 2012 con il relativo ciclo di conferenze, del quale questo saggio è il contributo postumo agli atti [2].
La burla, anche per gli aspetti di cronaca e perché ha largamente travalicato il mondo dell’arte, è stata oggetto di pubblicazioni, studi e articoli [3] non solo quando si svolgevano i fatti ma in anni successivi, quando notizie ad essa collegate ne reiteravano la memoria, prolungandone le vicende.

La singolarità del caso è data non tanto dalla mera contraffazione, poiché l’intento non è operare una truffa economica, quanto piuttosto colpire “l’immagine”, “smascherare” l’arroganza e la presunzione, rinnovando lo scontro biblico tra Davide e Golia. Tanto maggiore è il danno a carico degli esperti, quanto più questi si arroccano, quanto più si svela la beffa, del resto squisitamente inserita nella migliore tradizione toscana. La posta in gioco, quindi, è la credibilità della critica, qui rappresentata da alcuni dei massimi esponenti, e il generale sospetto dell’inconsistenza di un valore oggettivo dell’arte, in particolare contemporanea, quando un “autorevole” giudizio di merito può essere così schernito. Gli ingredienti ci sono tutti e sono perfetti per rendere la storia un autentico, e non falso, caso “ad arte”. Innanzitutto c’è il mito, il mito Modigliani, simbolo dell’artista deraciné, dell’artista “maledetto” - in nomen omen, Modì in francese suona come maudit - un primato che nell’immaginario popolare, e nelle quotazioni, contende a Van Vogh.

Amedeo Modigliani, artista bohémienne e squattrinato “eroe” nella Parigi capitale dell’arte degli inizi Novecento, di salute debole, italiano grande amatore e dedito all’alcool, con il tragico finale della giovanissima moglie Jeanne Hébuterne che, dopo la sua morte, si suicida lanciandosi nel vuoto, lasciando orfana la piccolissima figlia. Il mito dell’artista romantico è servito [4], un mito che la figlia Jeanne cercherà di rendere più “umano”, pubblicando nel 1958 la biografia Modigliani senza leggenda [5]; ma è un mito difficile da arginare quando c’è da fare i conti con un mercato proteso all’ambita ricerca del feticcio da collezionare, che ne fa l’artista tra i più falsificati, con opere tra le più controverse. Infatti considerando tutte quelle in circolazione, il corpus dei lavori è invece piuttosto circoscritto, tra oli, sculture, disegni e schizzi, a meno di un migliaio, spesso realizzati per un pasto in un bistrot. Scommettere su Modigliani è considerato un azzardo, occorre davvero molta cautela nell’attribuzione, anche perché sono pochi i reali conoscitori della sua opera [6]. A questo proposito, afferma inesorabilmente Giovanni Urbani: “Non esiste un vero conoscitore in senso tecnico di Modigliani. D’altra parte un esperto del genere sarebbe un cretino perché avrebbe perso la vita dietro a un pittore tutto sommato di second’ordine” [7].

Fin dagli anni ’20 i falsi prolificano sul mercato internazionale: “ne incontro un paio all’anno” afferma William Liebermann, direttore della sezione arte contemporanea del Metropolitan Museum di New York [8]. Infatti gli studiosi di Modigliani sanno già che il suo amico e mercante d'arte, Leopold Zborowski, sembra che facesse terminare da altri i lavori rimasti incompiuti e la sua vedova attestasse l'autenticità di molti disegni senza grandi esitazioni; così faceva anche Lunia Czechowska, amica e modella di Modigliani, mentre nel dopoguerra Elmyr De Hory, uno dei più grandi falsari del Novecento, immette sul mercato oltre ai Matisse e ai Renoir, soprattutto falsi Modigliani. Con una grande popolarità e un mercato fiorente, per uno stile tutto sommato semplice da imitare, Modigliani è prediletto da falsari e da mercanti d’arte di dubbia onestà.

Altro ingrediente essenziale è la leggenda che gira a Livorno secondo cui l’artista, rientrato per breve tempo da Parigi nell’estate del 1909, in un momento di rabbia e delusione, avrebbe gettato le sculture nel Fosso Mediceo, dopo averle mostrate agli amici del Caffè Bardi, che lo avrebbero deriso esortandolo a buttarle in acqua. L’aneddoto sarebbe confermato anche da una biografia su Brancusi, scritta dall’amico Pieter Neagoe, dalla quale risulta che Modigliani, dividendo lo studio con lo scultore rumeno, gli avrebbe confidato di aver scagliato le sculture nel Fosso [9]. Gli eventi sono noti ma ripercorrendoli nel dettaglio possiamo meglio apprezzare questa incredibile storia, iniziando dall’antefatto del 1981, quando Parigi celebra Amedeo Modigliani con una grande mostra che si rivela un lusinghiero successo anche al botteghino. Naturalmente in Italia non si vuole essere da meno e si considera di realizzare una prestigiosa esposizione a Roma alla Galleria nazionale d’arte moderna ma mancano le adeguate le risorse economiche. Si pensa quindi, in occasione del centenario della nascita (12 luglio 1884), di allestire la mostra a Livorno, quale omaggio della città natale al suo illustre concittadino.

Il progetto e la cura vengono affidati alla conservatrice dei musei civici livornesi e direttrice del museo d’arte moderna di Villa Maria, Vera Durbé, che si avvale della collaborazione del fratello Dario, soprintendente della Galleria nazionale d’arte moderna che chiedono agli Archives Légales Modigliani, gestiti da Jeanne Modigliani e Christian Gregori Parisot, di partecipare all’avvenimento con il prestito di disegni e un saggio per il catalogo. Da Parigi rispondono che lo avrebbero fatto solo se ogni opera fosse stata accompagnata dal timbro che assicurasse che gli Archives fossero garanti dell’autenticità. Dario e Vera Durbè non sono d’accordo, non riconoscono agli Archives l’esclusiva dell’autentica delle opere dell’artista. L’esposizione dal titolo Modigliani: gli anni della scultura [10] non riesce a raccogliere opere all’altezza del prestigio che si desidera per l’iniziativa, si presenta scarna - delle 26 sculture riconosciute ufficialmente ne erano arrivate solo quattro - poco visitata e snobbata dalla critica.

Carlo Arturo Quintavalle avanza dubbi sul dipinto Ritratto di Pablo Picasso che definisce “fiacco” - e che Jeanne Modigliani aveva già disapprovato perché non appariva “in nessuna edizione attendibile”– e su una delle sculture: “Testa, datata 1911-12, non persuade fino in fondo e, per giunta, non è certo la stessa (manca la scissura mediana, è assai più fiacca nell’insieme) del pezzo fotografato nell’atelier Cardoso nel 1911 [11].” Mentre la mostra langue, Vera Durbé decide di dar corpo alla vecchia leggenda livornese: “questa storia la sapevo da piccina (il nonno aveva conosciuto Modigliani negli anni ’20) [12]”. Così chiede insistentemente all’Amministrazione comunale di dragare i Fossi per procedere alla ricerca delle quattro sculture gettate dall’artista: una proposta che era già stata sollecitata nel 1954 da Silvano Filippelli, Franco Russoli e dalla stessa figlia di Modigliani, come attesterebbe una lettera inviata a Enzo Carli 13], ma ora sembrava che fosse giunto il momento: il possibile ritrovamento delle sculture avrebbe dato un impulso sostanziale alla conoscenza di un passaggio oscuro della carriera artistica e dell’inizio dell’attività scultorea di Modigliani. Confidando nella risonanza che i media avrebbero potuto dare alla mostra, il Comune di Livorno (allora guidato da una giunta PCI) finanzia le ricerche con quaranta milioni di lire, sperando anche di incentivare il turismo, tanto che l’operazione viene diffusa dalle pagine del settimanale nazionale Gente (20 luglio 1984). E così, davanti ad una piccola folla di curiosi, una benna, allestita per l’occasione su una chiatta – mezzo piuttosto “rozzo” per la ricerca di eventuali opere d’arte - inizia la perlustrazione del Fosso Mediceo. Dopo alcuni giorni, nei quali dalla melma viene tirato su di tutto (biciclette, carrette, pistole…), con i relativi commenti degli astanti fermi a guardare dalle spallette del Fosso, delle sculture non vi è traccia. Mentre già si inizia a vociferare che l’operazione è uno spreco di denaro pubblico, ecco che il 24 luglio, l’ottavo giorno, alle nove di mattina la benna riporta alla luce una prima pietra scolpita con lineamenti rudimentali, seguita da una seconda alle 5 del pomeriggio, mentre una terza viene ripescata il 9 agosto alle ore 9.30 (dopo una breve pausa per ferie le operazioni continuano fino al 5 settembre).

Il rinvenimento della seconda delle tre sculture avviene sotto i riflettori delle troupe televisive e presentato come lo scoop artistico del secolo, considerata la fama dell’artista e la straordinarietà della scoperta. Vera Durbè e suo fratello non hanno dubbi: le opere sono quelle che Amedeo Modigliani aveva gettato nel Fosso nel 1909. La notizia proietta Livorno alla ribalta della cronaca, la città vive per giorni un clima di entusiasmo e viene invasa da turisti e dai media di tutto il mondo. Dall’America, dove l’autorevole settimanale Time titola Historic scoop, al Giappone, curiosi, giornalisti e critici d’arte si affollano al museo di Villa Maria, dove vengono portate le teste, e dove il numero di visitatori cresce incredibilmente. In questa atmosfera, lo scetticismo viene bandito del tutto. E’ la rivincita di Vera Durbè, “anziana malaticcia, poco amata dai concittadini livornesi. Ma anche terribilmente testarda [14].” Senza titoli accademici, “Io non sono né una professoressa né una soprintendente, sono un’impiegata comunale di provincia [15].” con passione e determinazione, è riuscita in un intento sorprendente. Una gioia incontenibile è quella che prova Dario Durbè, ma è la rivincita anche di tutta l’Amministrazione comunale, dall’assessore Frontera all’ingegner Caturegli, funzionario addetto a soprintendere al dragaggio. Il sindaco emette un’ordinanza per evitare che le teste siano trasferite nella “rivale” Pisa. Saranno gli esperti della Soprintendenza a muoversi da Pisa per analizzarle. E gli esperti non mancheranno.

I grandi maestri della critica italiana sono tutti unanimi nel ritenere le sculture autentiche, da Cesare Brandi che, sul Corriere della Sera, scrive “Ho visto quelle teste, sono di Modigliani (…) in quelle due scabre pietre c’è l’annuncio: c’è la presenza”, a Enzo Carli: “Modigliani non ha tradito la materia”, mentre Giulio Carlo Argan, che le vede solo in foto, afferma “Con riserva di un’attenta analisi sui reperti, giudico attendibile la tesi della autenticità delle sculture, anche se non sono dei capolavori” a Carlo Ludovico Ragghianti “sono opere fondamentali per Modigliani e per la scultura moderna”. Scultori come Cascella e Guerrini ritrovano “in esse la mano di un artista che non padroneggia ancora l’appropriato uso degli strumenti”, così Rino Giannini, dell’Accademia di Belle Arti di Carrara, pur parlando di “tracce di scalpelli inusualmente larghi” avalla che “il processo esecutivo appare quello tipico di Modì”. Per quanto riguarda le analisi delle due pietre, Marco Franzini, docente di Mineralogia a Pisa, dichiara che “nulla emerge che sia contrario all’ipotesi che giacciano sul fondo dal 1909”. Per Dario Durbé è la mano di Modì a rivelare “una commovente e indagante incertezza”.

Non tutti però sono allineati, Federico Zeri è titubante, afferma “se sono autentiche, le pietre sono orrende, Modigliani fece bene a disfarsene [16]”, l’editore Mario Spagnol dichiara: “potrebbe trattarsi d’una versione un po’ provinciale di tanti scherzi giocati da artisti [17]” e il critico d‘arte Carlo Pepi, tra i maggiori studiosi del nostro, dichiara da subito la falsità delle sculture [18]. Intanto dagli Archives Légales, dopo il ritrovamento, si pongono prudentemente ritenendo che bisogna analizzare a fondo, fare comparazioni, esami stratigrafici e solo dopo far uscire le foto. Infatti Jeanne Modigliani è molto scettica, sostiene “Mio padre non avrebbe mai buttato via una sua opera”, ma ecco che, mentre si prepara per venire in Italia per vedere dal vivo le teste, una caduta dalle scale le è fatale: viene ricoverata per emorragia cerebrale e muore il 27 luglio all’età di 66 anni. Appena dopo si viene a sapere che ha ricevuto tre telefonate e due lettere, tutte anonime, che l’avvertono che le teste sono false. La strana circostanza della morte accidentale della figlia di Modigliani, per quanto fortuita, in seguito allo svilupparsi degli eventi assume un inquietante alone di mistero, tanto più che non viene disposta nemmeno l’autopsia [19]. Intanto Dario Durbè pubblica a tempo di record il catalogo dal titolo Due Pietre Ritrovate di Amedeo Modigliani [20], corredato dalle foto e dai commenti di illustri esperti, che viene presentato domenica 2 settembre al museo di Villa Maria, sede della mostra e dove vengono esposte le teste.

Ma ecco il colpo di scena: lunedì 3, appena dopo la consacrazione mondiale della scoperta, scoppia la beffa: Panorama pubblica un’intervista rilasciata da tre studenti ventenni di Livorno. Pietro Luridiana, Pierfrancesco Ferrucci e Michele Guarducci asseriscono di essere gli autori della seconda testa e, come prova, mostrano una foto che li ritrae con la scultura. In realtà gli autori sono quattro ma solo tre raccontano la goliardata a Panorama (l’altro preferisce il silenzio e uscirà allo scoperto in un secondo momento). Dichiarano che la loro intenzione è fare uno scherzo: “Visto che non trovavano niente, abbiamo deciso noi di fargli trovare qualcosa!”, con il proposito “di vedere la nostra statua sui giornali, per poi rivelare lo scherzo. Insomma una ragazzata come nel film Amici miei [21].” Affermano che la pietra “l’abbiamo trovata a fianco della strada. Sapevamo che Modigliani usava quelle pietre di selciato per scolpire le sue facce e la pietra che avevamo scelto ci sembrava più o meno uguale”. Come modello utilizzano la foto della scultura a pagina 79 del catalogo Modigliani: gli anni della scultura, servendosi di due martelli, due scalpelli, un cacciavite e un trapano elettrico Black and Decker con spazzola di ferro – l’azienda con mercantile tempismo sfrutterà a fini pubblicitari la vicenda: “E’ facile essere bravi con un Black and Decker”.

Dapprima disegnano la faccia con un carboncino, poi con un cacciavite fanno il primo solco e con gli scalpelli il resto. Il tutto realizzato nei due pomeriggi del 20 e 21 luglio per un totale di 6 ore, foto compresa. La pietra viene gettata nel canale nella notte del 23 luglio. La mattina del 24 luglio Luridiana è sulle spallette del Fosso per “guardare di nascosto l’effetto che fa”, ma dopo il boato di meraviglia della gente in attesa per la pietra ripescata dalla benna si accorge che non è la loro, che viene invece recuperata nel pomeriggio. Entrambe vengono celebrate da Vera Durbé: “La prima è più bella, nobilissimo il naso, la seconda sembra un dipinto...”. Successivamente si ripesca anche la terza pietra. I tre credono che solo la loro testa sia falsa e, sorpresi dalla velocità con cui gli esperti ritengono autentica la scultura, decidono di aspettare per vedere se qualche critico scopra la verità. Invece i giornali danno più spazio alla loro scultura “che giudicavamo uno schifo” che alle altre due. Solo quando capiscono che la burla oramai è fuori controllo e che si rischia davvero di prendere per autentica la testa, decidono di uscire allo scoperto. Inoltre il 2 settembre alla presentazione del catalogo, uno dei studenti al sommo della beffa, si fa autografare la sua copia dalla penna di Dario Durbé. Intanto hanno già telefonano a Panorama per raccontare la storia. La Mondadori presenta loro, per dieci milioni di lire, un contratto in esclusiva nazionale e internazionale, con clausole attentamente studiate: se i ragazzi hanno raccontato cose inesatte Panorama può spedirli tutti in galera. Così il settimanale pubblica la notizia e scoppia la bomba. In un baleno la burla viene rilanciata su tutti i giornali, da La Repubblica, La testa della discordia a Il Giornale dell’Arte che titola Modigliani: la burla rovina la festa… Doccia fredda sugli entusiasmi della scoperta.

Nello sbigottimento generale, i ragazzi però non vengono creduti, non hanno il negativo. Vera Durbè definisce tutto uno scherzo, accusa di fotomontaggio la foto e definisce gli autori della beffa dei mitomani. Allora esce allo scoperto anche il quarto ragazzo, Michele Genovese che presenta altre foto, con i relativi negativi e anche alcune schegge della pietra, e poi spunta anche un supertestimone, Franco Rigni, che per il caldo quella notte era alla finestra e aveva visto la pietra buttata nel fosso e ha denunciato subito il fatto il 24 luglio (all’ingegnere capo del cantiere e alla Durbè) assai prima che i ragazzi raccontassero la loro storia, ma senza essere preso in considerazione. Dario Durbè minaccia di denunciare i ragazzi per diffamazione, accusa un’oscura macchinazione ai suoi danni: si è voluto screditare lui come storico dell’arte e la categoria a livello internazionale. Altri insinuano che sia stato tutto architettato per danneggiare il monocolore PCI della Giunta comunale, dai banchi dell’opposizione missini e socialisti attaccano la Giunta (il missino Altero Matteoli chiede le dimissioni del sindaco), ma ad essere bastonata è tutta Livorno che passa dall’entusiasmo alla costernazione.

Dopo la rivelazione il fronte dei critici si incrina. Argan afferma: “questa storia è una buffonata”, Brandi si chiude in un amareggiato silenzio, Carli ammette: “Se fossero falsi sarebbe una débâcle della critica ufficiale”, mentre è un’occasione per giovani critici rampanti come Achille Bonito Oliva che rimprovera tutti di superbia “Si ritengono depositari della storia: pensano che tutto quello che dicono sia il verbo inconfutabile [22]”. Duro anche il giudizio di Federico Zeri: “Argan e Brandi non sono dei 'conoscitori' bensì dei teorici, o anche dei chiacchieroni. Sono quelli che hanno fatto comprare allo Stato la Madonna della Palma spacciata per Raffaello e aiuti mentre si trattava di una vistosa crosta [23]”. “Ha giocato molto il fatto emotivo della leggenda che diventa realtà” spiega Giuliano Briganti “i due fratelli Durbè avevano la convinzione religiosa di ritrovare quelle opere. E’ stato questo slancio iniziale a farli cadere [24]” e Giovanni Accame osserva legittimamente che ”in realtà la valorizzazione spropositata di abbozzi disconosciuti perfino dall’artista è un segnale: riflette a livello di critica quello che succede nel mercato, dove si montano a sproposito anche gli schizzi più infimi di un artista [25]”.

Nel pomeriggio del 7 settembre l’ufficiale giudiziario pone i sigilli alla scultura Modì 2 che due giorni più tardi viene trasferita nel caveau della Banca d’Italia. La mostra livornese, tra accuse e polemiche, si chiude con 50.000 presenze e con la Durbè ricoverata per un malore: ma decisa a non mollare e, sicura che i ragazzi mentono, li sfida a rifarla in "così poco tempo", come essi avevano dichiarato. Così il 10 settembre Ferrucci, Luridiana e Ghelarducci sono invitati in prima serata su Raiuno, durante uno speciale TG1, e davanti ad oltre dieci milioni di telespettatori realizzano in diretta una replica di Modì 2. Ma l’evidenza non basta ancora a scalfire la resistenza ad oltranza dei sostenitori dell’originalità delle opere - Vera Durbè, almeno in apparenza, ne sarà convinta fino alla morte - poiché a suffragio della loro tesi ci sono le altre due teste ritrovate, che i tre ragazzi, per loro stessa ammissione, non hanno scolpito e che, fino a prova contraria, sono autentiche.

Sollecitato dall'appello rivolto in televisione da Federico Zeri, un nuovo colpo di scena si abbatte sull’intera vicenda: il 13 settembre esce allo scoperto l’autore di Modì 1 e 3. Si tratta di Angelo Froglia, ventinovenne artista livornese, che dichiara di essere stato mosso non dalla volontà di intentare una burla ma da una più articolata “operazione estetico-artistica". Afferma di aver gettato le teste il 14 luglio, giorno della presa della Bastiglia, e a riprova di quanto afferma mostra un filmato nel quale scolpiva le pietre. “Non mi interessava fare una burla – dichiara ai giornalisti – lo scherzo dei tre studenti è stata una variabile impazzita che mi ha intralciato non poco. Il mio intento era quello di evidenziare come attraverso un processo di persuasione collettiva, attraverso la Rai, i giornali, le chiacchiere tra persone, si potevano condizionare le convinzioni della gente. Inoltre io sono un artista, mi muovo nei canali dell’arte, volevo suscitare un dibattito sui modi dell’arte e questo mi è riuscito in pieno [26]”.

Le motivazioni di Froglia sono indubbiamente programmatiche ed ideologiche, sebbene gli effetti appaiano gli stessi, l’azione concettuale si perde nel contesto generale, intrecciata al ridicolo della burla e alla preponderante visibilità mediatica ottenuta dai ragazzi. Ne esce rafforzato l’aspetto canzonatorio e disinvolto, anziché la consapevolezza di una reale performance “artistica” pienamente riuscita, ovvero di un’opera “estetico-artistica” come rivendicato da Froglia, gesto “troppo” intellettualizzato per il grande pubblico ma del tutto inserito nelle dinamiche processuali dell’arte contemporanea, coerente con la ricerca e l’inquieta personalità di Froglia. Angelo Froglia (Livorno 1955-1997) dopo il diploma artistico frequenta l'Accademia di Belle Arti di Firenze. Nel 1974 partecipa alla Quadriennale di Roma ma nel ‘77 entra nella lotta armata, militante nell’estrema sinistra con Azione Rivoluzionaria, finendo in carcere fino al 1981. Abbandona la lotta politica e alterna l’attività artistica a quella di lavoratore portuale. Dopo l’episodio della burla, riprende a fare pittura allestendo numerose mostre, muore precocemente logorato dalla droga l'11 gennaio 1997. A corredo del sua performance, per l'occasione realizza anche un film dal titolo Peitho e Apate... della persuasione e dell'inganno (Cerchez Modi), che presenta pochi mesi dopo al Torino Film Festival, suscitando l'interesse della critica [27].

Davanti a questa ennesima rivelazione viene scosso l’intero sistema della gestione dei beni culturali. A pagare sono soprattutto i fratelli Durbè: nell’ottobre dello stesso anno avviene la “destituzione”, ufficialmente senza relazione con la vicenda, del soprintendente dalla Galleria nazionale d’arte moderna, che passa ad altro incarico ministeriale [28] e che si appella al TAR e al Consiglio di Stato ottenendo poi il reintegro. Nel febbraio del 1985 invece la Giunta comunale dispone il trasferimento cautelativo di Vera Durbè, da conservatrice dei musei civici di Livorno ad altro ruolo, in seguito ad avviso di reato da parte dalla Procura della Repubblica, spedito anche a Dario Durbè e al fotografo Angelo Titonel. Nel 1991 il tribunale riconosce agli imputati di aver agito in buona fede. Intanto sul mercato dell’arte l’affaire Modigliani ha l’effetto di accrescere la fama e rialzare le quotazioni: il 3 dicembre del 1984 il piccolo dipinto raffigurante Jeanne Hébuterne (olio su tela 45,7 x 29,2 cm) del 1917-18, già in collezione Gualino, viene battuto a Londra, da Christie’s, per un miliardo e 614 milioni di lire.

La storia però non ancora è finita. Nel 1991, sette anni dopo, inizia il secondo atto: saltano fuori altre tre teste. A ritrovarle è lo stilista livornese Giuseppe Saracino che individua le tre sculture in arenaria nell’autofficina di Piero Carboni che racconta di averle recuperate nel 1943, fra le macerie della casa dello zio Roberto Simoncini, nella Livorno bombardata del dopoguerra, riconoscendole in quelle che usavano come pali, quando da bambini giocavano a pallone del giardino dei suoi parenti. Le aveva custodite, senza darvi eccessiva importanza, su un soppalco della propria officina, dove alcuni testimoni giurano di averle viste fin dagli anni ‘50. Ricorda inoltre che da bambino si raccontava che un artista, che non poteva portarsele dietro partendo da Livorno, avesse lasciato cinque teste a un Simoncini, detto Solicchio, al quale aveva chiesto di sgomberargli il locale. Questa volta la storia, per quanto incredibile, sembra corrispondere alla realtà, infatti Modigliani nell’estate del 1909 aveva affittato due stanze in via Gherardi Del Testa, vicino alla casa di “Solicchio", la cui foto ha una notevole somiglianza con il ritratto Il mendicante di Livorno, dipinto dall’artista nel 1909 [29]. Inoltre con le sculture, sulle quali erano presenti simboli della cabala che richiamano la cultura ebraica dell’artista, Carboni conserva un baule con alcuni libri, che una perizia stabilisce appartenuti a Modigliani e anche alcuni disegni che sembrano proprio raffigurare le teste [30].

A suo dire, Carboni, dopo qualche contatto, non si era più riproposto: si era reso conto che nessuno gli avrebbe creduto, prima della beffa avrebbe offuscato la leggenda del Fosso Mediceo e dopo perché nessuno si sarebbe più pronunciato. Saracino invece lo convince a far dichiarare autentiche le tre opere, così stipulano un accordo in base al quale il ricavato dell’eventuale vendita sarebbe stato diviso a metà e Saracino ha l’esclusiva della gestione. Memori però della burla di qualche anno prima, nessun esperto è disposto a dichiararsi apertamente sebbene in molti sono convinti che siano originali. Il solo Carlo Pepi si esprime sulla loro autenticità e le battezza La bellezza, La saggezza e La scheggiata. Le opere vengono sottoposte alla Soprintendenza per il permesso di esportazione all’estero (Hannover), il che obbliga la stessa a fornire un parere ufficiale sull’autenticità. La Soprintendenza di Pisa demanda la risposta alla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma che passati i 60 giorni d’ufficio non riesce a pronunciarsi. Nel 1993 Saracino e Pepi, ritenendo che la vicenda della burla avesse invalidato la possibilità di attestare l’autenticità di queste nuove teste, querelano gli organi competenti, sostenendo che non si era trattata di superficialità ma di un atto doloso, qualcuno doveva sapere, e accusano di truffa anche Vera Durbè. I carabinieri allora riaprono le indagini e interrogano Froglia che questa volta rivela di aver compiuto “l’impresa” insieme a due impiegati comunali, Elisabetta De Paz e Massimo Seghetti, che negano. Le sue rivelazioni si fanno sempre più confuse, alludono a un’ingarbugliata macchinazione all’interno del Comune di Livorno, ma i reati ipotizzati sono ormai prescritti e tutto termina con l’archiviazione [31].

Nella mostra che si apre lo stesso anno in Palazzo Grassi a Venezia vengono esposti due disegni inediti somiglianti alle teste ma dalla Galleria nazionale d’arte moderna la perizia, finalmente pronta, stabilisce che le teste non possono essere attribuite a Modigliani: Saracino, Carboni e Pepi vengono allora indagati per circolazione e contraffazione di opere d’arte. Le sculture sono sequestrate in quanto corpo del reato ma, nuovo colpo di scena, ne sono solo due perché La Bellezza sparisce nel nulla. Il processo si apre nel 1994 mettendo in discussione la correttezza della perizia della Galleria nazionale perché basata su di una scultura che la maggior parte della critica ritiene falsa. Termina nel 2002 con l’assoluzione piena di Pepi e Saracino, intanto Carboni era deceduto nel 1998. La sentenza del tribunale afferma che la perizia della Soprintendenza è stata imprecisa e che i tre imputati hanno agito in buona fede. Inoltre, non essendo il tribunale competente per l’autentica, non ci sono elementi per stabilire se siano originali, così le sculture rimangono senza una valido expertise perché nessun vuole cacciarsi in questa intricata e scottante vicenda.

Dissequestrate le teste, che per 12 anni sono state conservate presso la Soprintendenza di Pisa, nel 2007 gli eredi di Carboni, dei Simoncini e di Saracino, dopo ulteriore disputa legale, si dividono le altre due. Nel 2009 risalta fuori anche la terza (che Saracino aveva “conservato”) e tutte vengono custodite nel caveau di una banca.

Continua il 4 Aprile...

Note:
[1] Tra queste nel 1999 a Lugano, nel 2004 nella manifestazione livornese Effetto Venezia e al Centro culturale Michon di Livorno nel 2010, dove è stata esposta per poche ore solo Modì 1, in occasione della presentazione del libro Alla ricerca di Modì. Angelo Froglia e la performance che mise in crisi la critica di Alice Barontini.
[2] Questo saggio, lievemente rivisto, è stato pubblicato con il titolo Oltre il falso: Modì e la burla di Livorno nel volume Contraffazione dell’Arte/Arte della Contraffazione, a cura di P. Refice, Firenze, Edifir, 2014. La conferenza, dal titolo Modì e la “Burla di Livorno”, alla quale è seguito la proiezione del film documentario di Giovanni Donfrancesco Le vere false teste di Modigliani , ha avuto luogo il 27 ottobre 2012, Sala audiovisivi del Comune di Anghiari.
[3] Moranti G., La beffa di Modigliani. Tra falsari veri e falsi, Polistampa, Firenze 2004; Barontini A., Alla ricerca di Modi - Angelo Froglia e la performance che mise in crisi la critica. Polistampa, Firenze 2010; Arrigo Melani - Angelo Froglia, genio e sregolatezza, Livorno Non Stop N. 554 anno 24 Novembre 2009; Mangiapane F., Teste e testimonianze: I falsi Modigliani in Falso e falsi. Prospettive teoriche e proposte di analisi, a cura di Luisa Scalabroni, edizioni ETS, Pisa 2010, pp. 79-90; Simi G., L'ombra di Modì. Quella beffa che fece tremare il mondo dell'arte, Il Tirreno, 17.8.2009; Barontini A., Angelo Froglia, l'artista che sbugiardò la critica, Il Tirreno 20.08.2009; Barontini A., Vittorio Sgarbi vuole le "false teste di Modi", Il Tirreno 22.08.2009. Cerrai D., Grigio Modì. Storia di tre teste ritrovate, Round Robin, Roma 2014. Inoltre sul web sono ancora disponibili video filmati di alcuni dei protagonisti della storia: http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/puntate/il-mistero-di-modi/631/default.aspx e il sito http://testedimodigliani.xoom.it/odio_amore.html
[4] Cfr. il bestseller di Augias C., Modigliani. L’ultimo romantico, Mondadori, Milano 1999.
[5] Modigliani J., Modigliani senza leggenda, Vallecchi, Firenze, 1958.
[6] La figlia per difenderne e garantirne il mercato e la fortuna critica che istituisce gli Archives Legales Modigliani.
[7] Giovanni Urbani è citato in Augias C., Parola di falsario, Panorama, 24.9.1984, p. 60.
[8] Citato in Boralevi A., Caduti nel fosso, Panorama 17.9.1984, p. 44.
[9] Intervista con Dario Durbè. Modigliani disse a Brancusi:”Le ho gettate nel fosso”. Meno una…, in Il Giornale dell’Arte, n. 15, settembre 1984, p. 6. La biografia in questione è The saint of Monparnasse, pubblicato postumo nel 1965.
[10] Cfr. Modigliani gli anni della scultura, a cura di Durbè D., Durbè V. e Vivarelli P., catalogo della mostra, Villa Maria, 1 luglio - 9 settembre 1984, Milano, Mondadori 1984.
[11] Quintavalle C.A., Le radici primitive dell’assoluto, Panorama, 10.9.1984, p. 19.
[12] Mannucci E., La signora di pietra, Panorama, 20.8.1984, p. 104.
[13] Intervista con Dario Durbè. Modigliani disse a Brancusi, cit., p. 6. In realtà i Fossi erano regolarmente dragati fino al 1966 ma non era mai emerso nulla.
[14] Mannucci E., La signora di pietra, cit. p.104. Vera Durbè, figura popolare a Livorno, era stata partigiana, l'anno prima le era stata amputata una gamba in seguito a un incidente.
[15] idem
[16] Citato in Boralevi A., Caduti…, cit. p. 44.
[17] Cfr. Fasanotti P.M., La beffa di Livorno, Panorama , 10.9.1984, p. 59.
[18] Pepi, proveniente da studi di economica ma “appassionato” d’arte, collezionista di Fattori, era stato direttore del Centro Studi alla casa natale di Modigliani, tra i collaboratori degli Archives Legales dai quali uscì non approvando le modalità “leggere” delle autentiche e fu il primo, appena le teste riemersero dall’acqua a dichiarare che erano “porcherie”.
[19] La polizia francese aprì le indagini per omicidio, così credeva anche Carlo Pepi “L’hanno ammazzata per la sua lotta ai falsari”. Poi il caso viene frettolosamente archiviato come decesso per caduta accidentale.
[20] Due pietre ritrovate di Amedeo Modigliani, a cura di Durbè Dario, fotografie di Angelo Titonel, 1984, tip. Vimeer srl. Il catalogo sul mercato antiquario ha raggiunto prezzi esorbitanti.
[21] Ibidem
[22] Citato in Boralevi A., cit. p. 43.
[23] In C. Augias, cit. p. 60.
[ 24] Ivi
[25] Idibem p. 44.
[26] Cfr. Laruffa A., Il ritrovamento delle teste di Modigliani, La beffa di tre ragazzi muniti di Black & Decker, In Storia rivista telematica di storia e informazione, ottobre 2006 (www.instoria.it/home/teste_modigliani.htm).
[27] Nel 2010, in occasione del suo compleanno, il 23 marzo gli viene dedicata la mostra dal titolo Angelo ritrovato. Angelo Froglia. La vera storia del suo gesto al Centro culturale Michon di Livorno, dove oltre alle opere dell’artista viene esposta per poche ore Modì 1, e si presenta il libro Alla ricerca di Modì. Angelo Froglia e la performance che mise in crisi la critica di Alice Barontini. Cfr. www.artimes.it e www.youtube.com/watch?v=eQnHTbWf6jU
[28] Cfr. Parti D., Destituito Dario Durbè lo sponsor dei falso Modì, La Repubblica 30.10.1984. Una "scelta sensata", è definita la destituzione del soprintendente da Angelo Froglia.
[29] Nessuna certezza vi è che Modigliani abbia gettate le teste nel Fosso nel 1909, notizia data dai Durbè forse in base al libro di Pieter Neagoe, è invece possibile che siano anche ascrivibili al secondo e ultimo soggiorno del 1912.
[30] Cfr. Teste di Modigliani: Le sculture mai autenticate, in ProvocatoraMente, 30.5.2008 (http://unoprovocatorio.blogspot.it/2008/05/il-mistero-delle-teste-di-amedeo_30.html)
[31] Secondo la testimonianza di Froglia ad aiutarlo a gettare le teste sono Massimo Seghetti e Lido Bellandi, pescatore. Cfr. http://www.adnkronos.com/Archivio/AdnAgenzia/1993/04/26/Cronaca/FALSI-MODI-LA-STORIA-3_192600.php