Grazie alla solo exhibition proposta dalla galleria P420 di Bologna in occasione di Frieze Masters a Londra, ho potuto conoscere e approfondire da vicino il lavoro dell’artista rumena Ana Lupas.

Est. Classe 1940. Una fuoriclasse che ha fatto del suo lavoro più che un’estetica, un’etica dicotomica. Essere un’artista dell’est ha significato reagire al proprio ambiente naturale, ha significato essere sensibile a ciò, e per sensibile si intenda il senso baumgartiano del termine, una sensibilità dunque inequivocabilmente legata alla conoscenza, all’appartenenza delle emozioni.

La poetica della Lupas si dipana glocalmente, l’artista profondamente radicata alla propria terra ha saputo indubbiamente, tramite performance e installazioni, coinvolgere attivamente gli abitanti autoctoni ed è riuscita tramite altre opere a parlarci di temi filologici come l’identità. Dal locale al globale, quasi sussurrando. La dicotomia dei lavori è riassunta nella ruvida eleganza che l’artista ha sempre avuto, l’attenzione verso le tradizioni e il folklore, ma allo stesso tempo l’esigenza di essere una voce fuori dal coro, non per vanità, ma per pura essenza, un’artista imbevuta fino al midollo di quel sentire avanguardistico che ha segnato precisi e decisivi momenti nella storia dell’arte. Tra archetipi e sperimentazione. Fuori dagli schemi che il mercato ha sempre dettato.

Una linea opulenta e irregolare quella che attraversa il tempo. Il suo tempo, il nostro tempo. Perché di tempo si parla nei suoi lavori, di dedizione, quella dedizione quasi sacrale che si dona come impilando i grani di un rosario, di umiltà, di materia grezza che non eccede mai fuori dalle righe, che trova un equilibrio in un mondo, a volte, troppo lontano dalle origini. Quella della Lupas è un’etica biologica che trae la propria spiritualità nello spazio.

L’artista come iniziatrice di processi e come antropologa, psicologa, come una sciamana provocatrice di profonde intuizioni, coinvolgendo l’altro in un comune gioco poetico. Mai patetico sempre critico. La Lupas parte dall’organico, dal fisiologico, dal deperibile, dall’effimero, parte da fibre naturali, pelli, steli di grano, ma anche ossa, legno, tessuti. La sua è una geografia tattile che si perde nell’intensità della struttura, tra architettura e spirito. Frammenti interconnessi e sapientemente intrecciati. Un esoscheletro di romantica perseveranza.

L’identità è un luogo tellurico e prismatico meno liscio di quanto si possa immaginare, e se l’aspetto minimale delle opere ci concede una pulizia di sguardo, la profondità non è che lì nella superficie, nella mobilità e sinuosità di certi intrecci, nodi, cuciture, pieghe, usure, strappi. Ancora una volta una dualità che ci concede il lusso di essere intimamente umani.

Opere

Flying machines
Ana Lupas, Machine for flying through the Woods, 1973, various materials, cm. 265 x 201 x 30
L’assemblage materico, come il titolo annuncia, rimanda a qualcosa di altro, a un “attraverso il quale”. Si presenta come un’opera priva di orpelli, tra leggerezza e minimalismo, garze, lana, legno, canapa e cuoio. I materiali sono visivamente soppesati in una grazia raffinata, non pretenziosa. L’essere macchina come l’essere umano richiede tanti diversi pezzi in coesione fra loro, e questa biodiversità non è che l’ascesa in uno stato di natura.

Coats
Coat for reaching the Heaven, Coat for reaching the Purgatory, Coat for reaching the Sun sono tutti lavori del 1964. La forma tessile invade lo spazio a metà tra l’essere scultura e l’essere architettura. La preziosità di questi patchwork identitari sta nell’essere una seconda pelle, una vera e propria rete di intrecci, nodi, rilegature, dove subentra un discorso quasi erotico sul pattern e la composizione. La diversità e la complessità dell’essere umano è una battaglia quotidiana costante in e out. Le cuciture, le diverse texture, i tagli, sono luoghi di scontro edincontro tra il corpo e lo spirito che l’occhio può solo indossare.

Humid Installation, 1970, four color photographs (printed in the 70s), cm. 40 x 61,5 each (cm. 80 x 123 overall)
1970. Nel villaggio di Mârgãu in Transylvania, si compì un atto collettivo catartico, dall’intima intensità. L’artista radunò più di cento donne invitandole a stendere le proprie lenzuola pulite in linea lungo i verdi pendii rumeni. La ri-contestualizzazione di un simile gesto quotidiano e domestico divenne così un atto estetico tramite il quale le persone poterono attuare un processo di identificazione. Humid Installation trae la proprie radici dall’azione del 1966 The Flying Carpet e può essere considerata a tutti gli effetti un proto intervento di land art effimera. Le componenti di spazio e tempo rimangono di fondamentale importanza per un lavoro che, anche se ripetuto con differenti modalità, rimane ogni volta unico nelle proprie finalità. La memoria di questi delicati tessuti umidi diventa una stretta spirituale, una morsa al proprio sé tra nuvole e lenzuola. Dall’alto le linee bianche che si sono create nell’ambiente fungono da scrittura, maestosamente silenziosa, che richiama all’appartenenza, alla ricerca di un’ancestralità perduta. Di preziosa leva anche i disegni preparatori, che dimostrano nella traccia l’intenzione di un processo.

Identity Shirts
First generation, second generation, 1969
Oggetti non funzionali, dai contorni indefiniti, dall’identità incerta, complessa, vaga, sfumata. Reminiscenze di capi d’abbigliamento. L’artista suddivide per gruppi, per generazioni, i seguenti lavori. Quelli di prima generazione si avvicinano a una texture densa di un grafismo che a tratti si fa più intenso e a tratti più leggero. L’unione di cucito che sia manuale che sia a macchina si mescola al sapore della grafite, per una geografia livida che ben rappresenta il concetto di identità. L’identità si fa traccia di un’idea. I lavori della seconda generazione presentano una “pelle” più stratificata, più volumetrica, più sezionata. La texture sembra espandersi in maniera rigorosa nei precisi confini di una geometria inscatolata, dalle nuances opache e terrose, originarie. Corrosione, lacerazione, tutto porta a un’inevitabile consumazione della bios.

The Solemn Process
1964. Installazione dall’intriso misticismo pensata esclusivamente per ambiente rurale. Come di consueto l’artista scelse materiali deperibili, come grano, paglia, canapa, cotone, legno. La caducità e fragilità materica sembrano rafforzare paradossalmente la poetica dell’artista. Le strutture corporali create erano rigorosamente effimere, opulescenti, tattili, fluttuanti, con una trascinante plasticità nelle proprie forme, in grado di occupare e modificare l’ambiente circostante. Anche in questo caso l’artista seppe mantenere un duplice sguardo, quello della sperimentazione di nuovi linguaggi artistici e quello legato alla tradizione, ai valori di un artigianato che riscopre nella propria manualità una forza interiore quasi magica.