Per la prima volta si inaugura in Italia una grande antologica dedicata a Berenice Abbott. La mostra, curata da Anne Morin e terza di un ciclo dedicato alla Street Photography, si intitola Topografie e propone 82 scatti che coprono un arco temporale che va dalla metà degli anni Venti ai primi anni Sessanta.

Il percorso espositivo si articola in tre macrosezioni, i titoli delle quali - Ritratti, New York e Fotografie scientifiche - raccontano le tre grandi declinazioni dell’evoluzione artistica della Abbott, rendendo bene l’idea della variegata attività di questa originale artista. La Abbott era nata nell’Ohio ma a soli vent’anni, nel 1918, si trasferì a New York per studiare scultura. Qui la fortuna le sorrise attraverso alcuni incontri che si rivelarono molto importanti per il suo destino professionale. Entrò infatti in contatto con Marcel Duchamp e con Man Ray e con quel movimento dada del quale i due erano tra i principali esponenti. La relazione di amicizia con Man Ray, in particolare, diventò così forte che Berenice lo seguì a Parigi per lavorare a lungo come sua assistente alla camera oscura, tra il 1923 e il 1926, nell'atelier di Montparnasse. Ebbe modo così di conoscere da vicino artisti, scrittori e intellettuali come Jean Cocteau, James Joice, Max Ernst e André Gide. Affascinata dalla loro personalità si avvicinò alla fotografia in maniera molto naturale (“come un’anatra all’acqua”, dirà) realizzando alcuni ritratti destinati a diventare molto famosi. La Abbott, infatti, acquistò presto importanza. Posare davanti al suo obiettivo, racconterà la sua amica scrittrice ed editrice, Sylvia Beach, significa, a quei tempi, essere davvero qualcuno.

A questo punto Berenice era pronta per continuare la strada per proprio conto: aprì un laboratorio e nel 1926 espose i primi ritratti nella galleria Le Sacre du Printemps. Fu un altro incontro fortunato a introdurla al tema della città e del paesaggio urbano, quello con il fotografo francese Eugène Atget, che stava portando avanti un appassionato reportage dei cambiamenti del centro storico di Parigi, nel tentativo di documentarne l'aspetto originario e di conservarne il ricordo prima che andasse perduto per sempre. Proprio Berenice Abbott rese famoso il lavoro di Atget, acquistando, alla sua morte, gran parte dell’archivio (20 casse contenenti 1.400 negativi su lastra di vetro e circa 7.800 stampe) ed ereditandone la passione per la fotografia di strada ma soprattutto un nuovo modo di guardare il paesaggio urbano. Al racconto di Parigi e dell’Europa, sostituì però quello di New York e degli Stati Uniti.

I suoi reportage hanno inizio nel 1929. "L’America deve essere raccontata onestamente, con amore privo di sentimentalismo", disse. E infatti, in opposizione al movimento tardo-ottocentesco del pittorialismo, le sue foto sono prive di manipolazioni e correzioni e costituiscono ancora oggi una testimonianza importante di edifici o di interi isolati della vecchia Manhattan oramai scomparsi. Il suo era un lavoro senza pause. Omosessuale in un tempo di grande repressione, non avendo famiglia poté dedicarsi anima e corpo al suo più grande progetto: raccontare le trasformazioni della città a seguito della grande depressione. Grattacieli, insegne luminose, ponti in acciaio e altre architetture avveniristiche per l’epoca sono le grandi protagoniste dei suoi scatti, caratterizzati da prospettive dinamiche e forti chiaroscuri.

Il risultato è una raccolta tra le più celebri della storia della fotografia del XX secolo pubblicata nel 1939 in un volume intitolato Changing New York. Ma a questo punto è dietro l'angolo un'altra svolta. Nel 1944 Berenice Abbott diventò picture editor per la rivista Science Illustrated. Le sue fotografie scientifiche rendono evidente la bellezza nascosta nel mondo della natura e nei fenomeni chimici e fisici. Così soggetti come un fascio di luce che attraversa un prisma o come le bolle della schiuma di sapone o ancora come le immagini riflesse negli specchi parabolici prendono il posto dei paesaggi urbani. Da qui all’astrattismo il passo è breve.