L’homo sapiens, sin dai primordi delle sue esperienze visive, sentì la necessità di tramandare le emozioni che gli pervenivano dalla natura nella quale si sentiva immerso; lo fece dapprima con i graffiti sulle pareti delle grotte ove era insediato e poi, nei millenni, nelle maniere sempre più colte, mano a mano che acquisiva nuovi modi per visualizzare quanto lo affascinava. Nei secoli poi i paesaggi e le immagini in genere furono tramandati dai disegni sempre più compiuti, dalla pittura, dalla scultura, dalle acqueforti o dalle incisioni.

Tutto ciò sino alla comparsa della fotografia, la cui nascita ufficiale fu fissata al 7 gennaio 1839: ne spiegò i dettagli dell’invenzione di Louis Mandé Daguerre lo studioso e uomo politico Francois Jean Dominique Arago presso l’Accademia di Francia. In quella data, giustamente storica, illustrò il primo passo della ‘fissazione di una immagine su supporto fisso’ che, dal nome dell’inventore, fu detta dagherrotipia. In Roma lavorarono con questa tecnica già nel 1850 Giacomo Caneva, i fratelli Dovizielli, Tommaso Cuccioni, don Antonio D’Alessandri, Romano Cimini…

“Da quel momento in poi – nota Giorgio Moscatelli - la fotografia si affiancò alla pittura, appropriandosi, sempre più prepotentemente, dello spazio ad essa dovuto tra le arti dell'immagine; decennio dopo decennio cominciò a fregiarsi di nomi di grande levatura, in giro per il mondo. Il suo fulgore però durò fino al 28 dicembre 1895, quando venne proiettato per la prima volta un film dai fratelli Lumiere. Il cinema da quel momento conquistò il titolo di arte, strappandolo alla fotografia dalla cui tecnica aveva avuto origine; il suo momento migliore fu il neorealismo, merito soprattutto dei grandi mutamenti avvenuti dagli inizi del XX secolo, il sonoro prima e il colore dopo: manterrà così la sua supremazia tra le arti figurative fino all'avvento della televisione negli anni '60”.

Oggi, colui che si dedica alla fotografia, soprattutto se è sorretto da una adeguata cultura, si crea una gioia particolare, quella della creatività: la fotografia è tornata al gradino più alto, alla fotografia come arte. L’appassionato di fotografia può essere spinto verso questa professione dalla curiosità di fissare attimi di episodi che capitano alla sua osservazione e, all’inizio, deve pure contare molto sulla fortuna. È famoso il ragazzo che abitava nei pressi delle cascate del Niagara che, armato con la sua box Kodak, attendeva il crollo della vecchia passerella che attraversava il fiume, interdetta all’uso dei turisti perché pericolante. L’avvenimento condusse sul posto fotografi e fotoreporter di tutto il mondo che, stanchi però della lunga attesa, si crogiolavano in albergo, lasciandone solo uno di guardia. Ma quella passerella dispettosa crollò di botto mentre avveniva il cambio della guardia dei fotoreporter e unico rimasto, incrollabile, a riprendere l’avvenimento fu il giovanetto, appassionato di fotografia, con la sua box Kodak. Casi della vita, ovviamente… [1]

Al neofita, forse, l’istinto fotografico gli sarà pervenuto per dono di natura; ma poi, per salire sul piedistallo di “fotografo professionista” non è sufficiente l’istinto, serve cultura e intelligenza. Colui che è in possesso sia dell’una che dell’altra mi dà il verso di tornare su un ‘momento culturale’ già identificato dalla sagace analisi di Federico Zeri e passato nei testi della storia dell’arte: l’arte-guida, l’arte cioè che caratterizza il secolo o il tempo.

Nel 1999 mi ero interessato all’arte-guida, in occasione della pubblicazione di una conferenza che Zeri aveva tenuto in Roma [2]. Ricordai così l’argomento: “L’Associazione Nomentana di Storia e Archeologia (ANSA onlus), ricorrendo il primo anno dalla Sua morte, vuole onorare il Maestro presentando ai lettori la conferenza inedita tenuta dal Professore nel pomeriggio del 16 febbraio 1982 presso il Teatro Eliseo, organizzata dalla Associazione culturale italiana sotto forma di “martedì letterari” e che, al tempo, riscosse un successo strepitoso”.

Egli iniziò la teorizzazione dell’arte-guida partendo da molto lontano: Generalmente l’uomo comune pensa che la più alta espressione dell’arte greca, cioè quella che noi oggi chiameremo l’arte-guida, fosse la scultura; questo non è affatto vero. Nell’arte classica l’espressione che guidava le altre era la pittura; se voi leggete le fonti antiche vi accorgete che quando citano le sculture, le citano in funzione del colore; ad esempio quando Plinio descrive la Afrodite scolpita da Prassìtele per Cnido, la Venere Cnidia, non cita la composizione della statua ma cita il violetto degli occhi, perché le statue antiche erano dipinte; le statue antiche non erano bianche; noi vediamo, di queste statue antiche, come delle ossa spolpate; le statue erano coperte da una cera colorata, che veniva rinnovata periodicamente, cera rosata; in un certo senso le statue dovevano somigliare, mutatis mutandis come si suol dire, a quelle che sono le sculture della pop art, cioè erano elementi vivi; e lo stesso si può dire dell’architettura. L’architettura antica era architettura di colore; i grandi templi, come il Partenone, non erano bianchi come li vediamo oggi, erano colorati in modo violentissimo spesso, erano po¬licromi. A noi, abituati a vedere l’archeologia attraverso gli occhi del neoclassicismo, attraverso Winckelmann, questa idea in un certo senso ripugna; noi non riusciamo a concepire, per esempio, il Pantheon con i capitelli dorati; tutte le basi, tutti i capitelli erano dorati” [3].

Nel corso del secolo XX l’arte della fotografia fece passi da gigante ma non riuscì a frenare l’impetuoso successo del cinema. Il passaggio del testimone fra le due arti, chiaramente, avvenne per gradi: il cinema, ancora nella seconda metà del secolo XX, esibì personaggi davvero non secondari. Notò Dario Zanelli: “Ancora nel 1962 il cinema era nel suo fulgore; infatti - fra L’eclisse di Antonioni e Salvatore Giuliano di Rosi, I giorni contati di Petri e Mamma Roma di Pasolini, Cronaca familiare di Zurlini e Un uomo da bruciare dei fratelli Taviani - si affacciò un film dal titolo curioso La commare secca [4] di un giovane appena maggiorenne, il parmigiano Bernardo Bertolucci” [5].

Nel XXI secolo a me sembra però che il cinema non sia più l’arte dominante, pur se ancora importante. Direi invece che il perfezionamento della tecnica di ripresa delle immagini, ma soprattutto la sua massificazione, abbia a furor di popolo posto sul podio, almeno in questo primo ventennio, la fotografia. Conferma anzi Giorgio Moscatelli: “Lo sviluppo del digitale, con il suo enorme successo di pubblico, porta la fotografia nell'attuale ruolo di arte-guida che gli compete”.

A minare il podio del cinema però a me sembra sia stata soprattutto la produzione televisiva che quell’arte ha volgarizzato [6], spesso brutalizzandola. Allo stesso tempo la fotografia ormai nel mondo aveva esibito nuovi nomi di grande prestigio: Ansel Adams, Robert Capa (pseudonimo di Endre Ernő Friedmann), Henri Cartier-Bresson; mentre in Italia Franco Fontana, fotografo, notava: Tutto è già disponibile nell’immenso scenario del mondo.

Negli anni Ottanta del secolo XX Giuliana Scimé scrisse: “Non vi è fotografo che almeno una volta nella sua vita non si sia lasciato tentare dallo stupore per ciò che è lì sotto gli occhi, ricco di trascinante bellezza e di armonica semplicità” [7]. Negli stessi anni si imposero personaggi come: Gianni Berengo Gardin che “dopo un periodo iniziale di obbligatorio eclettismo, si dedicò alla fotografia come indagine sociale” [8]; Giacomo Pozzi Bellini ed Enzo Sellerio che fecero oggetto delle loro appassionate ricerche i paesi del Sud; Ivo Meldolesi che scosse l’opinione pubblica con reportage aggressivi e Pietro Donzelli che con la macchina fotografica annotò essenziali frammenti sociologici” [9]; Antonia Mulas, che offrì “una buona lezione pratica di cosa sia la fotografia: uno sguardo che vide sempre per la prima volta e scoprì la novità di ciò che molti, magari anche certi specialisti, ripetevano in forma cristallizzata” [10]; Ghitta Carell, infine, per la quale “essere fotografi di un’epoca, significa[va] essere interpreti di una determinata epoca, significa[va] essere descrittori, critici, e nello stesso tempo ammiratori dell’epoca”[11]; senza poter dimenticare Pepi Merisio, Giorgio Lotti, Sergio Del Grande, Mario De Biasi, Walter Bonatti, Uliano Lucas, Mario Dòndero, Ugo Lucas…

Quanto detto conferma che già nello scorso secolo la fotografia aveva raggiunto vertici importanti nella storia dell’arte; permetteva infatti “di constatare che le visioni dei tempi non remoti, ma tanto lontane tuttavia dai giorni nostri, [avevano] il magico potere della «fontana di giovinezza» per chi ancora ricorda[va] persone e luoghi scomparsi negli anni a cavallo fra il secolo passato e quello in cui viviamo” [12].

A continuare e rendere arte la fotografia oggi contribuiscono nomi eccelsi come Steve McCurry e Sebastiao Salgado. La lunga scia tracciata da tanti nomi illustri, sia ieri che oggi, è ora anelata da molti, ma fra tutti amo ricordare come sia percorsa con passione e talento da Charley Fazio, giovane eccellente figlio delle montagne nebroidee. Quanto detto mi consente di affermare quindi che, in questo inizio di secolo XXI, lo scettro di arte-guida sia di diritto della fotografia e che, soprattutto, non le sia giunto davvero all’improvviso.

Note:
[1] Vincenzo Correse, “Skema”, a. V, n. 10, ottobre 1973, p. 9.
[2] ANSA onlus, Annali 1999, pp. 115-122.
[3] Ero tornato sul tema nel 2008, su richiesta di una laureanda, Sabrina Viti, fornendole parte degli elementi utili alla stesura di una tesi su Zeri e l’arte moderna; nella tesi veniva ampiamente studiata la visione zeriana su questo nuovo modo di interpretare il fenomeno dell’arte-guida nei secoli.
[4] Il Dizionario Morandini riassume il film come «gusto, fantasia e due momenti di poesia».
[5] Dario Zanelli, Cinema italiano, ultima leva, “Skema”, a. VI, n. 1, gennaio 1974, p. 7.
[6] La televisione social-popolare di ‘baudiana’ memoria.
[7] Giuliana Scimé, Magia e segreto della fotografia, “Il paesaggio”, parte seconda, Gruppo editoriale Fabbri, Milano 1984, p. 83.
[8] Federico Zeri, Presentazione a Gianni Berengo Gardin, Comunque Italia, 1987.
[9] Giuliana Scimé, Realtà sociale come libertà creativa, “La foto sociale”, parte terza, Gruppo editoriale Fabbri, Milano 1984, p. 163.
[10] Federico Zeri, Presentazione a Antonia Mulas, San Pietro, Einaudi ed., Torino 1979.
[11] Giuseppe Turroni, Guai a chiamarla fotografa!, “Skema”, a. V, n. 8/9, ago.-sett. 1973, p.5.
[12] Vittorino Veronese, Presentazione al Nuovo album romano di Silvio Negro, Arzignano (Vicenza) 1964, p. x.