Non si può dire che esista uno solo dei dipinti di Leonardo che non nasconda tra le sapienti pennellate date dal genio fiorentino uno o più segreti, tanto da scatenare le fantasie di ricercatori e scrittori di tutto il mondo. Ve n’è però uno che li batte tutti, in questa speciale classifica, e la cui storia è ingarbugliata sin dalla sua misteriosa origine: sto parlando della Vergine delle Rocce.

Il dipinto venne commissionato a Leonardo il 25 aprile 1483 dalla Confraternita laica milanese dell’Immacolata Concezione, per essere sistemato nella Chiesa di San Francesco Grande, oggi distrutta; è la prima commissione ufficiale da quando, secondo gli studiosi, Leonardo giunge a Milano pochi mesi prima. Il contratto, a cui presero parte anche i fratelli De Predis, due pittori presso i quali Leonardo ebbe il suo primo domicilio milanese, inizialmente prevedeva un trittico: una Madonna centrale, al cospetto di Dio e un gruppo di angeli, da eseguirsi da parte di Leonardo, e due dipinti laterali, con quattro angeli per ciascuno, nell’atto di cantare in uno e di suonare nell’altro, da eseguirsi da parte dei fratelli De Predis.

Gli studiosi non sanno spiegare in maniera unanime quali furono i motivi per cui Leonardo disattese la commissione della Confraternita, ipotizzando anche un improbabile quando fantasioso ricatto ordito ai danni della Confraternita, con l’intento di spillare più soldi, ma si limitano a sostenere che la versione originale non fu mai consegnata ai Confratelli, ai quali, dopo un lungo contenzioso tra Leonardo e la Confraternita stessa, fu consegnato un secondo dipinto.

Oggi gli studiosi contano tre copie del dipinto, erroneamente tutte attribuite a Leonardo, e si trovano rispettivamente una a Parigi, presso il Museo del Louvre, una seconda a Londra, presso la National Gallery, e una terza, detta Cheramy, conservata in un cavea in Svizzera. Queste ultime due sono palesemente ad opera di allievi, per una serie innumerevole di particolari che non starò in questo momento a richiamare, tanto sono evidenti: quella londinese ad opera di Ambrogio De Predis, mentre quella svizzera è al momento più difficilmente attribuibile, ma non certo di mano leonardesca.

La versione dipinta da Leonardo, quella originale e mai consegnata alla Confraternita dell’Immacolata Concezione, è dunque chiaramente quella conservata al Louvre, nei cui Archivi è conservato anche un disegno, poco conosciuto al grande pubblico, che ne risulta perfettamente sovrapponibile. Di questo soggetto, che presenta la Vergine Maria al cospetto di un Angelo e le figure infantili di Cristo e del piccolo Giovanni Battista, com’è naturale che sia vista la folta schiera dei pittori allievi di Leonardo (i cosiddetti Leonardeschi), esistono una infinità di riproduzioni, ad opera di Giampietrino, Marco d’Oggiono e molti altri. Già qui emerge la prima anomalia: a differenza di quanto avviene per la copia di Londra (opera del De Pedris) e la copia conservata ad Affori (senza attribuzione), che presentano entrambe una serie di guglie montuose come nell’originale, quasi tutti i Leonardeschi presentano una raffigurazione ambientata sì nella stessa grotta, ma con un paesaggio di sfondo differente, ovvero con una città lacustre ai piedi di una montagna, come si può vedere da una parziale carrellata degli stessi.

È sufficiente un primo, rapido confronto, per poter immediatamente constatare come la grotta in cui tutte queste rappresentazioni vengano ambientate sia la grotta di San Giovanni Battista, sita in località Laorca, sopra Lecco. Rimandando ad altri miei lavori per conoscere le implicazioni per cui il legame tra Leonardo da Vinci e la città di Lecco è così serrato (di cui allego una parte in calce a questo mio scritto*), da una ulteriore analisi panoramica della montagna in cui è contenuta la grotta stessa, osservandola da sud, si comprende quale sia il motivo per cui Leonardo inserisca nello sfondo della grotta dipinta non la città di Lecco e il lago su cui si affaccia, come sarebbe naturale che fosse, bensì le guglie caratteristiche della Val Calolden e della Bastionata Segantini che definisce il profilo della Grigna meridionale, riconoscibili nel dipinto una ad una, compreso il Sasso Cavallo e il Sasso Carbonari, che sembrano invece essere mani che cingono il profilo superiore della grotta stessa.

La scelta operata da Leonardo nel completare il paesaggio antistante la grotta in questo modo innaturale è chiaramente volto a dare un’indirizzo di carattere direzionale all’osservatore, sebbene la grotta sia dipinta dall’interno, e questo è giustificato dal fatto che altrimenti, a rigor di logica, se Leonardo avesse inteso effettuare una raffigurazione fedele avrebbe posto la città di Lecco sullo sfondo. Anche l’osservazione di alcuni particolari del dipinto, che trovano conferma negli elementi naturali della grotta di Laorca, confermano questa mia lettura; mi riferisco alle guglie caratteristiche e a una particolare formazione della roccia calcarea posta nella parte in alto a destra del dipinto, che altrimenti poteva essere scambiato per un elemento strutturale in legno.

Ad avallare ulteriormente la bontà di questa lettura, si considerino anche le specie botaniche presenti nell’opera, endemiche della zona in cui la grotta è posizionata, ovvero l’Aquilegia, cara a Leonardo, e il Mapello, entrambe presenti nelle immediatezza della grotta. Sebbene già di per sé queste mie considerazioni rappresentino un cospicuo materiale in contribuzione alla rinnovata comprensione e alla lettura che fino ad oggi ne veniva data di questo dipinto, la cui gestazione come abbiamo visto in apertura di articolo è stata oggetto di controversia feroce, è proprio da qui in avanti che la Vergine delle Rocce ci svela i suoi segreti più intimi e affascinanti. Infatti, sulla parte destra della grande apertura formatasi durante l’ultima deglaciazione, come residuo dei ghiacci imprigionati nel materiale terroso e roccioso e poi discioltisi lasciando la cavità come oggi la vediamo, più o meno in corrispondenza della posizione in cui Leonardo colloca la Vergine e l’angelo, si scorgono due sagome, sulle quali gli agenti atmosferici e il tempo hanno purtroppo avuto il sopravvento.

Nonostante in questi casi sia facile finire preda della suggestione, soprattutto quando si approcciano materie così complesse, sottoposte a un numero infinito di studi nel corso dei secoli e avendo già ipotizzato così tante letture innovative, qualsiasi approfondimento, nel caso di specie, non ha fatto altro invece che dare ulteriori elementi non solo di conferma della prima impressione raccolta, ma addirittura in grado di dare ulteriori riletture sul dipinto originale. Procediamo dunque per gradi.

La prima, inattesa e straordinaria conferma deriva dal fatto che, effettivamente, le due sagome corrispondono a due statue. Per essere più corretti, sarebbe più giusto dire che corrispondono a quel che ne resta, o si può intuire di esse, in quanto la corrosione del materiale calcareo, dunque poco resistente, è molto pronunciata. Soltanto da una visione frontale, e col calare delle tenebre, si può avere piena con-ferma di quella che altrimenti sarebbe stata soltanto una suggestione, seppur affascinante, ma non comprovabile. Quando la luce solare scema, infatti, e si rende necessario l’ausilio di un faretto alogeno, come per magia, la statua che nel dipinto è corrispondente alla Vergine, rivela la sua vera identità. Il raffronto con qualsiasi volto dipinto o disegnato da Leonardo balza immediatamente all’occhio, fino a rendere quasi riconoscibile l’acconciatura di una Leda.

A questo punto, diviene persino legittimo assumere che non solo Leonardo ambienti in questa grotta l’intera rappresentazione, ma addirittura esista la concreta possibilità che vi abbia persino scolpito una statua, e che quella statua sia ancora lì ad allietare lo sguardo di chi l’ha saputa riconoscere e mettere in condivisione. Ancora una volta, però, la Vergine dai mille segreti non smette di stupirci.

È vero che il volto è la parte più riconoscibile della statua, e ancora non sono in grado di dare una spiegazione al fatto che il volto prenda una sua definizione tangibile solo al calar delle tenebre, mentre alla luce del sole è praticamente irriconoscibile, ma anche la parte del corpo, una volta appurato trattarsi di una statua della Venere, situata nella grotta in cui senza ombra di ragionevole dubbio Leonardo ambienta la Vergine delle Rocce, uno dei suoi celeberrimi capolavori, ha una sagoma riconoscibile. Quello che invece stona nella statua presente nella grotta, rispetto alla versione della Vergine conservata al Museo del Louvre, è una curiosa protuberanza presente davanti al busto della stessa, quasi fosse un tronco che nasce dal grembo della donna. Alla luce delle iconografie rinascimentali in cui la Vergine tiene in braccio il bambino, anziché a lato, come nella versione proposta da Leonardo, legittima il sorgere spontaneo del dubbio che in braccio alla statua della grotta, quella protuberanza sia ciò che resta di un bimbo, la cui erosione del tempo e degli agenti atmosferici hanno fatto perdere l’originaria silhouette.

Un confronto con immagini pittoriche similari e contemporanee conforta in effetti e incoraggia l’assunzione di questa ipotesi. Di nuovo, la Vergine dai mille segreti fa sorgere spontaneamente numerosi interrogativi; in questo caso, su chi possa avere scolpito una statua che, ancora dopo 500 anni, mantiene inalterata tutta la grazia e la bellezza che solo un volto leonardesco sa offrire in visione. E di nuovo, la Vergine si dimostra generosa con chi ha saputo guardare all’opera di Leonardo con gli occhi puri di un bimbo, scevro da condizionamenti e da sovrastrutture mentali e culturali fuorvianti. Preparando materiale per una delle tante conferenze che sono chiamato a tenere in giro per l’Italia, infatti, e lavorando a una elaborazione della Vergine delle Rocce parigina mi sono trovato dinanzi alla soluzione di questo ennesimo segreto, custodito così discretamente nonostante milioni di occhi la scrutassero incessantemente per centinaia di anni.

Là dove ho ipotizzato potesse esserci un bambino, almeno assumendo per un solo secondo che la statua in grotta fosse l’originale e il dipinto conservato al Louvre una sorta di rivisitazione, anche pensando alle dicerie che circolano circa la commissione di questo quadro che ho voluto riassumervi in apertura di questo articolo, e quindi volendo trovare una spiegazione recondita al perché Leonardo non consegnò il proprio dipinto al Priore della Congregazione dell’Immacolata Concezione, ho fatto una scoperta ancora più sensazionale di tutte quelle raccontatevi. La Vergine delle Rocce di Leonardo, conservata al Louvre, ha un terzo braccio! Il terzo braccio, che a questo punto, con ogni probabilità, era il secondo ed era originariamente concepito da Leonardo, è proprio in corrispondenza di dove la Vergine avrebbe un braccio se volesse tenere sul suo grembo un bimbo!

Questo nuovo elemento cambia ulteriormente l’ordine degli accadimenti, rendendo probabile il fatto che la statua nella grotta fosse stata scolpita da Leonardo prima di quella dipinta per la Confraternita, o almeno è ipotizzabile che in origine statua e dipinto erano similari. Poi qualcosa è intervenuto facendo cambiare a Leonardo l’impianto pittorico della tela, trasformandolo nella versione che oggi conosciamo come così esposta al Museo del Louvre di Parigi e che i suoi contemporanei hanno potuto osservare e copiare. Non è la prima volta, dopotutto, che Leonardo modifica pesantemente un suo dipinto; l’esempio più clamoroso è costituito proprio dal suo dipinto più famoso, la Gioconda, che il francese Pascal Cotte ha evidenziato esser stato parecchio rimaneggiato. Anzi, proprio dall’analisi delle risultanze del lavoro di Cotte emergono a raggiera, attorno al capo della Mona Lisa degli spuntoni di ferro che il ricercatore non ha saputo descrivere se non come spuntoni per acconciatura. Della pittura originaria, poi abrasa da Leonardo per definire l’odierna sagoma, ne sono evidenziati dalla scansione in profondità dodici.

Questo importantissimo particolare della Gioconda, finora quasi impercettibile, determina tra l’altro un ulteriore collegamento molto profondo tra l’opera leonardesca e il territorio lecchese, in quanto richiama senza possibilità di errore la Sperada, la tipica acconciatura lombarda con cui le giovani donne che si fidanzavano dichiaravano la propria uscita dalla fase adolescenziale, dichiarandosi Promesse Spose. Non è un caso che la Sperada fosse portata da Lucia Mondella, la Promessa Sposa di Renzo Tramaglino, nel romanzo storico ambientato tra Lecco e Milano da Alessandro Manzoni.

Tornando allora alla Vergine delle Rocce, nel cercare di risolvere questo ulteriore interrogativo, può venirci sicuramente in soccorso il sito in cui la grotta di Lorca si trova, frequentato sin dall’antichità dai Celti. La memoria di questa frequentazione è testimoniata da un sedile della fertilità, perfettamente orientato al sole nascente nel solstizio estivo del 21 giugno. Ho potuto verificare di persona con alcuni miei collaboratori come esso venga puntualmente illuminato al sorgere del sole dietro l’antistante Monte Due Mani in quella data. Non stiamo svelando nulla di nuovo, dopotutto, in quanto viene ormai universalmente riconosciuto, in campo accademico, come le vicende testamentarie di Gesù Cristo ricalchino il culto solare del Sol Invictus, e le figure di Giovanni Battista (a cui la grotta in cui Leonardo ambienta la Vergine delle Rocce) e del Cristo stesso sono espressione reciprocamente dei solstizi estivo e invernale. Che sia stata proprio questa la ragione che ha indotto Leonardo a cambiare il senso della committenza originaria, intendendo legare l’opera proprio a Gesù e Giovanni Battista come riproposizione di due momenti del ciclo solare essenziali in ogni cultura?

Anche in questo caso non sarebbe la prima volta che Leonardo associ nelle proprie opere un messaggio legato al culto solare, celandolo sotto una rappresentazione a sfondo cristiano. L’esempio più evidente è rappresentato dalle tre finestre dell’Ultima Cena, che ripetono un’antichissima tradizione con cui l’uomo intendeva legare le strutture dedicate al culto solare ai momenti di solstizio ed equinozio, usanza a cui le stesse chiese cattoliche non si sottraggono. Al momento non è dato di sapere se questa ipotesi possa avere titolo per essere annoverata plausibile, anche se tutto, attorno alla grotta, lo lascia intendere. E lo lascia intendere anche il fatto stesso che tra il 21 e il 23 di dicembre, data del solstizio invernale, il sole sorga in maniera frontale rispetto alla grotta stessa, valicando il monte Magnodeno, e illuminando l’ingresso della grotta e la Vergine stessa. Di nuovo, come per il sedile della fertilità posto in direzione del solstizio estivo, emerge chiaro il confronto con l’antica religione celtica, in cui lo spirito che incarnava il solstizio invernale era quello della Grande Madre che donava la vita, tutelava la fertilità e le soglie fra i Mondi. La Dea veniva rappresentata come una Dea seduta, con una enorme cornucopia in mano (mito che presso i romani diventava la celebrazione dei Saturnali, festeggiati tra il 17 e il 23 dicembre).

A mero titolo di curiosità, voglio inoltre qui ricordare che il mito sciamanico celtico prevedeva l’ingestione dell’Amanita Muscaria per avere visioni e varcare la soglia fra i Mondi; il copricapo rosso che caratterizzava i neoplatonici, nella cui influenza culturale Leonardo era cresciuto, e che annoverava su tutti Marsilio Ficino, Pico della Mirandola e Poliziano, tra gli altri, era un rimando simbolico proprio all’Amanita e alla sua funzione “trascendentale”.

Al di là di tutto quanto appena descritto, quale che sia la motivazione per cui effettivamente Leonardo cambiò gli accordi sottoscritti con il Priore della Confraternita dell’Immacolata Concezione, al momento, resta un mistero ancora insoluto; però indubbio quanto tutto ciò rappresenti un ulteriore elemento di legame solido tra Leonardo e la città di Lecco, come da tempo vado dicendo, e andrebbe certamente considerata, fattivamente e concretamente, l’ipotesi di poter mettere tutto ciò al servizio della città e del territorio, anziché respinto con sterili e risibili motivazioni come avviene puntualmente. Da un punto di vista della ricerca, invece, forse comprendere cosa si nasconda sotto al dipinto oltre a quel secondo braccio che, come abbiamo visto, con ogni probabilità era stato concepito per sostenere il figlio della Venere, potrebbe aiutarci a fare ulteriore chiarezza.

A questo punto, quindi, non posso che rivolgere pubblicamente la mia richiesta anche al Direttore del Louvre, Monsieur Jean-Luc Martinez, affinché tramite l’equipe specializzata di una Università Italiana, riconosciuta nel mondo intero per questo tipo di analisi e con cui sono già in contatto personalmente, e il supporto video di una troupe della BBC, mi conceda il privilegio di intraprendere una scansione non invasiva del dipinto e appurare la presenza di questo braccio, la cui sagoma è appena intuibile ad una osservazione a occhio nudo del dipinto, così da poter avvalorare un ipotizzabile cambio di intenzione dell’artista e capire, dalla scansione stessa, altri importanti particolari che ne possano derivare. Al tempo stesso sono a chiedere alle autorità competenti, siano esse locali, nazionali ed europee, che la grotta e la statua ivi contenuta, in quanto collegate indissolubilmente alla montagna che le ospita, siano dichiarate Patrimonio dell’Umanità e messe in sicurezza, al fine di renderne sicura e fruibile a tutti la visita, senza minimamente comprometterne l’integrità e la preservazione nel tempo.

Lo speciale rapporto esistente tra Leonardo da Vinci e la città di Lecco

“Nessuna cosa si può amare, ne’ odiare, se non si ha piena cognizion di quella”, scriveva Leonardo in uno dei molteplici codici a lui riconducibili, sparsi nei musei di mezzo mondo, e mai affermazione fu più azzeccata in associazione alle infinite amenità che si scrivono in merito alla sua eredità artistica.

Da anni mi dedico allo studio di Leonardo da Vinci e al suo legame con il nostro territorio, e l’ipotesi da me avanzata di un collegamento tra la città di Lecco e il sommo artista è nota ormai da diversi anni. Quello che è meno noto, sono le motivazioni storiche e culturali che hanno indotto Leonardo a indicare i paesaggi lecchesi nelle proprie opere; sì, al plurale. Speculazione vuole, infatti, che ci si soffermi a indicare un collegamento, in questo caso individuato dal ponte Azzone Visconti e dunque puntuale tra l’altro e mai di carattere sostanziale, alla sua opera forse più famosa, la Gioconda, ignorando il fatto che la maggior parte delle opere e dei disegni di Leonardo ritraggono la cittadina che fa da contrappunto al ramo comasco del Lario. Senza comprendere il contesto storico e le vicende legate a ciò che accadde negli anni a cavallo della metà del XV secolo, infatti, è quasi impossibile dare una lettura compiuta alle opere leonardesche, men che meno agli sfondi impiegati.

Quegli anni hanno visto un rifiorire delle arti tutte, e delle conoscenze di carattere filosofico, storico, scientifico, astronomico e geografico fino ad allora dimenticate dal mondo occidentale, quello che noi oggi chiamiamo vecchio mondo, in contrapposizione al nuovo mondo, rappresentato dal continente americano, approcciato ben prima di Cristoforo Colombo da Medici, Sforza e Malatesta, tra gli altri, e poi conteso a suon di Inquisizioni da Spagna, Portogallo, Vaticano e Germania. La stessa Gioconda rappresenta il Rebis, ovvero la congiunzione tra elemento spirituale maschile e elemento femminile, motivo per cui nel volto dal sorriso enigmatico sono presenti il volto maschile e femminile di Leonardo stesso, per cui ogni tentativo di individuare nella Gioconda una figura femminile reale (Lisa di Gherardini, la madre di Leonardo, ora addirittura Isabella d’Aragona) è fuori da ogni lettura ortodossa dell’opera. Non mi dilungherò in questo ora, essendo la ragione di questa mia nota rivolto a meglio specificare le critiche a quanto asserito nell’articolo comparso oggi sul giornale da Lei diretto, che forse, ad una più attenta verifica da parte del giornalista che l’ha firmato, avrebbe avuto una correzione in corso di stesura.

È vero quanto affermato di recente, ovvero che gli sfondi della Gioconda non corrispondono ai territori toscani e umbri, men che meno del Montefeltro, in serrata contrapposizione politica col mondo mediceo di cui Leonardo faceva parte, ma corrispondono alla città di Lecco. L’errore sta però nel riconoscervi solo il ponte Azzone Visconti, come citato nell’articolo suddetto, e sarebbe bastata una verifica anche superficiale e immediatamente ci si sarebbe accorti di un legame molto più profondo, come racconto da anni in conferenze e libri. L’intero paesaggio lecchese, infatti, si staglia alle spalle della Gioconda, in una continuità inesistente tra parte destra e parte sinistra, a meno che, come detto, non se ne comprenda appieno il suo svolgimento. In realtà il paesaggio si compone di sei diversi paesaggi, tre a sinistra e tre a destra. Fatta eccezione di quelli più in alto, che descrivono soltanto delle particolari formazioni rocciose posizionate in particolari punti delle nostre montagne, i due paesaggi di sinistra e i due paesaggi di destra descrivono il ramo orientale del Lario, in una descrizione visiva che va da nord a sud, come si evince dalle immagini a seguire:

  1. Veduta dell’Adda da Calco/Brivio, dove il ducato Milanese nacque sconfiggendo le truppe veneziane, con evidente il monte San Martino sullo sfondo e la Rocca di Airuno sulla sinistra;
    2.la parte terminale del ramo del Lago di Lecco, con il ponte Azzone Visconti e il Monte Barro sulla destra, il lago di Garlate, Olginate e la Brianza che si apre verso Milano, osservata dai Pizzini del San Martino, importanti perché chiaramente rico-noscibili anche nell’Annunciazione del 1472;
  2. Mandello, osservata dal Castello di Bellagio, allora sede di un castelliere fedele agli Sforza, oggi sede della Fondazione Rockefeller;
  3. le punte di Olgiasca, Dervio e Bellano così come osservabili da Gravedona, all’epoca importante sede di un presidio sforzesco.

Lo sfondo della Gioconda, dunque, non è affatto un casuale riferimento ora a quello ora a quell’altro paesaggio, come più volte storici dell’arte o improvvisati ricercatori tentano di individuare, ma ha delle motivazioni ben precise nel rimandare a un territorio un qualcosa di ben più ampio, che affronteremo eventualmente in altra sede. A complemento di quanto vi sto significando, fermo restando, come dicevo, il fatto che la Gioconda rappresenta nel volto e in quel rimando al nome, “gioconda” (ovvero “gioviale”, contrapposta a “saturnino” in un rimando filosofico alle figure di Eraclito e Democrito, il filosofo che piange e il filosofo che ride, ovvero i caratteri saturnino e gioviale appunto), la Mona Lisa descrive con le innaturali balze del vestito il Triangolo Lariano, ovvero quella porzione di territorio compresa tra i due rami del lago (di chiara contrapposizione politica, l’uno guelfo e l’altro, quello lecchese, ghibellino), intuibile nella prima raffigurazione che ne fa il Giovio, poi stampata da Ortellius raffronta con l’immagine ottenuta da Pascal Cotte da una scansione del dipinto (intuibile anche a occhio nudo, sotto appunto i veli del manto).

C’è una lunga tradizione legata allo studio di Leonardo e alla città di Lecco, nella quale mi precedono figure illustri come il senatore Mario Cermenati e Luigi Conato, e anche solo per rispetto a queste figure sarebbe importante evitare speculazioni puntuali che non fanno altro che rendere ancora più nebuloso quello che invece è un chiaro lascito sapienziale e culturale leonardesco. A ulteriore conferma di tutto quanto sto esponendo, si aggiunga una ulteriore implicazione, dettata da una particolare scoperta alla quale finora il suo stesso scopritore non aveva saputo dare una adeguata lettura e interpretazione. Sto parlando di Pascal Cotte, lo studioso francese a cui è stato concesso l’onore di analizzare la Gioconda con una particolare camera fotografica, in grado di cogliere i diversi strati di pittura sovrapposti, scomponendoli per livello; in realtà si tratta di una tecnica che la dott.ssa Letizia Amadori dell’università di Urbino, con cui mi pregio di aver collaborato in passato, attua da tempo, e che in futuro avremmo piacere, se il Louvre ci concederà le autorizzazioni, di eseguire assieme delle scansioni sulla Vergine delle Rocce di Leonardo per verificare alcuni particolari finora ignorati dagli studiosi.

Nello specifico, Pascal Cotte ha evidenziato attorno alla capigliatura della Mona Lisa degli spilloni, in numero di dodici, che ad occhio nudo sono quasi impercettibili, se non appunto dopo che lui li ha individuati con a tecnica descritta sopra e segnalati al grande pubblico. Quello che però Pascal Cotte non ha associato, limitando l’annuncio alla presenza nel dipinto di questi spilloni, è cosa quegli spilloni rappresentano per la tradizione lariana e lombarda in generale. Stiamo parlando della Spérada, o Corona Lombarda, che era costituita da una raggiera di spilloni, propriamente detti "spadine", molto ben lavorati e decorati, che tradizionalmente venivano regalati dal fidanzato alla propria ragazza quando si ufficializzava in pubblico il proprio fidanzamento, che a quei tempi era considerato quasi una cerimonia; da quel momento la ragazza era considerata "promessa sposa”. E proprio ai Promessi Sposi non può che correre il nostro pensiero, ricordando la caratteristica pettinatura con cui Lucia Mondella è spesso raffigurata.

L’implicazione di questa evidenza, portata alla luce dal ricercatore francese con questa particolare tecnica di scansione e rilevamento, fa sì che trovi ulteriore conferma l’associazione del famoso dipinto di Leonardo, forse il più famoso dipinto al mondo, con i paesaggi lecchesi, come ho inteso significare con quanto descritto in precedenza. E sarà proprio in emulazione di Leonardo e delle motivazioni che lo spingono a rappresentare Lecco nelle proprie opere, molti dei più importanti artisti del Rinascimento la raffigurano.

A ulteriore conferma di quanto Le ho scritto, però, voglio aggiungere un paio di annotazioni importanti e a me particolarmente care, per meglio definire quale fosse il profondo legame tra Leonardo da Vinci e la città di Lecco e perché sia improprio speculare su un particolare di un solo dipinto, la Gioconda. Il primo è rappresentato dall’Ultima Cena. Tutti ormai sappiamo che Cristo è la riproposizione del culto solare del Sol Invictus, trasversale a pressoché tutte le culture religiose del pianeta prima dell’avvento dei monoteismi, e uno dei principali messaggi sottesi al dipinto presente nel Refettorio in Santa Maria delle Grazie è proprio relativo al posizionamento del sole nelle varie fasi dell’anno, con i discepoli, a gruppi di tre, a rappresentare le varie costellazioni di riferimento. Quello che nessuno sa è che le tre finestre dietro il Cristo raffigurano i momenti di solstizio e equinozio, come sempre l’uomo ha inteso rappresentare nelle sue opere architettoniche, siano esse chiese, piramidi o templi, come si evince dall’immagine a seguire.

Ma v’è di più: se noi osserviamo il posizionamento del dipinto all’interno del Refettorio di Santa Maria delle Grazie, ci accorgiamo che è perfettamente allineato con il Monte Resegone, importantissimo nel processo fondato celtico della città di Mediolanum e la cui veduta, dal centro di Milano, era difesa fino a metà del XIX secolo dal vincolo urbanistico della “servitù del Resegone”. Basta dunque mettere insieme le due informazioni per accorgerci che quel monte tanto caro al Manzoni è perfettamente descritto dalle sagome degli apostoli, nella continuità sostanziale di ciò che il dipinto racconta, NON in ordine all’episodio evangelico, bensì in ordine al culto solare, di cui Gemisto Pletone, il vero ispiratore del movimento rinascimentale e di Leonardo di conseguenza, si faceva portatore.

La seconda annotazione riguarda la Vergine delle Rocce. Non starò qui a motivarLe le infinite prove che attestino perché la grotta in cui la Vergine viene collocata idealmente è quella detta di Giovanni Battista a Laorca, rione di Lecco, o perché gli infiniti speroni rocciosi che la contraddistinguono siano riconoscibili uno a uno nella Val Calolden che porta ai Piani dei Resinelli e alla Bastionata Segantini, caratteristico profilo della Grigna. Voglio invece mostrarLe ciò che ogni volta mi emoziona, e che senza un intervento adeguato da parte del Ministero dei Beni Artistici e Culturali, della Soprintendenza e delle autorità amministrative locali rischia di perdersi nel processo di erosione naturale della roccia calcarea in cui è scolpita, prima ancora che nell’incuria e nell’indifferenza umana, spesso, troppo spesso alimentata da una mancanza di cultura della conoscenza. Ecco perché ho inteso aprire questa nota con le parole di Leonardo: “nessuna cosa si può amare, ne’ odiare, senza piena cognizion di quella”.

Il patrimonio artistico e la profonda tradizione culturale del nostro paese possono essere la via prima per un suo rilancio, posto naturalmente che lo si sottragga dalle speculazioni di parte, qualunque essa sia, e lo si riconsegni alle reali intenzioni con cui ci è stato consegnato.

A cura di Riccardo Magnani