La recente polemica relativa alla mostra bolognese Street Art – Banksy & Co. L’arte allo stato urbano, e soprattutto alla conseguente autocancellazione dei propri graffiti da parte di Blu, ha come d’abitudine aperto uno scontro tra tifoserie, piuttosto che - come sarebbe stato più utile - un confronto di idee sul merito della questione. Da una parte, il mondo istituzionale delle gallerie e dei musei, sostanzialmente compatto nel difendere la scelta di Fabio Roversi Monaco, presidente della Fondazione Carisbo che ha organizzato la mostra, e dall’altra Blu (e altri street artist) che per protesta contro l’operazione ha deciso di cancellare tutte le sue opere sparse per Bologna. Così posta - e contrapposta - la questione ha assunto uno schema semplicistico, e in quanto tale superficiale, riducendosi a uno scontro tra due visioni ideologiche della street art. Privato contro pubblico (anzi, comune), chiuso vs aperto, ecc...

Iniziamo intanto col dire che la mossa del cavallo di Blu ha spiazzato l’orizzonte comunicativo dei media, che si è quindi focalizzato sul cosa (la cancellazione dei murales), relegando a fattore marginale il perché (le ragioni della estrema protesta). E quindi, ovviamente, relegando ugualmente ai margini la mostra stessa. Devo qui dire che, personalmente, pur non avendo visitato l’esposizione, dalle numerose foto viste ho tratto conferma di ciò che pensavo anche prima: è una brutta mostra. E lo è già concettualmente.

Il curatore della mostra, Christian Omodeo, intervistato da Artribune, posto dinanzi alla domanda se avesse un senso staccare dai muri le opere degli artisti, per esporle in una galleria, rispondeva: “Ha senso esporre i marmi del Partenone al British Museum o i quadri d’altare provenienti da chiese italiane nei più importanti musei stranieri?”. Per quanto fosse ovvio il suo schieramento, è l’argomento addotto che lascia perplessi, e rimanda ancora una volta a quella superficialità di cui prima.

Come si può infatti ignorare che gli esempi cui fa riferimento sono retaggio di epoche in cui il saccheggio, anche delle opere d’arte, era considerato normale? E ancora, è del tutto ignaro di quanto previsto dalla Convenzione dell’Aia del 1954, che all’art. 4 dichiara l’impegno delle parti “a proibire, a prevenire e, occorrendo, a far cessare qualsiasi atto di furto, saccheggio o di sottrazione di beni culturali, comunque sia praticato, e qualsiasi atto di vandalismo verso gli stessi”?

Come dicevo, la mostra è concettualmente brutta perché implica una violenza privatistica. Ma, ancora una volta, non è questa la questione più rilevante. La questione vera è, sotto il duplice aspetto artistico e politico, cos’è la street art, e come si colloca nella realtà artistica e sociale contemporanea? E, ovviamente, qual è il ruolo - e la libertà - dell’artista?

Cominciamo col dire che la street art è, per definizione, arte pubblica; ma anche, e consapevolmente, arte destinata a deperire/scomparire. L’artista che sceglie di realizzare e installare un'opera in strada, che si tratti di uno stencil o di un murale, non solo accetta di esporla a ogni accidente possibile (vandalismo compreso), ma comprende ciò nel senso dell’opera stessa, che vuole sia cosa viva (e per ciò stesso, destinata a morire). Basti pensare agli straordinari interventi artistici di Ernest Pignon-Ernest a Napoli, realizzati negli anni ‘80 e di cui non rimane più alcuna traccia, se non quella fotografica.

La scelta ideologica dello street artist è dunque quella di inserire l’opera in un contesto vivo, non conservativo, affinché entri a far parte del vissuto quotidiano delle persone, nel loro proprio contesto urbano. Si tratta ovviamente di una scelta opinabile, ma non violentabile. Il non condividerla non può condurre all’imposizione di una visione opposta. Del resto, non solo molti artisti pensano e realizzano le proprie opere in funzione di una fruizione conclusa nello spazio (galleristico, museale), ma vi sono persino artisti che praticano entrambe le scelte. Lo stesso Pignon-Ernest, o - per altri versi - William Kentridge, con il suo progetto Triumphs and Laments sui bastioni del Tevere, hanno fatto e fanno esattamente questo.

La street art, quindi, rifiuta l’idea stessa della mostra. In questo senso, appare evidente il carattere coercitivo della mostra bolognese. Tra l’altro, fa specie che - tra gli argomenti adottati dai critici di Blu - vi sia quello di aver sottratto agli abitanti dei quartieri bolognesi le opere da lui cancellate, mentre questa argomentazione non è stata rivolta contro gli organizzatori della mostra stessa, che hanno divelto muri per realizzarla. Tra l’altro, se proprio si voleva organizzare un mostra che consentisse una fruizione (e una riflessione) complessiva e unitaria sulla street art, si poteva benissimo fare ricorso alla fotografia. Se lo si è fatto per Caravaggio [1], si può ben fare per Ericailcane!

Quanto poi alla questione della protesta di Blu contro questa espropriazione, concretizzatasi nella autocancellazione delle proprie opere sparse per la città, è chiaro che costituisce un atto politico, nel senso pieno e migliore della parola. È un’azione di riappropriazione dell’artista, che rivendica il diritto - mai ceduto ad alcuno - sulla propria opera, che così come può essere offerta può essere sottratta. Se un artista espone al pubblico un'opera in una galleria, e poi quest’opera viene acquistata, divenendo così fruibile solo privatisticamente, nessuno penserebbe di rimproverargli una contraddizione, in quanto può liberamente scegliere cosa fare del proprio lavoro, del prodotto del proprio ingegno e della propria capacità artistica. E questo vale, ovviamente, anche se il percorso è opposto. Anche il gesto distruttivo, come livello apicale e irrevocabile, non è - nella sua politicità - un fatto nuovo: basti pensare alla protesta attuata, giusto quattro anni fa, al CAM di Casoria, quando il direttore del Museo, Antonio Manfredi, in accordo con gli artisti, diede fuoco a una serie di opere del museo per protestare "contro le indifferenze delle istituzioni".

La pulsione privatizzatrice, purtroppo dominante nella società, si riflette pesantemente anche sul mondo dell’arte. E, quando assume dimensione mediatica e rilavanza artistica notevole, tende a manifestarsi con tentativi di appropriazione anche verso quella parte di mondo artistico che, invece, e legittimamente, ne rifiuta l’impianto ideologico. In un paese in cui ancora si oscilla tra criminalizzazione dei writer e santificazione degli street artist, forse non guasterebbe provare a ragionare pacatamente su come nuove forme d’espressione artistica possano e debbano dialogare con le città - abitanti e istituzioni, politiche e culturali. Piuttosto che perdersi inutilmente in un mare (blu) di polemiche.

[1] La Natività di Caravaggio, rubata dall’Oratorio di San Lorenzo alla Kalsa, a Palermo, nel 1969, è stata di recente sostituita da una riproduzione digitale ad altissima fedeltà.