Maria Fratelli, museologa, è stata Conservatore di Arte Moderna e Contemporanea e Responsabile della Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Milano. Attualmente è Dirigente del Servizio Case Museo e Progetti Speciali del Comune di Milano e reggente del Servizio Musei Storici.

Cosa vuole raccontarci di lei?

Ho da poco compiuto cinquant’anni ed è difficile prendere atto di averci messo tanto ad arrivare a quello che oggi è solo un punto di partenza, la direzione di un museo è una meta necessaria per fare pienamente il mio lavoro: diffondere la conoscenza del patrimonio dei Musei milanesi e renderli luoghi identitari della città, al servizio del pubblico, che in essi deve sentirsi a casa, in luoghi sicuri dove si condividono idealità civiche e civili. Credo infatti fermamente nella ragione e nella bellezza quali unici paradigmi necessari nella vita.

La donna oggi: liberazione o integrazione?

Nessun diritto è mai raggiunto una volta per sempre: nemmeno la libertà e l’uguaglianza della donna. La società industrializzata ha tolto la supremazia alla prestanza fisica dell’uomo e ha fatto credere possibile la parità ma questo primo progresso non è stato duraturo. La soluzione forse è nell’individuare il femminile negli uomini, valorizzandone quindi la fragilità, la sensibilità, le passioni, renderli quindi più attenti e rispettosi, meno violenti, meno competitivi. Le donne sono portatrici di vita e sanno che i figli non sono sacrificabili, sono le sole a piantare ancora gli alberi.

Donne e potere: cosa ne pensa?

Le donne, come il resto dell’umanità, si dividono in due tipi: quelle che ambiscono al potere e quelle che lavorano duramente a prescindere dalla possibilità di ottenerlo, perché trovano valore e danno qualità a quello che fanno ogni giorno. Di fatto il potere potrebbe essere anche utile per fare bene: rende più efficaci le azioni, più incisive le idee, accede a maggiori risorse, ma troppo raramente si associa a giustizia e lealtà, soprattutto quando non è ottenuto per merito. A prescindere dal genere quindi è spesso sordo, perché non ha bisogno del confronto, e immorale, perché avulso dalla realtà. Al potere preferisco il riconoscimento, il diritto di esprimere il proprio pensiero e il dovere di ascoltare quello degli altri, il confronto che porta a crescere insieme.

Stereotipo e realtà della donna milanese

Nello stereotipo le donne milanesi sono sempre di corsa, ed è vero. La città non è indulgente e le giornate sono troppo brevi, in cattività, perché qui in città mancano gli spazi aperti, le distese di cielo e gli ampi orizzonti dove il tempo può distendersi, qui tutto è condensato e il tempo scorre più rapidamente. È difficile essere donna, madre e lavoratrice a Milano. Troppo spesso si sacrifica una delle componenti a discapito delle altre.

Il rapporto della donna con l’uomo contemporaneo: confronto o scontro?

Non esiste confronto e non esiste scontro ma perenne competizione. Una gara dove affrontarsi in condizioni di parità sarebbe già una prima enorme vittoria. Il mondo dell’arte è un mondo composto essenzialmente di donne ai cui vertici si trovano soprattutto uomini. L’essere pochi diventa per gli uomini un vantaggio in termini di visibilità già all’università, dove non devono emergere per essere individuabili e riconoscibili, a prescindere. Iniziano così una carriera che consente loro di imporsi con più facilità nel mondo del lavoro, dove non manca una dilagante misoginia anche tra le poche donne in posizione di potere.

Sessualità, maternità, lavoro: tre fili che si intrecciano, confliggono o si elidono?

Nel mondo del lavoro c’è un pregiudizio enorme verso chi è madre perché si ritiene che questa scelta condizioni le priorità, i doveri, la dedizione. Così per smentire questo pregiudizio io ho spesso sacrificato molto di più di quando avrei potuto e dovuto alle mie figlie: non le ho accompagnate a scuola, alle visite mediche, ai giardinetti, ai compleanni. Mi sono trovata a nascondere la mia ultima gravidanza fino alla notte del parto e sono rientrata in servizio tre giorni dopo per non lasciare il mio posto vacante. Per la prima volta quest’anno ho anteposto il concerto di Natale della mia terza figlia a un incontro di lavoro: ed è stata una liberazione.

Il primitivo museo era anche un centro di studi e ricerche: si è mantenuta questa tradizione?

Ci sono due componenti nella fascinazione del museo: la sua fissità nel tempo e la capacità di essere propositivo e quindi mutevole. Bisogna non confondere questi due aspetti: capire che non tutti i musei sono uguali e non tutti devono operare nello stesso modo. Tutti però devono essere centri di studio e ricerca. Senza questa dimensione operativa, quale motore primo della loro attività, saremmo di fronte a un deposito, magari anche visitabile, ma non a un museo.

Lei si è anche interessata alla storia e al significato delle collezioni pubbliche, qual è, oggi, il loro stato di salute e il loro rapporto-confronto con le collezioni private?

Milano ha una peculiarità che la rende unica: i privilegi privati sono diventate pubbliche virtù, le grandi collezioni sono andate a comporre pagine uniche di collezionismo pubblico dentro i civici musei, spesso imponendone la formazione. Questa civiltà/città virtuosa ha fatto grande Milano. Oggi questa liberalità è venuta un po’ meno a causa, forse, della perdita di autorevolezza dei musei pubblici. A Milano non mancano musei privati voluti da fondazioni bancarie e aziende - con i quali non è facile competere in termini di qualità dei servizi - che un tempo avrebbero legato la loro capacità economica alle realtà pubbliche acquistando per loro o depositando opere altrimenti inavvicinabili e sostenendone le attività. Si dimentica così la responsabilità, tutta italiana, dei musei pubblici quali istituti di conservazione e di costruzione della storia.

La visita e la conoscenza dei musei dovrebbe essere uno degli elementi portanti della didattica delle scuole di ogni ordine: quali suggerimenti darebbe per avvicinare giovani e studenti a una fruizione consapevole dei musei?

L’unione europea ha messo a punto dei dispositivi, come l’alternanza scuola/lavoro per creare relazioni dirette tra il mondo della formazione e la società. I legislatori pensavano al mondo delle aziende, ma la scuola ha cercato relazioni anche e soprattutto con il mondo degli altri soggetti della cultura, i musei prima di tutto, dove i ragazzi verranno a studiare, capire, proporre soluzioni di comunicazione rivolte ai loro coetanei. In generale credo che portare i ragazzi al museo sia il miglior modo per renderli consapevoli di cosa gli appartiene, di cosa condividono.

Quali sono i musei e le opere che possono far conoscere meglio e amare la milanesità?

I musei civici prima di tutto, perché espongono la relazione che intessono con la città: dal Museo Archeologico, al Castello, al Museo del Risorgimento, alla Galleria d’Arte Moderna, al Novecento e a Casa Boschi Di Stefano, sono parti di un unico museo diffuso che deve riproporre la propria autorevolezza come punto di riferimento centrale nel sistema più ampio dei musei milanesi pubblici e privati. In questo periodo sto amando molto il museo del Risorgimento perché contiene l’idea dell’Italia e della sua Indipendenza, ma anche quella dell’Europa e del federalismo, e ricorda le radici della nostra vita insieme, della Resistenza, della Repubblica, del voto alle donne. È un museo di grande attualità: ci sono in nuce i problemi dell’oggi ma anche le idee per affrontarli. Se penso invece alle opere, mi basta citare i gessi del Monumento alle Cinque Giornate di Milano, conservati nei depositi della Galleria d’Arte Moderna, per indicare un piccolo gruppo di gesso che contiene e racconta la tutta una storia della città e non solo.

Qual è la sua più grande soddisfazione, come conservatrice e propositrice dell’insostituibile patrimonio museale ambrosiano?

La più grande soddisfazione come conservatore è stata il riordino e l’inventariazione del patrimonio delle opere della Galleria d’Arte Moderna, pubblicate sul primo sito milanese con il catalogo on line dell’intera collezione. Ma non esistono soddisfazioni senza rimpianti: mi è infatti mancato il tempo di concludere il recupero dell’antico sistema di climatizzazione dell’edificio che stavamo studiando da tre anni con il Politecnico di Milano, ristabilendo i vecchi canali che dal giardino percorrevano le murature di Villa Belgioioso. Un trasferimento-promozione ha cambiato il mio lavoro e i progetti del Museo. La più grande soddisfazione come curatore è più lontana nel tempo e anch’essa porta con sé dei rimpianti. È una mostra dedicata alla scultura realizzata con le collezioni del vecchio CIMAC e i dipinti della collezione Jucker presso la Società Belle Arti ed Esposizione Permanente, negli anni in cui il Museo del Novecento era ancora sulla carta. Le sculture erano esposte su un pavimento a scacchi, citazione della famosa partita che il cavaliere del Settimo Sigillo nel film di Bergman gioca con la morte: una partita dal finale scontato che solo l’arte sa, a volte, procrastinare. Purtroppo non è mai stato stampato il catalogo che proponeva una serie di associazioni visive e concettuali in un caleidoscopio di rimandi e di possibilità. Quello che ho sempre cercato di fare è di costruire relazioni attraverso il tempo tra le forme, le idee, le opere, tra i musei e l’arte presente. È quello che credo di fare meglio, con maggiore passione, e che continuo a fare oggi in casa Boschi di Stefano, con l’irruzione delle opere/avatar di Mustafa Sabbagh e di Ignazio Gadaleta a sostituzione temporanea di due capolavori della collezione in prestito; allo Studio Museo Francesco Messina, riqualificato come laboratorio di scultura con una serie ininterrotta di mostre e di incontri con gli artisti contemporanei e al CASVA dove è ancora in corso una mostra web milanocittàimmaginata dedicata a 10 progetti non realizzati per Milano, per parlare di cultura del progetto, di forma della città e della qualità della vita che da questa forma dipende. L’arte è uno strumento speciale per spiegare il mondo, provare a farlo il mio sogno di tutti i giorni.