Corpo: anima afferrabile. Corpo che sente. Che tocca. Che dona. Corpo che soffre, che gode, che è vita. Il corpo. Perfettissimo involucro del sentire. Contenitore persino del vuoto. Vero e proprio strumento del fare artistico a partire dalla fine degli anni Cinquanta del Novecento. Corpo sfidato, denudato, maltrattato. Punito e idolatrato. Corpo sperimentato. Provato. Vestito e spogliato. Corpo sfrontato. Corpo metaforico. Espressivo e simbolico. Corpo-verità.

Il corpo, sempre al centro di riflessioni estetiche, artistiche, psicanalitiche e perfino politiche. Indagato e interpretato al punto da renderlo qualunque cosa. Il corpo non è che un idioma. Dice oltre la voce. Svela oltre il racconto. È un linguaggio.

Tra il corpo pulsionale di Freud e quello sintomatico di Lacan vi è un ventaglio di sperimentazioni che, passando dalla body art all’happening e dalla performance alla fotografia, nascono proprio dall’esigenza di comprendere il misterioso rapporto esistente tra carne ed essenza, tra il mio sentire e la mia pelle. E Lacan utilizza il termine "pelle" per indicare proprio una sorta di sacco che avviluppa e contiene. Non a caso, indagando la teoria lacaniana, scopriamo un corpo che non è mai nostro. Un corpo contenitore di incorporazioni da parte dell’Altro. Un corpo- luogo dell'Altro, prodotto da significanti, ovvero da contenuti che l’Altro ha messo in noi. E per Altro lacaniano si intende l’altro materno, l’altro della relazione, l’altro dell’amore, l’altro del dolore e dell’abbandono. Nella storia delle arti contemporanee l’uso del corpo – talvolta l’abuso – ha mosso i suoi passi partendo proprio da riflessioni di impronta psicanalitica. Nel saggio Body Art e storie simili, Lea Vergine sostiene che “la psicanalisi e le sue scoperte agiscono sull’arte e sull’artista come una forza sociale”. Da Vito Acconci, a Marina Abramovic, da Gina Pane agli Attivisti Viennesi, da Ana Mendieta a Orlan, il corpo si è fatto dispositivo dell’arte e linguaggio dell’artista. Ma cosa accade quando il corpo diventa una gabbia? O quando del corpo non resta che la carne?

La ricerca di Jana Sterbak ce ne fornisce una risposta. Jana è nata a Praga nel 1955. Cresciuta in un sistema educativo palesemente marxista e leninista, si è poi trasferita a Montreal, in Canada. La sua indagine sul corpo e sui limiti dell’umano si è avvalsa di diverse forme d’arte: Performing Art, installazione, Video Art e fotografia. Il tema del corpo inteso come gabbia, cella, prigione, limite dell’umano è stato una costante della sua ricerca. Jana si è concentrata in particolar modo sull’analisi di un corpo mutabile, abusabile, apribile e svuotabile. Un corpo alla continua ricerca di un equilibrio imperseguibile o di una libertà di movimento inarrivabile. Con le sue installazioni, ha affrontato il tema del corpo superato nella sua fisicità da un certo progresso tecnologico. I suoi primi lavori nascono alla fine degli anni Settanta, ma le sue opere più note appartengono agli anni Ottanta. Nel 1986, ad esempio, la Sterbak mette in scena una performance titolata Artist as Combustible in cui priva il proprio corpo di qualcosa, qualcosa che toglie a se stessa per offrire energia al mondo. Di cosa si priva? Dei propri capelli. Li cosparge di polvere da sparo, e gli dà fuoco. L’immediato processo di combustione vuole essere in questo caso metafora dell’energia artistica, del fuoco della creatività che dal corpo viene emanata e va verso l’altro. Ma questo è un atto quasi sciamanico, che irrompe nel suo indirizzo di ricerca. L’infanzia in terra ceca ha ben forgiato la sua mentalità e determinato le sue scelte anche in ambito artistico. Scelte dall’impronta sempre squisitamente anti-capitalista, che pongono al centro il corpo come oggetto e la sua naturalezza stravolta dall’arteficio tecnologico. Un corpo postumano.

Le installazioni della Sterbak sono vere e proprie sculture, realizzate con materiali metallici o con carne animale. Carne cruda, viscosa e puzzolente. Ma vera carne, in luogo di una inutile abitudine all’arteficio. È questo il caso della sua opera più celebre, Vanitas: Flesh Dress for an Albino anorexic, un vero e proprio vestito di carne disidratata, attualmente parte della collezione del Centre Pompidou di Parigi. Carne bovina e muscoli, cuciti su uno scheletro di fil di ferro. Un’opera dal potente impatto visivo e olfattivo, che alla sua prima presentazione ha suscitato sgomento e ribrezzo. E in effetti, l’immediata sensazione che si ha al cospetto di quest’abito è pressoché nauseabonda. Successivamente, però, si è come pervasi da una consapevolezza: siamo in quello che l’Altro ci ha tolto. Incorporandoci di sè, l’Altro ci ha svuotati. Ci ha esposti in “carne viva”. Ci ha grattato via la pelle per mostrare ciò che siamo, e per renderci vulnerabili. Senza più usberghi, né difese. Io sono quel che resta. Io sono la mia carne.

Di simile impatto è Chair Apollinaire, la famosa poltrona rivestita in carne cruda, realizzata quasi dieci anni dopo, precisamente nel 1996. Come in Vanitas, anche in questa scultura la struttura portante è in fil di ferro, e anch’essa si fa emblema di una nudità estrema e parimenti di uno svuotamento ingabbiante. La carne, dimentica del corpo. La carne che si cuce sul vuoto. La carne e niente altro. Precedenti a questa, sono invece alcune sculture evocanti brandelli di corpi o corpi mutilati e smembrati, realizzate in metallo, bronzo e altri materiali. È il caso di Spine Spire, una colonna vertebrale realizzata in bronzo nel 1983. Negli anni Novanta il corpo a cui la Sterbak dedica le sue attenzioni è un corpo intrappolato in paradigmi postorganici; un corpo vittima della nuova tecnologia e della nuova chirurgia estetica. È il caso di Proto-Condition: Cage of sound vera e propria gabbia che immobilizza la persona impedendole di assumere posture comode o di compiere movimenti naturali. E sempre a questa fase della sua ricerca risalgono alcune performance. Penso, nello specifico, a quella presentata alla Biennale di Venezia nel 1989, dal titolo Remote Control I in cui una performer vestita di bianco resta sospesa all’interno di una protesi ingabbiante, dalla vita. Alla base della gabbia vi sono delle ruote azionate a distanza da un telecomando, che non le consentono di trovare contatto col terreno, né di determinare autonomamente la direzione da prendere.

Due anni dopo è la volta di Sisyhpe, performance durante la quale la Sterbak fa rinchiudere un performer all’interno di un’altra gabbia, più spaziosa, ma dotata di base semisferica, che dunque non consente all’uomo di mantenere un equilibrio costante né di prendere una direzione all’interno dello spazio chiuso. In tutto ciò vi è una chiara allusione all’impossibilità di essere realmente liberi all’interno del nostro sistema sociale, che l’artista considera manipolante. Sempre 1989 Jana ritrae fotograficamente la nuca di un uomo che riporta sulla pelle un codice a barre tatuato, insistendo, in questo caso, sul concetto di omologazione e massificazione dell’identità fisica, e più nel profondo, dell’identità umana. L’opera porta infatti il nome di Generic man.

Nel 2001 la scelta si sposta su un materiale diverso, molto più naturale e al contempo immediatamente degradabile: il ghiaccio. Non più carne, né ferro, né bronzo, ma acqua allo stato solido, seppur di solidità transitoria si tratta. Dissolution-Auditorium è un cerchio irregolare composto da sedie scolpite nel ghiaccio, di cui soltanto le gambe sono in metallo. La temperatura fa sì che queste si sciolgano in un tempo breve. E alla fine la sola cosa che resta è una serie di gambe sparpagliate sul pavimento. Un ribaltamento dei punti di vista, sull’uomo e sul mondo, viene invece operato in occasione della Biennale di Venezia, nel 2003, quando la Sterbak presenta un video dal titolo From Here to There , interamente realizzato da un filmmaker d’eccezione: un jack russel terrier. Il cane, con videocamera legata al collo, viene sguinzagliato per le strade di Montreal – luogo di attuale residenza dell’artista – e per le calli di Venezia. Il mondo visto dal collare di un cane è un mondo dall’orizzonte basso, atipico, imprevedibile. Il punto di vista a 35 cm da terra stravolge tutti i dogmi percettivi stereotipati di cui siamo ingombri. E in tal modo, ci disorienta.

Sia che si tratti di performance che di scultura-installazione o video, la condizione umana della quale Jana ci mette al corrente è una condizione imprigionata e priva di equilibri. E la carne – emblema dell’umano sensibile –, non è altro che ritratto di questa nostra costante esposizione all’oltraggio, alla ferita, allo svuotamento, alla manipolazione.