Con la mostra Arnulf Rainer. La croce e la notte, sono presenti alcune opere di soggetto sacro dell’artista austriaco, in modo particolare una serie di croci dipinte su tavola, acquerelli e gessetti ad olio su incisione, oltre che una serie di maschere mortuarie degli anni ’80 e alcuni volti di Cristo. È dunque un’esposizione che intende fare emergere una profonda dimensione religiosa, rivelando l’interesse dell’artista per la mistica, la storia dell’arte, la teologia.

Sin dagli anni ‘50, nella sua pluridecennale attività, Arnul Rainer si è misurato con il tema del sacro. La sua produzione artistica, incentrata sulla ricerca del senso originario del gesto dell’uomo, colto nella sua condizione di precarietà e di transitorietà, è una riflessione sul rapporto tra il segno umano e l’invisibile. In questa ricerca, il tema della Croce è centrale ed emerge costantemente non solo nelle sue numerose Croci, ma in molte altre sue opere, dalle sovrapitture alle fotografie, in cui si ritrae in espressioni di dolore e in smorfie. È questo un tema che, come afferma lo stesso artista, trova la sua continuazione nella serie dei Totenmasken (maschere mortuarie), di cui alcuni esempi sono esposti in questa occasione.

Con un linguaggio di matrice espressionista, tipico dell’Azionismo viennese, in cui colore, segno e gesto sono dominati dalle interrogazioni della coscienza e dagli impulsi del corpo, a partire dagli anni ’80, Rainer pone al centro della sua attività pittorica questo simbolo ancestrale, che fa riferimento al sacrificio e alla morte di Cristo, declinandolo in innumerevoli variazioni. Tutta la composizione, che segue la sagoma del telaio della croce, è animata da una forte tensione drammatica, messa in scena da una dialettica tra caduta del colore verso il basso, e dal senso di elevazione di un colore che invece si fa luce. Sono queste testimonianze dell’autore di fronte al mistero di Cristo, alla riflessione sulla morte. Sono meditazioni sull’«oltre», sulla «soglia», interpretate ora in maniera silenziosa, altre volte in modo più urlato, gridato, violento, come se l’opera fosse animata da una forza interna insopprimibile che non può essere trattenuta, imprigionata in una forma, da una presenza che chiede di essere riconosciuta.

Fondamentali sono le sue opere sul volto di Cristo, su Crocifissi antichi... Sono queste immagini profondamente drammatiche, vissute, sofferte. L’artista parte dalla riproduzione di un’icona o di un’opera d’arte medioevale, per poi intervenire in modo aggressivo sull’immagine con un segno nervoso e rapido, in una continua dialettica tra annullamento e presenza, tra cancellazione e creazione, giustapponendo sempre qualcosa di nuovo su di un’immagine antica. L’immagine si presenta in questo modo in un continuo mostrarsi e annullarsi, rivelarsi e celarsi, evocando una dimensione di mistero, di interrogazione profonda che resiste a ogni tentativo di appropriazione dello sguardo.

Nelle Croci si serve di una tavola sagomata. Come in Croce (1988/1989), presente in mostra, la cui forma è una Tau. Nella parte orizzontale, da sinistra scende verso destra una nera massa pittorica che costituisce il fulcro visivo della composizione. L’occhio è infatti attratto verso questo centro, che si presenta come un enigma. Nel suo precipitare verso il basso, questo grumo di colore nero sembra liquefarsi verso il braccio verticale, suggerendo un forte senso di dolore, di dramma, come se evocasse il gocciolare stesso del sangue di Cristo sulla Croce. Nel braccio orizzontale sono presenti macchie gialle che contrastano con macchie di colore più azzurro. A tracce antropomorfiche si contrappongono macchie astratte, segni di presenze fisiche. Come in molte altre Croci dipinte da Rainer, il colore è depositato con violenza sulla tela, è applicato impetuosamente con le mani o con le dita, per essere poi spalmato in diverse direzioni, in modo febbrile, frenetico… Siamo ben lontani dalla figurazione del Christus Patiens a cui la tradizione Nord Europea ci aveva abituati. La forma «de-formata» del corpo di Cristo, a causa delle ferite che lacerano e sconvolgono la «bella forma» mutuata dagli dei greci e romani, è qui annullata, soppressa. Tuttavia, nelle opere di Rainer, è come se fosse ancora presente il loro spirito, la loro straordinaria energia vitale, l’intensità di un dramma che sta per accadere, ma che preannuncia una rivolta, un riscatto, una speranza di risurrezione. Il desiderio mai soffocato di uscire dall’oscurità della notte…

In questa tensione derivata dall’impeto di un gesto fluido e rapido, Rainer riesce probabilmente a fare coincidere il gesto umano con quello religioso. Nelle opere, è come se la superficie diventasse infatti un campo di battaglia, lo spazio di una lotta incessante tra forze, tra energie contrastanti. Nell’espressività della sua «azione», è come se fosse possibile l’incontro tra visibile e invisibile, uomo e Dio, spirito e materia. Da questa lotta, è come se emergesse un grido, una supplica, un’implorazione. La dimensione «religiosa» si rivela dunque non solo per il soggetto trattato, mutuato spesso da una riflessione sui simboli cristiani, ma per il modo con il quale Rainer dipinge, per la sua forza e la sua carica espressive. Di fatto, anche se le opere dell’artista non sono state pensate per spazi liturgici, come afferma lo stesso autore, rivelano una ricerca profonda che si dischiude sul mistero dell’esistere umano.

Alle opere di Arnulf Rainer è accostato un Crocifisso del XVI secolo. È una scultura mutila in noce, proveniente probabilmente da Aquileia, che ha subito pesanti interventi e mutilazioni, provocando la scomparsa completa della originaria policromia e dello strato preparatorio, la perdita delle braccia e delle gambe dal ginocchio in giù, oltre a numerose lacune, dovute anche a un devastante attacco di animali xilofagi. Se da un lato la scultura si presenta in modo elegante e minuto, dall’altro lato il contrasto con le ferite subite è profondo, intenso. È come se la scultura si presentasse dopo secoli di aggressioni, di violenze subite. Non è più la scultura che avremmo potuto contemplare secoli fa, nello splendore della sua bellezza formale. Si rivela come sfigurata. Parla di dramma, di sofferenza, dopo avere accolto per secoli le azioni del tempo. È lo stesso dolore dell’uomo, che si apre a una nuova vita? È un’immagine, tra cancellazione e nuova creazione. Tra annullamento e un «oltre» che affiora, emerge... - Andrea Dall’Asta SJ, direttore Galleria San Fedele