Una rassegna dinamica e complessa. È quanto risulta essere la mostra Gestures- Women in action, in corso a Merano Arte fino al prossimo 10 aprile. Curata da Valerio Dehò, l'esposizione altoatesina presenta 40 opere - fotografie, video, oggetti e collage - che ripercorrono le espressioni più significative della Body Art femminile dagli anni Sessanta ad oggi. Sono lavori che esplorano il tema del corpo femminile impiegato come mezzo espressivo primario per veicolare un pensiero di protesta e sovvertimento dei valori costituiti, realizzati dalle più importanti esponenti della Body e Performance Art attive già dagli anni Sessanta e Settanta, quali Yoko Ono, Marina Abramovic, Valie Export, Yayoi Kusama, Ana Mendieta, Gina Pane, Carolee Schneemann, Charlotte Moorman, Orlan, alle esperienze più recenti di artiste quali Sophie Calle, Jeanne Dunning, Regina José Galindo, Shirin Neshat, Silvia Camporesi e Odinea Pamici.

La mostra testimonia un percorso artistico tortuoso, attraverso il quale le donne protagoniste del movimento della Body Art hanno mutato profondamente il corso dell'arte contemporanea. Uno dei punti principe è stato l'abolizione dei confini tra teatro, spettacolo, comunicazione e arte: le loro opere, infatti, hanno sviluppato un approccio che intendeva abolire la distanza tra artista e pubblico, facendo dell'arte un fondamento della comunicazione sociale, uno specchio e un laboratorio dei cambiamenti in atto. Il pubblico non era più considerato uno spettatore passivo, ma parte integrante dell'opera stessa.

L'esposizione si sviluppa in senso cronologico e si apre con la grande fotografia di Marina Abramovic. A seguire una serie di immagini e video di Yoko Ono, già esponente negli anni Cinquanta del movimento Fluxus. In mostra figurano il celebre video e alcune fotografie della performance Cut piece (1965), e altre tratte dalla performance eseguita con il marito John Lennon: Bed In (1969). Ed ecco la serie di foto e video di Marina Abramovic con le sue performance estreme in cui esplora i limiti della sopportazione corporea, le potenzialità della mente e della concentrazione. Nella seconda sala troviamo la performance Blood sign (1972) dell'artista cubana Ana Mendieta, i cui lavori si caratterizzano per una singolare una ritualità legata alle antiche culture indigene e una forte radice trans-culturale, in cui il corpo si confronta con l'ambiente e gli elementi naturali.

Dialoga con quest'opera una fotografia de Azione sentimentale (1973) di Gina Pane, una delle grandi esponenti della Body Art in Italia. E dell'artista giapponese Yayoi Kusama, attiva negli USA come performer e artista dagli atteggiamenti osè , è la fotografia di una performance svoltasi nel corso dei propri happening. Il percorso espositivo prosegue con l'artista austriaca Valie Export, pseudonimo attraverso il quale ha voluto negare il cognome paterno e del marito per sostituirlo a una scritta a caratteri cubitali che rimanda alla marca di sigarette austriache Export Smart. E sempre per il suo lavoro sul corpo, sulla sessualità e sui generi, è l'americana Carolee Schneemann, con la serie fotografica che documenta la performance Ice naked skating (1972), e con un'opera che fa parte della straordinaria serie Eye Body (1963). Ancora al centro della sala, due grandi fotografie della francese Orlan, esponente di spicco del corpo estremo rendendolo materiale artistico primario e riflettendo sul tema dell’ibridazione tra natura e tecnologia.

Altra importante artista francese è Sophie Calle con la fotografia Mon ami (1984). Le opere dell'artista francese, dal sapore voyeuristico, esplorano il tema dell'identità e intimità femminile, interrogandosi sul confine tra esperienza pubblica e privata. E ancora di Marina Abramovic è Balkan Baroque, performance con cui ha ottenuto il Leone d’oro alla Biennale di Venezia del 1997 . A fare da contrappunto all'immagine traboccante della Abramovic, è quella di Jeanne Dunning, dalla serie Long Hole (1994-96). Il lavoro dell'artista statunitense riflette sulla relazione che ognuno di noi intrattiene con la propria singolare fisicità, identità e sessualità, esplorando gli aspetti stranianti che emergono da questo confronto.

L'opera dell'iraniana Shirin Neshat si focalizza sul ruolo sociale della donna nelle società islamiche contemporanee. In mostra è una visione oscura e intima, uno still del cortometraggio realizzato dall'artista nel 2001 intitolato Pulse. Mentre con Il sale della terra (2006) la giovane fotografa italiana Silvia Camporesi crea un universo molto delicato e poetico, letto in chiave intimista. Più corporea e provocante Odinea Pamici che con Ballo per Yvonne (2005) gioca con gli stereotipi femminili, i simboli del matrimonio e della cucina come spazio consacrato alla donna dalla tradizione. A chiudere il percorso espositivo meranese sono alcune opere della performer guatemalteca Regina José Galindo. Nelle sue performance, l’artista opera con una gestualità aggressiva sui propri limiti fisici e psicologici, trasformando il proprio corpo nel teatro di un conflitto permanente, in una storia infinita per un tempo indissolubile.