“In una villa allato della città di Firenze, la quale si chiamava Vespignano, nacque un fanciullo di mirabile ingegno lo quale ritraeva dal naturale una pecora... ”: incomincia così la biografia di Giotto scritta dallo scultore fiorentino Lorenzo Ghiberti, nel suo secondo libro dei Commentarii, una storia dell’arte dal tempo dell’imperatore Costantino sino ai contemporanei. L’opera fu scritta verso la metà del Quattrocento, a più di cento anni dalla morte del grande pittore. “Un giorno - apprendiamo da questo scritto - passava per quei prati, dove il piccolo Giotto pascolava le sue pecore, il grande Cenni da Pepi, più noto come Cimabue, il quale appena vide il pastorello disegnare con tanta maestria l’animale, ne comprese l’indubbio talento e lo volle portare alla sua bottega per istruirlo nell’arte del dipingere”.

Peccato, però, che non sia vero niente! Proprio come non sono vere storie come quella del famoso O che Giotto disegnò in maniera perfetta senza alcun ausilio oppure l’altra, della mosca disegnata su un dipinto del suo maestro, tale da sembrare viva. Ovviamente rimane la grandezza del pittore e, come vedremo, anche la sua arte non secondaria di far denaro.

Le origini di Giotto
Ricostruire la vera biografia di Ambrogio Bondone, questo era il vero nome di Giotto, è impresa assai complessa per la scarsità di indizi. Nonostante abbia frequentato molti luoghi d’Italia, non ha lasciato in genere una traccia diretta della sua presenza: scarsi i documenti, nessuna lettera, solo alcuni contratti di lavori e testimonianze di autori a volte di molto posteriori. Così anche la data della sua nascita non è accertata. Per alcuni, come il poeta trecentesco Antonio Pucci, Giotto venne alla luce nel 1267, una data approssimativa perché i registri battesimali furono istituiti a Firenze solamente nel XV secolo e fino ad allora non si avevano censimenti scritti per le nascite (figuriamoci poi per una famiglia appartenente al popolo minuto!).

Se determinare la data di nascita dell’artista è un problema, ancora più complessa è il sapere dove è nato. Secondo alcune fonti nacque in una piccola frazione di Vespignano, chiamata Colle, presso Vicchio di Mugello, mentre per altri a dargli i natali fu proprio Firenze, la sua città (dunque, in tal caso, non solo d’adozione). Troviamo, infatti, un Bondone fabbro nella città dell’Arno nel 1267, anno della presunta nascita di Giotto e questo convaliderebbe un'altra “leggenda” sull’incontro con Cimabue. Lasciata la storiella del pastorello che disegna armenti, sembra che il giovane Giotto già visitasse la bottega di Cimabue, sita in una strada vicino a Santa Croce, dove abitava con la famiglia. Il ragazzo rimase affascinato dai colori e dalle forme che nascevano sulle tele del maestro e dei suoi allievi e fu proprio questa curiosità che lo fece entrare come giovane apprendista nella rinomata bottega, divenendo, in breve, l’allievo preferito del grande artista, tanto da far dire a Dante: "Credette Cimabue nella pittura tener lo campo, ed ora ha Giotto il grido, si che la fama di colui è scura" dal Purgatorio XI, 94- 96.

Ma com’era Giotto, come si presentava la sua figura? Di certo aveva un aspetto piuttosto sgraziato, il Petrarca lo definisce tra gli artisti più brutti della sua epoca e per molti novellieri dell’epoca, come il Sacchetti e il Boccaccio, fu un soggetto ideale per le loro storie. Giotto, infatti, aveva fama di uomo di spirito, dalla battuta veloce e salace, ma - questo detto - era anche un uomo concreto specialmente negli affari, per i quali aveva un estro tutto particolare, come per i suoi lavori d’arte.

Gli affari
Curiosamente, tra i primi documenti certi sul grande artista, non c’è l’attribuzione di una pala d’altare o di un affresco, ma l’atto di acquisto del 1301 di una casa a Firenze, presso Porta Panzini, zona all’epoca piuttosto popolare. La casa fu pagata con i soldi guadagnati per gli affreschi ad Assisi e quelli dipinti a Roma durante il pontificato di Bonifacio VIII, in occasione del primo Giubileo del 1300. Vero uomo d’affari, Giotto aveva investito con ottimo profitto molti dei suoi proventi in terreni. Nel 1312 acquistò un telaio per affittarlo in seguito a un lavorante a domicilio di nome Bartolus Rinuccii che, come molti in quei tempi, prendeva in prestito i telai dagli imprenditori dell’Arte della Lana, a condizioni e accordi differenti. L’idea del telaio probabilmente gli venne dal mestiere che secondo alcuni avrebbe svolto ancora giovanissimo nell’arte della lana. A suffragare questa ipotesi c’è anche la meticolosa raffigurazione di soggetti intenti a lavorare e a filare la lana che l’artista ripropone negli affreschi della storia di sant’Anna a Padova e nelle lunette del Campanile del Duomo di Firenze.

Non solo. L’idea di Giotto ancora fanciullo mandato a imparare l’arte della lana, è riportata anche dall’Anonimo Fiorentino, famoso biografo del XIII secolo, il quale affermava che dove vivevano i Bondone c’erano anche molte botteghe di tessitori. Forse è questo uno dei motivi per cui il pittore, già avanti negli anni, investì molto denaro nell’industria della lana. Era un vero affare per l’epoca. Ricordiamo che il profitto annuo sul tessile, di cui Firenze era la capitale, poteva raggiungere il 120% del capitale impegnato. Un altro affare di Giotto, in merito alla compravendita di terreni, lo apprendiamo da alcuni atti notarili redatti nel 1334, tre anni prima di morire, mentre si trovava nuovamente a Firenze. Documenti del 18 ottobre di quell’anno testimoniano, infatti, un contratto stipulato con un tale Justus Torri. Si trattava di un appezzamento, ubicato nei pressi della Parrocchia di San Bartolommeo, che lo Justus vendette a Giotto per poi riprenderlo da questi in affitto. In tal modo si investiva denaro, aggirando il divieto ecclesiastico del prestito a interesse, il tutto con reciproca soddisfazione economica. Niente male per chi come Giotto si professava devoto di San Francesco, il poverello d’Assisi.

Investire denaro, aprire attività nuove e redditizie, non era facile però nella Firenze del tempo, anche per un artista della sua notorietà. Nonostante la fama acquisita fin da giovane e i suoi redditizi investimenti economici, pur tuttavia per la legge comunale era ancora considerato sotto la tutela del padre. In proposito è importante un documento notarile datato 3 dicembre 1311, nel quale viene citato come “Giottus filius emancipatus Bondonis pictor de sancte Marie Novelle”, dove il vocabolo emancipatus rimanda alla piena capacità giuridica e lavorativa del soggetto. All’epoca se un padre e un figlio non stipulavano di comune accordo l’atto giuridico dell’emancipazione con tanto di protocollo, tutti i diritti e i doveri rimanevano al padre. La maggiore età era un traguardo da negoziare col padre, altrimenti la si otteneva solamente alla morte del genitore. Finalmente, alla “giovane” età di 44 anni, Giotto potè essere considerato una persona giuridica autonoma.

La famiglia
Non bisogna, però, pensare a Giotto come a un avido di soldi. Come ogni buon padre di famiglia non esitava a fare tanti sacrifici e il lavoro certo non gli mancava. D’altronde aveva ben otto figli, quattro femmine e quattro maschi avuti da Ciuta di Lapo del Pela sposata nel 1288 (alcune fonti riferiscono solo di cinque o sette figli). Mantenere una famiglia così numerosa non era certo uno scherzo. Comunque tre figlie fecero dei buoni matrimoni, grazie alle sostanziose doti che il padre aveva loro fornito: Caterina, la figlia prediletta, sposò il pittore Rico di Lapo e ospiterà nella sua casa il padre, ormai anziano, durante i lavori del famoso Campanile di lato al Duomo. Solo la più piccola rimase nubile, ma sempre con una buona dote, divenendo una pinzocchera, cioè restando in casa con l’abito religioso.

Dei maschi sappiamo solo che due di loro avevano curiosamente lo stesso nome di Francesco, ma con destini ben differenti: il primo seguì le orme paterne divenendo pittore e l’altro si fece prete, diventando in seguito priore di san Martino a Vespignano, la probabile città natale dell’artista. Certo, questa località doveva essere assai cara a Giotto: vi soggiornava spesso, oltre che per la salubrità del luogo, anche per curare alcuni appezzamenti di terreno e una casa, forse ereditata dai genitori.

L’opera
Anche per quanto riguarda l’attività artistica di Giotto le notizie non sono sempre conosciute; ci rimangono, è vero, le sue pitture, ma non sempre è facile collocarle cronologicamente o determinarne la paternità. Ad esempio, per le pitture dedicate alla vita di san Francesco che affrescano la chiesa superiore ad Assisi, sono state notate alcune incoerenze formali e stilistiche in diverse figure che non sembrano nate dall’ingegno del grande artista, che pure sovrintendeva all’intero ciclo. Di questa sua permanenza assisana, pur così importante, non ci è rimasta alcuna cronaca, se si eccettua la testimonianza dello scrittore suo contemporaneo Riccobaldo da Ferrara, che assicurava, tra l’altro, di un soggiorno dell’artista ad Assisi alcuni anni prima per altri lavori. Un'altra informazione su questo periodo ci è fornita dal Vasari, a quasi duecento anni da quegli avvenimenti, che narra l’incontro con il generale dell’Ordine dei frati minori, fra' Giovanni di Muro, che convinse Giotto, riluttante ad accettare l’offerta a causa dell’ampiezza dell’opera, a raccontare visivamente le storie di Francesco e della sua vita miracolosa, ancora vive nel popolo, essendo morto il Poverello appena settant’anni prima, nel 1226.

Anche dei soggiorni romani, fondamentali per la sua carriera, sappiamo assai poco. La data più antica che possediamo risale al 1298 e riguarda la Navicella, il grande affresco che un tempo decorava l’atrio della basilica costantiniana di San Pietro a Roma, oggi andata perduta completamente. Solo nella basilica di San Giovanni in Laterano è conservato, tuttavia, un piccolo frammento, forse attribuibile a Giotto stesso, che raffigura Bonifacio VIII mentre indice il primo Giubileo. Un affresco che certamente faceva parte di un ciclo ben più vasto. Il soggiorno a Roma e il rapporto con la Curia furono indubbiamente vantaggiosi per il giovane artista appena trentenne, tanto che entrò nelle grazie del potente cardinale Stefaneschi, suo mentore per i lavori in san Pietro e fu ricompensato, come si rileva da un contratto, con quindicimila fiorini d’oro, circa un milione di euro attuali (almeno secondo alcune stime).

L’unica nota certa di questo soggiorno ci viene data da una causa legale che lo stesso Giotto intentò contro una certa Filippa de Riti, sua padrona di casa durante la permanenza romana, la quale, ancora nel dicembre del 1313, quando ormai l’artista era tornato a Firenze da molto tempo, si tratteneva alcuni suoi oggetti, tra cui biancheria intima e lenzuola con la scusa di non essere stata pagata. Come sia finita questa controversia non lo sappiamo, ma presumiamo bene per Giotto, che aveva incaricato di quest’azione legale i migliori avvocati di Firenze.

Il nostro non era certo nuovo alle cause giudiziarie per interesse economico; sappiamo, infatti, di una serie di speculazioni con relative cause avviate nell’anno 1311 con un collegio di ben dieci avvocati per difendere i suoi investimenti finanziari. Per far soldi e investirli bisogna lavorare e per Giotto le commesse ormai non erano certo un problema. Era tale la sua fama che venne chiamato a lavorare anche fuori Firenze, nell'Italia settentrionale, a Padova per realizzare il suo capolavoro: il ciclo pittorico nella Cappella degli Scrovegni. Un avvenimento eccezionale per l'epoca dove si preferiva far lavorare gli artisti locali. Giotto, come racconta il già citato Riccobaldo Ferrarese, fu chiamato per avviare nuove opere anche a Rimini, a Bologna e a Milano, tutte purtroppo andate perdute.

Riguardo al capolavoro degli affreschi padovani sulla vita di Gesù sappiamo solo che furono compiuti tra il 1312 e il 1313, forse un periodo troppo breve per un’opera così grandiosa: è possibile, come pensano alcuni, che l’opera fu proseguita anche in questo caso dai collaboratori della sua bottega d’arte che aveva portato con sé a Padova. Nel 1312, poco prima di partire per la città euganea, si iscrisse alla corporazione dei Medici e degli Speziali, che comprendeva anche i pittori, per la loro conoscenza della chimica al fine di realizzare i colori adatti alle loro opere. È questo, forse, il periodo più ricco di soddisfazioni per l’artista, sia in famiglia che artisticamente, come dimostrano anche le lodi da parte dei suoi concittadini.

Un piccolo episodio può spiegare meglio l’ammirazione che lo circondava. Narra una breve cronaca che un certo Rinuccio di Puccio, assiduo della chiesa di santa Maria Novella, lasciò nel testamento l’obbligo di tenere sempre accesa una lampada davanti al Crocifisso dipinto da Giotto, un omaggio anche al genio dell’artista, indicato come "Egregium pictorem nomine Giottum Bondonis". La fama di Giotto si amplificava sempre più, tanto che l’artista ormai sessantenne fu richiesto a Napoli nel 1329, alla corte del re Roberto d’Angiò, con tutta la sua numerosa bottega. Il re ebbe subito per l’illustre fiorentino un atteggiamento di grande generosità nominandolo “famigliare” e primo pittore di Corte e, come se ciò non bastasse, gli assegnò anche un cospicuo vitalizio. Del breve periodo presso la Corte partenopea abbiamo notizia di un grande affresco, la Lamentazione sul Cristo Morto, presso il convento di santa Chiara, andato sfortunatamente perduto, e la rappresentazione di uomini illustri negli strombi delle finestre della Cappella di santa Barbara nel castello del Maschio Angioino che per la loro discontinuità artistica hanno fatto pensare, anche questa volta, che fossero opera più della sua schola.

Sempre durante questo soggiorno alla Corte di Napoli, fu protagonista, forse involontario, di una disputa teologica - in cui fu coinvolto lo stesso re - che si accese tra i francescani e la Corte papale riguardo alla povertà evangelica e alla necessità di ritornare a una vita più morigerata contro lo sfarzo della Chiesa d’allora. L’episodio riveste una particolare importanza, perché abbiamo la sola traccia scritta dallo stesso Giotto proprio sulla controversia grazie a una sua poesia, forse l’unica dell’artista, che si schierò contro la povertà sentita come odiosa perché rovina la virtù delle fanciulle e costringe anche l’uomo dabbene a compire delitti e prepotenze. Eccone un breve passo:

Di quella povertà ch’è
non è da dubitar ch’è tutta ria;
che di peccare è via,
facciendo spesso a’ giudici fa
e d’onor donna e dam
e far furto, forza, e villania,
e spesso usar bugia,
e ciascun priva d’onorato stallo.
E piccolo intervallo,
mancando roba, par chè manchi senno

Le due versioni rimaste (la più antica risale attorno al 1400) recano le intestazioni Chançon Giotti pintori di Florentia e Giotto di Firenze (anche qui non tutti concordano sulla paternità dell’opera). Ormai Giotto era un personaggio troppo importante e di gran prestigio per Firenze e il Comune fece di tutto per farlo tornare in patria staccandolo da Napoli. Al suo ritorno fu nominato Magister et Gubernator dei cantieri del Duomo e responsabile Constructionis et Perfectionis Murorum Civitatis Florentie et Fortificationis Ipsius Civitatis ac Aliorum Operum dicti communis.

Gli ultimi anni
Un documento redatto a Firenze il 12 dicembre 1335, indica Giotto ancora in piena attività presso l’Opera del Duomo: Giotto Bondonis pittore compare come testimone nel contesto del versamento di una modesta pia donazione al vice-tesoriere dell’Opera. L'ultimo lavoro fiorentino terminato dell’artista fu la Cappella del Podestà, un ciclo di affreschi che riproduce le Storie della Maddalena e Il Giudizio Universale. In questo ciclo troviamo, tra l’altro, il famoso e più antico ritratto di Dante Alighieri, dipinto stranamente senza il tradizionale naso aquilino. Nonostante fosse in piena attività (ricordiamo il lavoro presso la fabbrica del “suo” Campanile) l’età e la salute cominciavano a farsi sentire. Per non affaticarsi a spostarsi dalla sua casa al cantiere, venne ospitato dalla figlia Caterina che abitava presso il Duomo.

Purtroppo, non riuscì a vedere il suo Campanile completato. Morì a Firenze l’8 gennaio 1336, ma la data della sua morte ha la stessa incertezza, come abbiamo già visto, di quella della nascita. Infatti il Pucci afferma nel suo poema che Giotto è morto nel 1336 all’età di settant’anni. Il Giovanni Villani autore della Nova Cronaca, scritta tra il 1322 e il 1348, riporta la data della morte avvenuta alla fine del 1337, secondo il calendario fiorentino prima della riforma gregoriana. L’unica certezza è che fu compianto dall’intera Firenze e venne sepolto nella chiesa di Santa Reparata, dove oggi sorge il duomo di Santa Maria in Fiore, con una cerimonia solenne a spese del Comune, lasciando figli e moglie con cospicue rendite e vitalizi.