La mostra L’altrove qui di Luigi Erba, a cura di Barbara Cattaneo e Roberto Mutti è allestita fino al 6 gennaio al Palazzo delle Paure di Lecco. L’esposizione dedicata all’autore lecchese (Lecco 1949), presenta un percorso non cronologico ma interno all’esposizione in tempi che si intrecciano: dalle prime immagini stampate dallo stesso (1968), sino alle esperienze in cui si fondono la ripresa in analogico e la stampa in digitale realizzata principalmente dallo stampatore Roberto Bernè con cui ha vinto nel 2013 il premio BNL Paribas al MIA di Milano. Realizzata con il contributo di API (Associazione Piccole Industrie), con cui sono già state prodotte due mostre (Archeologia di un paesaggio con il pittore Tino Stefanoni, nel 2007, e Paesaggio ex Paesaggio, nel 2013).

L'altrove qui sta a significare un percorso realizzato con immagini riferite al territorio lecchese, occasione di approfondimento verso risonanze interiori, aspetti linguistici e sociologici che vanno oltre l’oggetto rappresentato. La mostra si sviluppa più che altro per aree tematiche, richiami, analogie riferite all’ambiente letto in modo individuale, ma superando la sua connotazione. Il qui diventa altrove perché universale sono la memoria, lo spazio tempo. E’ dedicata sostanzialmente alla città e alla montagna, quest’ultima lontana da rappresentazioni edonistiche e si conclude con le immagini delle fabbriche lecchesi dove il paesaggio si fonde con ricordo, sogno, in una dimensione plurisensoriale.

Ci può spiegare il criterio della mostra?

Luigi Erba: La mostra non ha uno svolgimento cronologico ma è impostata in ambienti e tematizzazioni: Sala dei cieli, Sala dell’industria, della città, della natura, del naturale artificiale e della fotografia stessa.

E come ha pensato di sviluppare le tematiche esposte?

Le tematiche sono diverse anche linguisticamente: abbandono della montagna (serie Via Rovina), quindi paesaggi incontaminati della stessa (prevalentemente della Val Tartano) quasi lontani dal tempo (anni Settanta). La città, più specificatamente l’area periferica dei rioni di Belledo, Germanedo, Caleotto dove nascono accanto a nuove costruzioni i primi approfondimenti linguistici sul tempo e lo spazio e il superamento dell’immagine unica (Fisionomie libere, Sequenze temporali). La città è l’occasione per iniziare nel 1987 a lavorare metalinguisticamente sulla pellicola, la sua sequenza e casualità anche in rapporto con il cinema (Interfotogrammi) e quindi dai primi anni Novanta attorno alla serie Un luogo sull’altro in cui si sovrappongono diverse visioni riprese in luoghi diversi (nello specifico della mostra, i cieli e paesaggi alpini). E’ questo il tempo in cui nasce un profondo sodalizio per le stampe in analogico con lo Studio De Stefanis di Milano che è tuttora attivo.

La sua indagine profonda sul territorio continua nel tempo e nello spazio con la sperimentazione di diversi aspetti del paesaggio?

La mostra presenta anche l’altra faccia della montagna, quando con l’Associazione Amici di Morterone e il poeta Carlo Invernizzi prendo in esame la dimensione del passato che si esprime attraverso le varie immagini di baite e di luoghi nella natura, con i segni del contemporaneo che spesso vengono dalle nostre radici (lavoro su Frasnida, le fonti e i ponti di Morterone). E in questa fase si sviluppa un’immagine che si stacca dall’epopea del passato in una diversa etnografia, dove segno e memoria sono un tutt’uno (Costruzione di un paesaggio, Paesaggio dissolto e le ultime fabbriche del territorio Paesaggio, ex paesaggio).

E venendo al dettaglio delle opere esposte nei diversi spazi cosa trova il visitatore nella Sala dei cieli?

La sala presenta luoghi e tipologie ricorrenti dagli anni Ottanta in avanti. Il cielo è una costante, come quella dell’immagine multipla, sia a livello di collage sia di più scatti sovrapposti in sede di ripresa, dopo aver riavvolto il rullino della macchina fotografica (tra gli altri Berlino sopra il cielo di casa mia). Le fotografie non sono uno scatto unico, ma una successione di frammenti prolungata nel tempo, come fosse una riflessione sullo stesso sistema del fotografare.

E continuando nell’itinerario della mostra, cosa è rappresentato nella Sala dell'industria?

Qui non ci sono immagini documento, ma sensazioni realizzate negli anni in cui molte fabbriche vengono abbandonate. Per me sono ruderi-sculture… sindoni rappresentate nell’immaginario, spesso come fantasmi di uno scenario del passato, ma che solo oggi si concretizza in un particolare rapporto di sogno memoria.

Segue la Sala della città con le riprese a partire dai primi anni Ottanta dopo un decennio dedicato alle immagini di montagna?

Inizia qui “la frantumazione”, cioè il passaggio da un’immagine singola, assoluta, a una multipla realizzata in camera oscura e a volte ricomposta a collage (Fisionomie libere e i lavori sul tempo).

E può descrivere le opere fotografiche presenti nella Sala della natura?

Sono presenti due momenti di lavoro: da paesaggi incontaminati e interni di baite abbandonate già corrose dal consumismo degli anni Settanta, al ciclo di Frasnida (Morterone 1988-1999). Si passa da una fotografia di interpretazione naturalistica fortemente interiorizzata, soprattutto a livello di stampa, a una consapevolezza diversa che quel mondo contenga in sé dei germi e segni del contemporaneo.

Naturale Artificiale è il nome della sala successiva. Perché l’ha chiamata così?

La sala sintetizza tutti quegli elementi che sono emersi in precedenza con un uso molto spiccato dell’intervento fotografico sia in macchina, sia nella eventuale successiva trasposizione digitale. La base è ancora la ripresa analogica.

E la Sala della fotografia chiude il percorso della sua mostra?

È una riflessione sulla fotografia che parte dall’autoritratto e dalla messa in discussione della stessa stampa d’autore. Omaggio a Talbot è il riferimento a colui che, mentre si trovava sulle sponde del nostro lago, nel 1833 ebbe l’idea di inventare il negativo fotografico. Finché mi rimane un’ombra è poi un omaggio a Lartigue che negli ultimi anni della vita ritrasse la sua ombra sulla neve a San Moritz (1980). Le immagini di Ippolario, stampate questa volta in modo “industriale” e volutamente poco curato, sono un’ironica rappresentazione del lago di Como utilizzando vecchie foto soprattutto di Grandi, contribuendo a smitizzare l’immagine oleografica e idilliaca di un prodotto di consumo da depliant e documentari turistici. Si conclude con la riproduzione di una cartolina da Lecco di inizio secolo che potrebbe funzionare da sfondo per un selfie.