La Nature est un temple où de vivants piliers
Laissent parfois sortir de confuses paroles;
L'homme y passe à travers des forêts de symboles
Qui l'observent avec des regards familiers.

Comme de longs échos qui de loin se confondent
Dans une ténébreuse et profonde unite,
Vaste comme la nuit et comme la claret,
Les parfums, les couleurs et les sons se répondent

Chi è colui il quale squarcia il Velo? Chi sorge dalla Caverna della Morte e invita ad ascendere le scale lignee? Mentre i pilastri biforchi c’indicano le strade, quale creatura in incubazione sta per aprire la porta della vita? Quale evento squarcia la zolla di terra risalendo i sentieri che s’intrecciano?
Sospinta dall’osso sacrale alle vette astrali, quale cosa nasce dalle grandi acque?
Il seme dei gemelli divini, la loro coscienza mercuriale: il frutto della loro unione. Le forze sonnecchianti sono risvegliate dalla fiamma ermetica che solleticata dai serpenti ignei risale verso il sole. Il risvegliato è figlio di consanguinei, di Notte e Giorno è figlia. È la sizigia Egli/Ella.
Nasce così l’Anima… dall’uovo cosmico come spiritus mundi, come bambino alato e incoronato.

Mirabilia dell’increato. Questi, i racconti del viaggio cosmogonico dell’aurora animica.
È la natività pagana che si registra dalla tomba. Un invito alla catabasi. In un antro oscuro la natura mostra i suo abiti, le sue due facce, che si moltiplicano in mille volti, le maschere con cui gioca la Maya. Così ci alletta a scendere giù nelle viscere, a toccare l’inesistente fondo del fondo. A girare a vuoto nel labirinto senza uscita, in tondo. Un essere boschivo che ha scritto sulla pelle il mantra degl’infiniti mondi, che s’espande con gli anelli d’un antichissimo tronco d’albero, come i cerchi nel grano d’una nostrana forma aliena, lo straniero universale: l’artefice naturale che ci gioca dentro.

Conchiuso il vaso mai pieno, mai vuoto, la/o accoglie infante, senza parola, tutto spirito immanente e ingannevoli sensi. Nella giostra di sorgente che lo culla nel sonno profondo, su e poi giù, e ancora e ancora giù e di nuovo in su… come una trottola gira nel cuore e frulla nella mente dei dormienti.
A una certa ora della notte quando è quasi luce, prima dell’alba s’addentra girovago nelle stanze, facendo come un ronzio d’orecchi, ti ricorda della luce, ti rammenta della caduta e butta giù dai letti inamidati di sudore e rugiada, di lacrime e perversione. Così al risveglio sgattaiola con le lenzuola, lasciandoti stordito e pronto a ricominciare nudo come un verme. Lasciato l’eden da incubi, ti catapulta nell’inferno dei redivivi con una scia di ricordo lungo i corridoi, un profumo di terra bagnata, di tartufo che fiuti tutto il giorno come un maiale al guinzaglio. A caccia del suo odore, di ciò che ha bisbigliato riempiendoti di polvere gli occhi aperti, t’accompagna fino alla ricaduta.
Chiuso lo sguardo, chiuse le imposte delle finestre, sbarrate le porte ti riaccompagna nel silenzio a far la nanna, come un custode diavoletto t’incatena l’anima alla sua suscettibilità.

Così quando il cielo è di lavanda e il cuscino da feretro vien deposto, ricomincia la giostra. Ci si risveglia sempre uguali e sempre diversi, come per incantesimo. E si sente di aver viaggiato così a lungo, di aver visto così tanti paesaggi, da essere stanchi, da essere morti, da essere santi.

Mirabilia dell’increato.
Le avventure d’un pensiero apparentemente disconnesso, in attesa come spento.
Chi agisce nella pausa tra noi e il mondo che russa? In questo fermo immagine che ossessiona le notti di stelle pulsanti, insegne al neon e vecchi pali della luce?
S’avvicina leonina la creatura e ci salta sul petto, tamburellando canti ancestrali. Racconta di Madri e di Padri, d’avi d’Africa, dei sapienti d’Oriente, delle aquile e dei serpenti d’America, delle navi e dei venti australi, delle aurore boreali, delle nubi purpuree, dei buchi gravitazionali…
E torniamo alla chiarezza del mattino che acceca. Con quest’esserino nel grembo che ci solletica di fame di conoscenza. Di chi è Figlia/o quest’animale animico che ci tormenta proteico e di cui siamo la monstruosa prole? O ne siamo immondi genitrici? Siamo, forse, noi la sua fonte?
È forse il mio cuore malato l’origine della sua sopravvivenza, della sua stessa esistenza, della sua unica ragione di non-vita?
Molteplici le domande, come le risposte, come tutte le sue forme epifaniche senza risoluzione.
Vagheggianti vaneggiamenti.

Questo è solo un flusso di coscienza. Il mio personale ‘circo volante’. La mia triste fanfara che fa delle parole una baraonda di genti, di cose, d’oggetti come soggetti, di soggetti come di suppellettili.
Individui da mobilio ripescati dai robivecchi, grigi come il tempo, e nani da giardino, sottratti alla miniera, unti dalle mie profondità, scoloriti dalle mie cavernosità, porosi come le mie spugne oceaniche. Questi seni gonfi, queste fianchi grassi, queste ovaie spente seppur pulsanti come gli occhi del cielo. Le mie bassezze che richiamano tutte le altezze. Che urlano alle vette dei ricordi.
Questi feticci immacolati, compagni notturni, spettri diurni. I templi sono stati eretti per tenere fuori il tempo da essi. Non c’è spazio per il prima, né per il dopo. Un tempio per ogni eterno presente: questa festa di statue in movimento, di maschere morte. Coriandoli neri sui tetti delle case, polvere di meteore e caminetti fumanti. Vulcani di Marte e monti di Venere, gas e crateri, acqua. Sete.

Il bambino/a si dimena con un beat d’ala di scarafaggio. Frinisce come le cicale, frigna per uscire. È un mangiatore d’uomini. Si fa strada tra le carni, discosta le viscere, scava, annusa sceglie se ne ciba, ti rimastica, come a casa da padrone. E ad ogni ‘ora del lupo’ si fa strada per uscire, spinge contorcendosi fetale. L’aborto giornaliero. La ricerca è ardua, il cammino perenne delle nevi, della pelvi. Per ogni creatura che nasce, per ciascuna che muore, l’essere increato si fa sempre più forte.

Il gigante nel suo uovo fa la sua cova lunga ed estenuante, per ogni risveglio che sembra non arrivare mai ex n·ovo. Il titano-dragone cerca ancora la via d’uscita, la chiave per abbattere il muro e scagliarsi in frantumi nell’universo. Siamo i brandelli della sua vecchia pellaccia.
Quando mi ricopro di squame percepisco d’averlo vicino. Il fuoco brucia nel sangue e scorre per le vene come acqua dissetante, l’aria soffia e sa di terra decomposta. Più subodoro la fine più mi sento viva. E allora so che s’avvicina il suo risveglio, con la mia nigredo.
Un mistero, il viaggio.

Mirabilia dell’increato.
E mi meraviglio sempre nella chiarezza muta della morte, con la sua notte eterna, le sue foglie cadute, i suoi salici piangenti, i suoi stagni, il tuo sapore imbalsamato d’oli e spezie, Anima mia.
Nelle tue piccole mani, le mie rimembranze. Si confondono, si rispondono i presentimenti, ci chiamiamo ancora, Brune, scure in questi tramonti d’oblio e di sterile rinascita.
Tutto corrisponde a te. Tutto ci creò. Tutto ci uccise d’amore.
Così… Al risveglio, tu non sei più e vado cercandoti, Anima.

A Mia Sorella.

…II est des parfums frais comme des chairs d'enfants,
Doux comme les hautbois, verts comme les prairies,
— Et d'autres, corrompus, riches et triomphants,

Ayant l'expansion des choses infinies,
Comme l'ambre, le musc, le benjoin et l'encens,
Qui chantent les transports de l'esprit et des sens.

Testo di EBP

[1] William Blake, For children (or sexes): The Gates of Paradise, 1793. N.B.: (s) non compresa nel testo originale. Trad. Ita.: "Per una matura cova, al fine, ella/egli rompe il guscio".