Da frequentatore abituale della torinese Galleria La Bussola, nel primo isolato di via Po, a poche decine di metri dal numero civico 3, dove sono nato e dove ho vissuto fino a 18 anni, ho avuto il primo contatto con la scultura di Mario Giansone in occasione della sua grande personale monografica del 1965: la prima mostra e l’unica allestita durante la sua lunga vita (Torino, 26 gennaio 1915 – 8 gennaio 1997).

Quella mostra autunnale, accompagnata da un catalogo monografico suggestivo, costituì un vero e proprio avvenimento. Trovò tuttavia un’accoglienza abbastanza tiepida sui quotidiani torinesi: nelle recensioni di Angelo Dragone su Stampa Sera del 22 ottobre (Il gioco “impegnato” dello scultore Giansone); di Marziano Bernardi su La Stampa del 23 ottobre (Le sculture di Mario Giansone in una suggestiva mostra a Torino); di Paolo Fossati su L’Unità del 27 ottobre e di Luigi Carluccio su La Gazzetta del Popolo del 29 ottobre.

Certo una personalità artistica prepotente e suggestiva: una «rivelazione» per me e per i più, anche se Giansone aveva esordito ben cinque lustri prima alle pubbliche rassegne, sin dal 1941, quando il suo bronzo Negro azzannato da un leone lo aveva rappresentato sia alla tredicesima mostra torinese del Sindacato Regionale Fascista alla Promotrice che, con titolo appena variato (Moretto azzannato dal leone), alla terza mostra milanese del Sindacato Nazionale Fascista nella sezione Scultura, insieme a Ritratto in bronzo nella sezione Medaglie.

In seguito, dopo la lunga parentesi bellica, occorre attendere oltre un lustro perché l’artista si ripresenti a una collettiva: nel 1953 all’Esposizione Nazionale di Arti Figurative della Società Promotrice delle Belle Arti torinese (per l’assegnazione dei premi Città di Torino), con una Scultura in pietra per fontana, di proprietà e fuori concorso. Nel 1954 però, alla centoundicesima rassegna della Promotrice di Torino, interamente dedicata all’arte contemporanea piemontese, Giansone ha l’opportunità di una prima personale di 17 opere, insieme ad altri quattro scultori: Sandro Cherchi (29 numeri di catalogo), Franco Garelli (26), Gaetano Orsolini (18) e Roberto Terracini (15) con un’equa spartizione di documentazione illustrativa, una tavola per ognuna delle cinque mostre individuali, tutte allestite nel salone. Giansone vi presenta una Pietà lignea; una Scultura proprietà della Biblioteca; uno Studio di testa e una Statua; la Faraona in marmo nero (riprodotta nelle tavole fuori testo del catalogo). In pietra: Scultura, Rilievo (Amanti, proprietà della Galleria Civica d’Arte Moderna di Torino); Leone con capriolo; quattro studi di genesi plastica (compresi quelli per la Faraona di marmo e per la Pietà) e altri disegni.

Dopo questo exploit, due anni più tardi, nel 1956, Mario Giansone partecipa alla settima Mostra d’Arte Moderna di Torre Pellice, e a Torino, nel maggio 1958, ritorna alla Promotrice, 115a Esposizione Nazionale in Palazzo Chiablese quando, nella sala IV della rassegna sono presentati, in due lotti, dei Vecchi studi in pietra e una Scultura in legno. Dal dicembre dell’anno successivo sino all’aprile 1960 l’artista manda all’ottava Quadriennale Nazionale d’Arte di Roma la pietra Circo a due dimensioni, esposto nella quarantunesima sala («Bianco-nero» e «Scultura»). A fine primavera 1960 è presente all’Esposizione Nazionale della Società Promotrice al parco del Valentino: nella prima sala figurano due sculture dall’identico soggetto, Gatto rosso e Gatto nero, la prima in porfido, l’altra in serpentino.

La personale del 1965 alla Bussola, nel mezzo secolo esatto di vita dell’artista, offriva i suoi raggiungimenti intellettuali ed espressivi non consentendo, tuttavia, di documentarne l’evoluzione cronologica; bensì solo il provvisorio traguardo di un lungo percorso creativo: però senza evidenziarne le tappe, la filosofia e le sperimentazioni pregresse, coagulandosi nella pur varia tipologia, di una teorizzazione plastica che nasceva da lontano, a monte degli esiti della prima metà degli anni Sessanta; trascurando, si direbbe intenzionalmente, il non detto, le varie tappe di una ricerca ideologica-poetica di due decenni abbondanti, la meccanica e la meditazione nel tempo su quegli antefatti, solo parzialmente rintracciabili. La mostra sembrava cioè sostanzialmente escludere il «trascorso» dell’artista per fare il punto sulle conclusioni ultime di una ricerca e di una sperimentazione sofferta, meditata e necessaria a meglio giustificare la sorpresa del presente e indispensabile, forse a guidare nel giusto senso (per esso intendendo il complesso pensiero dell’autore) la comprensione visiva e poetica dei visitatori.

Era stata sì una mostra «suggestiva», come l’aveva definita Marziano Bernardi. E, occorre sottolineare, in perfetta sintonia con le sculture esposte risultavano gli ambienti rinnovati della Galleria La Bussola, secondo l’allestimento dei loro progettisti, l’architetto di Treviso Roberto Graziosi e l’ingegnere torinese Francesco Mancini, entrambi in lunga relazione con Giansone (conosciuto nello studio dell’architetto Aldo Morbelli da Mancini sin dalla fine degli anni Quaranta), e assidui frequentatori degli studi e laboratori dello scultore.

Nel 1966, quale curatore del Catalogo Bolaffi dell’Architettura italiana 1963-1966, tra le 320 architetture scelte, opera di 226 progettisti, a registrazione fedele e meditata di una specifica situazione di notevole creatività, avevo selezionato solo due allestimenti: quello torinese di Giansone alla Bussola e il secondo di Danilo Santi e Leonardo Savioli per la mostra Firenze ai tempi di Dante alla Certosa del Galluzzo, entrambi del 1966. Per Giansone avevo scritto (pp. 284-285) che «il tema particolarmente impegnativo di presentare un considerevole numero di opere in bronzo, legno e pietra, talune di mole e peso ingenti (fino a 4-5 quintali), in uno spazio ristretto, consentendone nel contempo un rapido e facile montaggio e smontaggio, è stato risolto senza l’uso di opere infisse ricorrendo ad una intelaiatura di tubi per costruzione, formata da montanti accanto alle pareti e traversi sotto il soffitto, con funzione i primi di sostegno delle opere, i secondi di controventamento, di appoggio per le luci e di limite all’occhio sul piano verticale. Pavimenti in moquette grigio-scuro, pareti in juta colore naturale, soffitti marrone scuro, tubi in ferro colore naturale».

Per la mostra, che fece epoca, fu pubblicato uno splendido e assai curato volume-catalogo. Dell’impostazione e della grafica si occupò personalmente Giansone, sin dal 1963 orientato ad avvalersi, pur nella sua quasi assoluta diffidenza verso chiunque, dei consigli e delle esortazioni di Ezio Gribaudo, in qualità di direttore delle Edizioni d’Arte dei Fratelli Pozzo. Poiché desiderava una presentazione adeguata, ma si riteneva osteggiato e incompreso dall’ambiente torinese, fu lo stesso Gribaudo (dopo la prima proposta, scartata, di un saggio di Carluccio) a fargli il nome di un critico d’arte particolarmente sensibile all’espressione plastica: Giuseppe Marchiori che, ovviamente, neppure conosceva Giansone. Ma, venuto a Torino su invito di Gribaudo e vista la produzione plastica e l’evidente temperamento dello scultore, non si limitò a scrivere quella «presentazione», ma lo fece subito invitare alla Biennale di Venezia del 1966: opportunità non sfruttata, giacché Giansone non intese accettare di esservi rappresentato solo da qualche opera.

Del pari non seppe o non volle cogliere la concreta possibilità di approdare alla prestigiosa vetrina della veneziana Collezione Guggenheim. Gli stessi Gribaudo e Marchiori gli avevano spianato la strada, anche se non si sarebbe trattato di una vendita ma di un omaggio, a titolo gratuito. È da notare come Peggy Guggenheim si fosse «innamorata» della cancellata degli Ideogrammi plastici sul tema del jazz, frutto sia del genio dello scultore che del montaggio di venti bronzi distribuiti sull’intreccio di tubolari di ferro disegnato, per la presentazione dell’insieme, da Francesco Mancini.

In quanto a Marchiori, che pure aveva generosamente accettato l’incarico della presentazione con un testo succoso e tutt’altro che di circostanza, ancorché non aderente alle motivazioni ideologiche, intime e sofferte del percorso di Giansone, lo scultore stigmatizzò su un foglio a stampa, inserito a fine mostra ripiegato e incollato tra le due fitte pagine del testo critico, la riproduzione di un proprio manoscritto sul «tempo modulare»: «opera solo da capire ciò che Giuseppe Marchiori non ha capito e con lui altri».

La grandiosa personale a La Bussola comprendeva, oltre una ventina di sculture in pietra e assai più in legno (con l’aggiunta di altrettante stampe da esse tratte, grandi matrici per xilografie), una dozzina di disegni «modulari» e tutta una serie di piccoli bronzi – circa una ventina – sul tema del jazz, distribuiti su un reticolo di tubolari di ferro: l’opera che Peggy Guggenheim avrebbe volentieri esposto nella propria collezione veneziana. Specie per i non «addetti ai lavori», l’exploit del 1965, quasi l’improvvisa rivelazione di grande personalità e talento, di una maturità artistica sorprendente, costituì un unicum. Altre personali Giansone non ne fece, sempre più impegnato nella ricerca e nella sperimentazione (dopo la «teoria modulare», negli anni Ottanta la «teoria delle tangenti»), gratificato forse dalle proprie certezze e per nulla interessato a verifiche pubbliche, confronti e giudizi. L’artista finì per isolarsi nel proprio lavoro, limitando al massimo le occasioni espositive ad assai sporadiche comparse: le partecipazioni alla Quadriennale torinese del 1968, alla rassegna d’arte moderna nel Foyer del Teatro Regio, sempre di Torino, organizzata dal Goethe Institut nel 1974 e a due collettive del 1988 (Torino) e del 1995 (Collegno).

Fare scultura. Per Giansone era un lusso che gli costava caro: acquisto di legni pregiati, scelte sofisticate di pietre e di marmi, le fusioni in bronzo e l’aiuto indispensabile di manodopera e di facchinaggio per i trasporti e gli spostamenti nell’atelier, l’onere dei locali di lavoro che ospitavano le sue opere; non ultimo, l’esigenza di studio e di ricerca dei propri lavori che affidava alla fotografia, da tutti i punti di vista, anche i più impensati e in tutte le condizioni d’illuminazione (sino a una dozzina di scatti diversi per ogni soggetto), servendosi di fotografi di professione di grande talento quali Francesco Aschieri, Elirio Invernizzi e Roberto Chiesa. Le numerose fotografie, nelle quali Giansone voleva si cogliessero tutti gli aspetti, specie i più reconditi e suggestivi, delle proprie creazioni, per l’autore assumevano significati oltre la semplice documentazione: di verifica, non disgiunta dai suggerimenti che se ne potevano trarre per opere a venire; e, in più, invito e guida del modo di guardare quanto realizzato.

Istintivamente e caratterialmente lo scultore amava vivere in mezzo alle proprie creazioni e non avrebbe mai voluto privarsene. Tuttavia, benché potesse contare sull’aiuto costante del fratello, l’unica fonte certa di reddito proprio era lo stipendio d’insegnante, dal 1946 al 1948 di Anatomia all’Accademia Libera di Belle Arti di Torino. Poi, e continuativamente dal 1956 (anno di fondazione) al 1985 (data del pensionamento) all’Istituto Statale d’Arte diretto da Italo Cremona. Giansone vi ricoprì la cattedra di Ornato e di Figura modellata sino al 1961; dal 1962 quella di Disegno dal vero e di Educazione visiva, con l’incarico suppletivo di vicepreside sino al 1975.

Qualche riconoscimento pratico per i suoi lavori lo ebbe in incontri favoriti dalla presentazione a collezionisti importanti e facoltosi da parte di amici ed estimatori quali gli architetti Morbelli e Graziosi, l’ingegnere Mancini, il collega artista Ezio Gribaudo. Poté così alienare bene alcune opere, comprese quelle acquistate dalla SAI.

Caratterialmente però, potendolo, Giansone avrebbe preferito tenere tutto per sé e ogni vendita finiva inesorabilmente col risolversi in un duraturo rammarico. Qualche entrata gli venne anche dall’incarico della realizzazione di cinque tombe, cronologicamente scalate tra la fine degli anni Quaranta e il 1985, quattro nel Cimitero Generale di Torino e una nel camposanto di Pino Torinese; dalla vittoria nel concorso per la Santa Cecilia dell’Auditorium RAI di via Rossini a Torino, nei primi anni Cinquanta, e dalla scultura nella Scuola degli Edili, sempre a Torino, dopo la vittoria nel concorso del Cipet del 1980.

Quando Giansone lasciò questo mondo, l’8 gennaio 1997, appena due settimane lo separavano dall’ottantaduesimo compleanno. Ma quasi nessuno se ne accorse, ad eccezione di Marco Rosci, sebbene tardivamente, su La Stampa del 20 gennaio (Giansone, rabdomante della scultura): forse perché Piergiorgio Dragone, negli anni Ottanta, già aveva pensato di dedicare all’artista un’antologica dopo aver visitato il suo «studio delle pietre» proprio insieme a Rosci, che avrebbe dovuto occuparsene. Ma, per varie ragioni, non se ne fece nulla.

Quasi a risarcimento dell’emarginazione critica sofferta, nella propria città, dallo scultore ormai passato a miglior vita, non fu essa, in cui era nato, a rendergli omaggio: o lo fece marginalmente dal 24 luglio al 24 agosto 1997 nella mostra alla Fondazione Italiana per la Fotografia con alcuni ritratti fotografici di Giansone, accanto a sue creazioni e a oltre una settantina di foto su una decina di soggetti. Tutti scatti dei «suoi» fotografi (per eccellenza, Francesco Aschieri, Roberto Chiesa ed Elirio Invernizzi); in più, due sculture: una Testa in arenaria del 1946 e il bronzo-cemento-ferro Macchine in pista del 1976.

Fu invece la Civica Galleria d’Arte Contemporanea Filippo Scroppo di Torre Pellice a sanzionare il sino a oggi maggior evento celebrativo di Giansone, dal 27 luglio al 28 settembre 1997, con la rassegna monografica Mario Giansone scultore a cura di Piergiorgio Dragone: ricca di 145 numeri di catalogo che documentavano tutti i soggetti e le tecniche esecutive, oltre che delle sculture, di tempere, chine, ecc., insieme a cinque libri fotografici confezionati dall’autore. Particolarmente preziosa, per una conoscenza più ravvicinata del personaggio, la serie di venti testimonianze e memorie su Giansone di amici, colleghi d’insegnamento, allievi, raccolte da Dragone nel catalogo. La 155a rassegna della Promotrice torinese, infine, nel settembre dello stesso anno, concluse la serie delle celebrazioni giansoniane ospitando, del defunto artista, il porfido Il circo a due dimensioni, 1955, esposto nel 1959 alle Quadriennali di Torino e di Roma; l’onice e ferro Donna con cani, della metà anni Settanta; il granito rosso di Svezia Molteplicità univoca delle identità, 1987.

Giansone, non solo scultore di profonda originalità e di elevatissima capacità tecnica; insieme pittore, grafico e orafo straordinario – e come non ricordare, nel complesso di una inesauribile esplorazione dell’universo artistico, anche le sperimentazioni tarde sull’arazzo, con variazioni di effetto, di colore e di materia a seconda dell’illuminazione? – dopo la personale alla Bussola era pressoché scomparso dalle cronache artistiche per rifugiarsi progressivamente nella solitudine, nell’isolamento di un mondo tutto suo e solo a proprio agio nell’insegnamento, ancorché tante volte ricordato dagli allievi, che lo amavano, come catturante, fascinoso, suggestivo, ma sempre più ermetico e intellettualmente inavvicinabile.

Uomo difficile, quindi, e tanto più quanto maggiormente e progressivamente attratto dalle curiosità e dalle esperienze misteriose del paranormale, dello spiritismo e dell’ultraterreno, nella speranza di trovarvi le gratificazioni che gli erano mancate. Il ricordo di quanti conobbero e frequentarono Giansone verte sovente sulle sedute spiritiche e gli incontri medianici con i trapassati, le «interrogazioni» allo «spirito guida» et similia: un vezzo radicato e molto «torinese», della «città magica» e delle sorprendenti quanto ben note doti di Gustavo Rol.

Progressivamente, negli ultimi anni di vita, l’artista, amareggiato dall’isolamento a cui si sentiva condannato (ma in cui si era voluto egli stesso trincerare), nella propria ricerca di «ultraterreno» parve sottrarsi completamente, o quasi, al proprio tempo, al di fuori della realtà contingente. È evidente come le insistenti domande a chi è «senza forma», se l’anima una forma l’avesse, si arenassero nei meandri dell’incomprensione. Il suo frequentare le sedute spiritiche rappresentava un’impossibile fuga verso un mondo misterioso, tentante e «alternativo» a quello reale.

Dal 18 dicembre 2015, anno centenario della nascita di Mario Giansone – e sino al 15 febbraio 2016 – una recente postuma ne ha illustrato la complessa personalità di artista e di maestro a Torino, proprio nei locali di via della Rocca, ora Liceo Artistico Aldo Passoni, in cui aveva trascorso buona parte dell’esistenza. «Ci sono pagine meravigliose di Enrico Thovez in cui scrive che è felice di essere nato a Torino, perché Torino scoraggia le arti. Se tu hai una vocazione artistica, Torino fa di tutto per scoraggiarla e per farti cambiare idea, ma se tieni duro, allora vuol dire che sei davvero un artista. Invece una città che incoraggia tutti e dove tutti sono creativi non può funzionare, perché non capirai mai se è quello il talento su cui puoi puntare davvero». Così Bruno Gambarotta, in Mal di Torino di Fabrizio Vespa (Torino, Espress Edizioni 2012, p. 182), e la vicenda di Giansone ne è probante conferma.

Testo di Giuseppe Luigi Marini