… Sussurro. Mi presento con le mie strutture, i marrani, le stelle, le canoe, i sibili, i desideri incolmabili, le esagerazioni … Mi presento con le necessità di tentare le voragini rovesciate che anelano il grande, rosso, grande lampo dell’arte. Arte prima pulsione, Arte veicolo del sogno intelligente, Arte assidua nell’intelligenza. Arte convinta rivoluzione rincorsa, Arte felicità pensante che sogna, che precede l’utopia; Arte elegante, Arte orgogliosa, Arte operaia, Arte sconfitta che sconfigge il buio. Benvenuti.

(Gilberto Zorio, Torino, ottobre 2000)

Questo scriveva l’artista in occasione di una mostra personale nella città che tanto gli ha dato e alla quale ha dato tanto negli anni Sessanta, così lontani, così vicini, la bella e algida Torino, quando il movimento italiano dell’arte povera capitanato da Germano Celant prendeva sopravvento nel panorama artistico internazionale. Ho riportato questo pezzo per sottolineare quanto l’artista sia uno di quegli artisti dotati di una penna straordinaria in grado di investire la scrittura di potente evocazione e bellezza.

L’arte di Zorio è fatta di oscillazioni temporali, e colmo di meravigliosa energia torna per quest’anno, nel cuore di Bologna, alla galleria de’ Foscherari, la stessa che proprio nel 1968, a cura del già citato Celant ha ospitato la mostra Arte Povera. Le opere oscillano e fluidificano da un secolo al successivo... vuol essere un viaggio nella poetica dell’artista e nell’arte stessa, una mostra che raccoglie opere che slittano nelle intensità di mezzo secolo. Una felice spossatezza, una nostalgia del futuro, come scrive lo stesso artista. Un’esposizione magica, da fruire anche al buio, per assorbire tutta l’incandescenza e la forza della visione immaginifica di Zorio. Una visione eccitata, costruita da simboli e archetipi, ma che ben si tengono lontani dalle metafore, all’artista infatti ha da sempre interessato la potenza stessa dell’immagine o del materiale impiegato, e non il loro valore simbolico.

Marrani volteggianti, motori, sibili, canoe, sospensioni, pelli di animali, stelle, letti, ampolle in pyrex, metalli, liquidi, giavellotti, è impossibile non rimanere sorpresi e incuriositi da questi strumenti, mistici, ambigui, ancestrali, dall’esistenza possibile e impossibile. Quella di Zorio è una continua ascensione alla speranza, l’arte acquista significato solo come atto di estrema e disperata speranza, una possibilità di redenzione, miglioramento, innalzamento, purificazione. Contrasti, appoggi, le dicotomie si innalzano, in modo che la galleria acquisti una dimensione eterea, preziosa, ritagliata fuori da un tempo prestabilito, il tempo diventa per un momento democratico, circolare, forse ellittico, il tempo scivola, fluttua, viaggia, come glassa, come burro caldo sul pane croccante, si infrange, si scioglie e si muove tra e con i nostri sensi.

È un mostra che slitta tra il silenzio e il rumore, tra la luce e il buio, tra la pesantezza del metallo e la fluidità e mobilità di un liquido, tra la concretezza di una forma o di un oggetto e l’aleatorietà di un pensiero, qualunque esso sia. Con la fruizione al buio, ci troviamo di fronte a un altro volto, a un’altra mostra, a un altro ambiente, siamo immersi in un percepire stellare, cosmico, la materia pulviscolare si dipana nello spazio, senza peso, illuminando le nostre attese. Fremiti di galassia, un concretismo magico, straniante, che trova una vibrazione materica nelle pulsazioni luminose.

Letto del 1966 e Per purificare le parole del 1980 sono due opere storiche che si fondono temporalmente con le altre presenti del 2016: Marrano con treccia, Canoa aggettante, Stella calibrata. Che dire su quest’ultima? La stella atavica e cosmica da sempre è utilizzata dall’artista fin dagli esordi, un simbolo dalla semplice complessità, antico come le stesse origini dell’uomo, perfetta negli equilibri e nelle proporzioni, tanto da raccogliere in se stessa le purità canoniche dell’uomo vitruviano, così elegante da non potere fare male. La stella catalizza in sé l’energia millenaria del tempo e della memoria, come elemento costitutivo del DNA del sogno dell’uomo, appartiene all’altrove e sorregge, o viene sorretta dalle alchimie. Ogni essere umano è un recipiente di minerali e di acqua, le sue vene, i polmoni e organi sono uno straordinario laboratorio chimico fatto di tubi e alambicchi. Così affermò l’artista in una conversazione con Celant.

Tutto in Zorio è trasformazione, come nei processi alchemici costituiti proprio dagli alambicchi in vetro o in piombo, le conflittualità di energia scaturite dalla tensione tra i materiali, sono questi gli ingredienti di una visione mitica di un’arte sia operaia che sognante. Mettere a nudo i propri strumenti e meccanismi, un'arte pronta a rivelarsi pur mantenendo un’aura di fascino e mistero, che cede al dubbio e alla perplessità la sua più segreta energia. L’arte di Zorio è un’arte alla continua ricerca di un moto di energia pura, di movimento, di luce, di incandescenza, di reazione, di fluorescenza, di esplosione cosmica indefinita. Scienza e arte si intrecciano come impronte in un percorso mistico, enigmatico, dai contorni fragili e intercambiabili, l’unica certezza è il provocare una visione di inspiegabile stupore nell’osservatore, che rimane rapito dagli interstizi inarrivabili della cosmogonia artistica di Zorio.

È così che la Canoa aggettante si libra sospesa per un viaggio fluido, tra le narrazioni di un’energia, come a colpire la nostra immaginazione, come una freccia, si fa mezzo per un altrove luminoso, intermittente, tra i sospiri di una speranza, talvolta chiamata arte.

Non pensare a quanto è rimasto indietro […] se quanto hai già trovato è fatto di materia pura, non potrà marcire. […] Se è stato soltanto un attimo di luce, come l’esplosione di una stella allora non troverai più nulla quando ritornerai... Ma avrai visto un’esplosione di luce. E anche solo per questo ne sarà valsa la pena.

(Paulo Coelho, L’Alchimista, 1995).