Nella seconda metà degli anni Sessanta, ormai stabilizzato in agro nomentano, cominciai a interessarmi alla storia municipale dei comuni dell’estremo lembo della bassa Sabina, specialmente di Mentana e Monterotondo. Nel Duomo di questo, mentre mi informavo sulle diverse opere d’arte presenti, mi aveva incuriosito da subito un dipinto di Sacra Famiglia col Giovannino: mi colpiva la serena maestà del volto della Madonna. Non potendo trovare supporto in loco, per l’assenza assoluta di testi monografici, fu giocoforza fare ricorso alle biblioteche. Quella fu la scintilla verso la “via di fuga letteraria” da me imboccata quale rimedio alla frastornante quotidianità dall’assedio dell’ansia, conseguente alla mia professione medica e ostetrico-ginecologica.

Nel 1969 lo Schleier scrisse sulle opere presenti a Monterotondo [1] ma si interessò soprattutto della chiesa di S. Maria delle Grazie. Ai dipinti del Duomo volse l’attenzione nel 1971: "… Chiudiamo la serie delle opere presentate qui per la prima volta con una pala d'altare che non vorremmo ascrivere al Cozza con altrettanta certezza e convinzione, benché la sua candidatura appaia favorita: si tratta della pala che attualmente sta nel transetto del Duomo di Monterotondo (Lazio) e di cui si ignora la situazione originaria. Rappresenta la Sacra Famiglia col Giovannino. La figura della Madonna è del tutto tipica del Cozza, mentre il Cristo appare modellato fin troppo mollemente, benché se ne trovino dei paralleli nelle opere certe, come nel quadro tardivo dell’Estasi di S. Maria Egiziaca (Londre, Heim Gallery); e la posa e il tipo del Bambino sono altresì simili al Cristo della pala di Genzano" [2].

Giustamente l'Autore ne ha dato l'assegnazione al Cozza come dubitativa; altri più tardi hanno pensato a Vincenzo Manenti di Orvinio [3]. Il travaglio che precedette l’attribuzione definitiva mi ha fatto subito ripensare all’importanza del metodo filologico nella storia dell’arte, quel metodo che, nella critica delle arti figurative, tende alla comprensione delle opere d’arte o all’attribuzione di queste, nonché degli artisti, attraverso la ricerca, l’esame, l’interpretazione di notizie storiche, testi e documenti [4]. A questo metodo, rigoroso, si contrappone un "… costituzionale provincialismo, spesso precipitato nel municipalismo; tale connotato si può ravvisare sia sotto l’aspetto ideologico che da quello lessicale […]; mette [inoltre] conto di porre a fuoco un altro (e forse il più importante) connotato del tipo di cultura in esame. E questo consiste nella prevalenza del commento sulla ricerca, nel ridurre cioè l’opera d’arte a semplice pretesto per un discorso letterario: quello che importa all’autore non è il dato storico raggiunto attraverso una ricerca filologica (come al solito, la filologia autentica viene trattata […] con disdegno e superficialità)" [5].

E su questo argomento torna ancora e altrove Federico Zeri, costernato: “Debbo dire che mi considero più uno storico mancato che uno storico dell’arte. Mi manca l’insieme degli elementi necessari alla vera e profonda comprensione di un testo pittorico perché la filologia, il riconoscimento degli stili (cioè la base del mio lavoro) offrono soltanto il grado zero, il fondamento necessario a una storia più comprensiva di cui essa stessa stabilisce unicamente il vocabolario; sono convinto che non esiste un’autonoma 'vita delle forme', non esiste una storia degli stili che si sviluppano per proprio conto, non esiste una logica figurativa autonoma. Queste sono visioni particolarmente assurde e impossibili per ciò che riguarda l’arte italiana, della quale il prodotto anche più piccolo è il riflesso di condizioni particolari, di microstorie in cui le vicende del cattolicesimo giocano un ruolo essenziale” [6].

Tornando al nostro dipinto, dico subito che la paternità dell’opera del Duomo di Monterotondo, mentre gli mostravo la fotografia, il Professore me la diede, seduta stante: “È di Antonio Gherardi da Rieti e la prova è insita nel quadro stesso; il volto della Vergine è il ritratto della moglie del Gherardi” [7]: la mia fatica si concretizzò nel riportarla, mettendo il suo nome come suggeritore. Nei tanti anni di frequentazione non ho potuto davvero comprendere il metodo Zeri e, come me, credo non l’abbia mai capito nessuno. Antonio Giuliano lo interpretò così: "I monumenti antichi di Roma e dell’Oriente non erano per Zeri muti. Essi parlavano il linguaggio che tutto era suo ed egli tutto si trasferiva in loro. Ma il passato si indeboliva ogni giorno nel presente e non lasciava che grandi reliquie. E allora, come per altri italiani, il titanismo che nasceva dal confronto con epoche tanto più nobili e dense di significato portava lo studioso a esprimersi con tono aspro e troppo alto. Il mondo antico, cui egli sentiva di appartenere era, purtroppo, scomparso per sempre e nulla valeva a resuscitarlo. Da questo l’inevitabile angoscia nel vivere quotidiano che lo ha accompagnato per tutta la vita sino a quando ha deciso di morire" [8].

Chi invece, nello studio del nostro dipinto, seguì rigorosamente il metodo filologico fu Vittorio Casale [9]. Egli partì da molto lontano, dalla chiesa dei Santi Venanzio e Ansuino, posta in Roma, in una piazzetta vicino alla piazza dell’Aracoeli. La chiesa, di origine tardo medievale e già chiamata San Giovanni in mercatello, nel 1665 da Clemente X fu ceduta alla “Confraternita dei Camerinesi” che la restaurò, dedicandola ai propri santi protettori Venanzio e Ansuino. Dell’arredo pittorico se ne erano fatto carico le nobili signore che abitavano nei pressi della chiesa. Committente, al Gherardi, della pala posta nella cappella di S. Anna fu la marchesa Diamante Muti: questa pala d’altare di Sacra Famiglia con San Giovannino e Sant’Anna, dopo la demolizione del sacro edificio del 1928, è ora esposta nella chiesa di Cristo Re in Roma [10]. Tutta la zona infatti, compresa quella su cui insisteva la chiesa dei Santi Venanzio e Ansuino, venne abbattuta per la realizzazione della piazza di San Marco ai piedi della scalinata di Santa Maria in Aracoeli.

Nel saggio, il Casale ha seguito passo passo il percorso dell’arredo e dei singoli artisti che lo realizzarono e, infine, la loro dispersione. Del Gherardi ne ha curato un saggio critico, come per gli altri co-autori che nella seconda metà del Settecento ne realizzarono gli altri dipinti. Di ciascuno ne ha evidenziato gli influssi: “Una sorta di ritorno all’ordine, alla naturalezza, di fastidio per la retorica, è, più generalmente, il ‘clima del tempo’ lucidamente avvertito dalla trattatistica” [11]. A conclusione del suo studio filologico, quindi, ha potuto definire l’autenticità della fattura a opera di Antonio Gherardi.

Vittorio Casale aveva redatto il saggio quale contributo agli ‘scritti in onore di Federico Zeri’; ad abundantiam però aveva rivolta l’attenzione pure al dipinto del Duomo di Monterotondo, per il quale in nota [12] scriveva: "Il dipinto di Monterotondo è stato riferito al Cozza da E. Schleier, Inediti di Francesco Cozza, in 'Arte Illustrata', 43-44, settembre-ottobre 1971, pp. 5-25. In un sopralluogo al Duomo di Monterotondo riconobbi la tela opera del Gherardi".

Qui la nota, nel testo originale, probabilmente terminava. Il suo seguito è stato redatto, ovviamente, dopo che Zeri ebbe letto il saggio che l’autore, preventivamente, gli aveva presentato in lettura. Infatti così continua:
"In seguito sono venuto a sapere che il professor Zeri la aveva giustamente attribuita, riconoscendo tra l'altro nel volto della Madonna il tipo femminile (la moglie) usato dall'artista. II professor Zeri mi ha poi cortesemente fornito le due seguenti indicazioni bibliografiche: S. G. Vicario, Altri capolavori d'arte scoperti a Monterotondo, in "Rassegna del Lazio", 8, agosto 1974, pp. 10-11 (pubblica il dipinto e riporta le opinioni di F. Zeri); idem, Escursione sulla Via Nomentana nell'estremo lembo della bassa Sabina. Monterotondo, in 'Lazio ieri e oggi', a. XVII, aprile 1981, 4, p. 94".

La nota, pur se imbarazzata, è preziosa poiché documenta che il metodo filologico, quando usato nel modo sapiente come affrontato da Vittorio Casale, conduce al corretto risultato ma conferma, dall’altra, la particolarità del metodo Zeri che il suo amico di sempre, Pierre Rosenberg, così tramandò: ... "noi progrediamo piano piano e, curiosamente, con l'occhio, il nostro laboratorio non è niente di più che un ottimo paio di occhiali; ciò non riesce a rimpiazzare l'occhio […] di un Federico Zeri, verosimilmente il più grande occhio vivente, almeno per la pittura italiana. Egli non ha alcuna posizione ufficiale (nel mondo accademico) ed è solamente consigliere del museo Getty, ma la sua autorità, soprattutto in materia di pittura italiana, specialmente dei "primitivi" italiani, è incontestabile: le sue attribuzioni significano milioni di dollari in più o in meno" [13] …

Note:
[1] Erich Schleier, Emilio Savonanzi: inediti del periodo romano, “Antichità viva”, Firenze, luglio-agosto 1969, p. 11; qui però trattò di una Sacra Famiglia nella chiesa di S. Maria delle Grazie.
[2] Idem, Inediti di Francesco Cozza in "Arte Illustrata", a. IV, settembre-ottobre 1971, p. 7.
[3] Aa. Vv., Il Duomo di Monterotondo 1639-1989, Monterotondo 1989, p. 59.
[4] Cfr. Federico Zeri, Sull’esecuzione di «nature morte» nella bottega del Cavalier d’Arpino…, “Diari di lavoro 2”, pp. 92-103.
[5] Federico Zeri, Le rugiade del critico, “Mai di traverso”, Longanesi, Milano 1982, p. 110.
[6] Idem, Confesso che ho sbagliato, ricordi autobiografici, Longanesi, Milano 1995, pp. 122-123.
[7] Salvatore G. Vicario, Altri capolavori d’arte scoperti a Monterotondo, “Rassegna del Lazio, attualità”, 8, agosto 1974, pp. 10-11.
[8] Antonio Giuliano, Federico Zeri e l’arte del mondo antico, “Venti modi di essere Zeri”, Umberto Allemandi & C., Torino 2001, p. 41.
[9] Vittorio Casale, Diaspore e ricomposizioni: Gherardi, Cerruti, Gregolini, Gardi, Masucci ai Santi Venazio ed Ansuino in Roma, “Scritti di storia dell’arte in onore di Federico Zeri”, Electa, Milano 1984, vol. II, pp. 736-754.
[10] Amalia Mezzetti, La pittura di Antonio Gherardi, “Bollettino d’Arte”, 33, 1948, p. 177.
[11] Casale, cit., p. 737: “Alcune Riflessioni sopra il buon gusto, formulate da Ludovico Antonio Muratori, proprio nel primo quarto del secolo, sono particolarmente utili a inquadrare i dipinti dei Camerinesi”. [12] Idem, cit., p. 753, 16n.
[13] Pierre Rosenberg, Il Louvre, questo sconosciuto, in “L’Express” , Parigi, 2 dicembre 1983, p. 90.