Maurizio Nobile comincia la sua attività di antiquario nel 1987 a Bologna nella prestigiosa cornice di Piazza Santo Stefano, specializzandosi in oggetti, sculture, dipinti e disegni dal XVI al XXI secolo. Nel 2010 apre una sede a Parigi in 45 rue de Penthièvre, nel cuore antiquario della capitale francese. Socio dell’Associazione Antiquari d’Italia e della SNA (Syndicat National desAntiquaires), Maurizio Nobile alterna a mostre in galleria la partecipazione alle manifestazioni antiquariali italiane più importanti, quali Paris Tableau, Biennale des Antiquaires di Parigi, London Art Week, Biennale internazionale di Firenze, Biennale internazionale di Roma.

Per quest’autunno, la galleria si è nuovamente ri-disegnata come una raffinata Arcadia bolognese, e ha deciso di presentare al pubblico una ricca selezione curata da Marco Riccòmini, composta da circa trenta fogli barocchi, disegni bolognesi tra Seicento e Settecento. Merita sottolineare il prestigio dello stesso Riccòmini storico d'arte, figlio di Eugenio Riccòmini dal quale ha ereditato il talento, un esperto d’arte a livello internazionale e consulente di numerose case d’arte e d’asta, con lunghi trascorsi professionali a Londra e nel mondo. Quest’esposizione vuol essere uno studio critico e scientifico sul ruolo della pratica del disegno in un’epoca ricca e importante come quella barocca, in uno specifico contesto culturale, quello bolognese, con una tradizione solida costellata di grandi nomi tra maestri e allievi.

Il disegno, fin dalle origini dell’uomo, è servito come strumento di conoscenza, dell’uomo stesso e della realtà circostante, un mezzo di indagine dai contorni irregolari con una storia millenaria e leggendaria. Il disegno è da considerarsi a tutti gli effetti come uno dei capisaldi portanti dell’espressione e della storia dell’arte, basta pensare quanto ancora nel panorama dell’arte contemporanea sia un vero e proprio evergreen, un must tramite il quale l’artista è portato a misurarsi per conoscersi e fare conoscere; un mezzo di comunicazione imprescindibile dall’indiscutibile fascino.

In epoca moderna, e in questo caso, in quella barocca, il disegno serviva come imprescindibile fase preparatoria all’opera, alla tela, al dipinto finale, il disegno a tutti gli effetti serviva come luogo, come laboratorio, come officina di pensiero, dove tutto poteva mutare e trasformarsi. Il disegno come punto privilegiato per scrutare minuziosamente religiosamente ma anche laicamente (ed è questa la bellezza di una possibilità paradossale) l’accadere del mondo. L’importanza della riscoperta di una pratica come quella del disegno è così imprescindibile dallo studio storico-critico del mondo e dell’arte.

Come racconta lo stesso curatore nel catalogo ragionato: "Non a caso, la Storia dell’Accademia Clementina, pubblicata a Bologna da Giampietro Zanotti nel 1739, si apre con un’acquaforte (di Domenico Maria Fratta) che ritrae una classe di nudo, ossia una lezione di disegno dal vero. L’arte del disegno (parole del biografo) è il filo rosso che corre lungo tutto il preludio della storia di Zanotti, ove si narra dell’Origine e Progressi dell’Accademia, prendendo le mosse dai tempi di Platone e dei greci per giungere fino ai giorni nostri (ovvero ai suoi)". "Da quell’arte" – si spiega l’autore, rivolgendosi al lettore – "discendono nell’ordine la Pittura, la Scultura e l’Architettura. E siccome, appunto, 'l’aggiustatezza del disegno, e il trattarlo con eleganza, e franchezza, è quello principalmente, che un giovane dea studiare', la pratica dello studio dal vero non conosce respiro in quegli anni". "Non si tralasciava fatica", - racconta lo storico-artista, raccontando dell’Accademia dei Carracci, detta degli Incamminati, tra le prime istituite a Bologna – "non tempo, non spesa; vi si modellava, e vi si davano documenti d’architettura e di prospettiva". E così continuando a parlare dell’Accademia voluta dai Ghisilieri e di Burrini.

Era fondamentale studiare e disegnare dal vero, ma anche conoscere e approfondire i metodi dei maestri, meditando con coscienza, non limitando il tutto alle aule accademiche, ma continuando a disegnare anche fuori, in situazioni familiari o domestiche, come nello splendido Ritratto di fanciulla di profilo di Ubaldo Gandolfi, forse una figlia o una nipote dello stesso artista, presa a modella proprio in abiti domestici.

L’esposizione inizia con uno spettacolare Studio di vecchio di Giovanni Francesco Barbieri, niente poco di meno che il Guercino, a penna e inchiostro bruno, ritraente un uomo barbuto, dal muscolo vibrante, seminudo, abbracciato a un lenzuolo accennato, etereo, che rende un’atmosfera pudica e sospesa. Lo sguardo vuoto e oscuro è lontano, distante dal tempo e da noi, dal resto. Come viene ricordato nel catalogo, quel protagonista ricorda come un'eco il ritratto di quel matto dell’ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha inciso nel 1863 da Gustave Dorè.

La mostra prosegue con il San Biagio di Cesare Gennari, a matita rossa, che sembra proteggere con riverenza e maestosità la città fra le sue mani, come un bene fragile e prezioso, accennato e illuminato da un segno leggero e soave. E come uno splendido paesaggio a delineare il profilo di questa esposizione si alternano i nomi degli artisti raccolti: Elisabetta Sirani, Giovanni Antonio Burrini, Marcantonio Franceschini, Donato Creti, Famiglia Crespi, Aureliano Milani, Francesco Monti, Domenico Maria Fratta, Giuseppe Varotti, Ubaldo, Gaetano e Mauro Gandolfi, Flaminio Minozzi, Pietro Giacomo Palmieri, Felice Giani.

I corpi tracciati a penna e inchiostro bruno da Donato Creti, nel Cristo di fronte a Caifa, o in Ecce Homo (conservati nel Gabinetto Nazionale Disegni e Stampe di Roma) sono tremolanti, quasi elettrici, vibranti, attraversati da un segno maturo, certi contorni sono ripassati più volte. Come una nube temporalesca invece lo studio per la Testa di vecchio barbuto, qui, l’artista si è ispirato ai santi e i profeti che stanno canuti attorno ai gruppi sacri nelle pale di Veronese (che Creti studiò da ragazzino, come ricorda il curatore nel catalogo), e in quelle dei Carracci. Di coinvolgente pathos e fragilità onirica, il Cristo e la Samaritana al pozzo di Francesco Monti, matita nera e biacca su carta preparata bruna, il foglio prepara o meglio, ricorda, il dipinto della Galleria Estense di Modena la cui attribuzione è a lungo oscillata tra i nomi di Domenico Maria Viani ed Ercole Graziani prima di essere riconosciuto come opera di Monti, come appunto spiega Riccòmini.

La Diana nel bosco a penna e inchiostro bruno di Domenico Maria Fratta, ci racconta una storia lontana, ai confini con la natura, in un silenzio che trova la pace tra le foglie arricciate degli alberi, nella paciosità divina di Diana che si lascia alle spalle come avvolto in una nebbia tenue, un borgo turrito d’aspetto medievale, un’immaginaria e raffinata Arcadia bolognese. Di un fascino travolgente, come da spartiacque all’esposizione, il Ritratto di fanciulla di profilo, a matita rossa e gesso bianco su carta cerulea di Ubaldo Gandolfi, rimane una delle opere più belle, proprio per la sua estrema e raffinata semplicità, che nutre una complessità di fondo, un’enigma celato tra le curve del profilo della figura muliebre, o forse perché lontana da miti e santità ci porta a disvelare l’anima più intima del quotidiano, del domestico, del disegno e dello studio sdoganato da grandi protagonisti. Con il capello, se vogliamo, maldestramente raccolto, con qualche capello ribelle che sfugge all’ordine, la ragazza dall’aria sommessa, sembra non rendersi conto dell’immortalità che quel momento su carta conserverà ai posteri. Ed è proprio qui che risiede il fascino, l’inconsapevolezza tratteggiata a matita ci rende partecipi di una femminilità intimidita, ma d’una bellezza struggente e priva d’impurità come nella Bambina dormiente, conservata alla Pinacoteca Nazionale di Bologna, uno straordinario ritratto del miracolo dell’infanzia e dell’innocenza, conservata solo dalla sfuggente potenza del disegno.

Il mito e la tragedia trovano invece vita nei carboncini e gesso bianco di Gaetano Gandolfi, come in Mercurio e Argo, nel Ratto di Dejanira, nel Ratto d’Europa, o nella Venere scopre il corpo di Adone, dove i corpi come cosmi si manifestano con la potenza di perturbazioni, annuvolando la scena con drappi o gesti, tra ombre e luci che divengono luoghi lontani dal tempo.

Concludono in qualche modo l’esposizione i lavori di Felice Giani, in Apollo e Marsia, a penna, inchiostro bruno e bistro, come sottolinea il curatore, a comandare l’attenzione in questo foglio, non è tanto il racconto mitologico bensì la Natura, che, “imperiosa, agita le fronde, scorre nelle acque, muove le nubi nel cielo, sotto il quale si agitano minuscole e imponenti le figurine, sia degli uomini sia dei loro immaginati”, e noi come loro ci ritroviamo, così, piccoli e microscopici osservatori di fronte alla maestosità di un’epoca e di una pratica artistica immortale come il disegno.