Non ci sono regole nella pittura.

(Francisco Goya)

Simone Miccichè, classe 1989, è un giovanissimo artista che vanta già un’ampia e importante produzione insieme a numerose collaborazioni. Pittore, illustratore, designer, si è formato all’Accademia di Belle Arti di Firenze e il suo essere trasversale nelle arti e nelle tecniche gli permette di compiere una ricerca sia sulla realtà che sul medium stesso della pittura.

Miccichè non ama le etichette, né tantomeno sente la propria produzione legata a storicizzate correnti di ormai corrosa collocazione, come bene ci insegna il contemporaneo, più che mai, oggi, l’artista deve sentirsi libero di potere sperimentare il più possibile e al meglio ogni soggetto, tecnica o contesto, e Miccichè può liberamente sentirsi allineato con i propri tempi, vantando una grande qualità, differenziandosi per l’aspetto manuale e artigianale, se vogliamo analogico della propria poiesis. Miccichè infatti ama profondamente esplorare, indagare, ricercare, sperimentare sia i soggetti della sua pittura, che i supporti. In questa prima personale bolognese, nella giovane e frizzante Velostazione di Bologna, Dynamo, sono esposti i lavori dal 2009 al 2016, dalle prime opere in Accademia a quelle che l’artista ha portato avanti nella propria ricerca tra il luogo d’origine, un paese dell’Appenino Tosco Emiliano, Castiglione dei Pepoli, e i diversi viaggi tra l’Europa e gli Stati Uniti.

Come una lente di ingrandimento, la pittura di Miccichè si fa corpo di conoscenza del dettaglio, naturale, umano, oggettuale, che siano forme muliebri, animali, tessuti o luoghi di passaggio, la pennellata si fa precisa, intensa, puntuale, insieme a una raffinata tecnica mista, perlopiù a olio, i soggetti insieme al gesto pittorico stesso si fanno corpo vivo, un corpo abitato da quesiti e misteri, che occupa uno spazio sulla tela, ragionato, che diviene, altezza e spazio di riflessione. Non è casuale infatti trovare in molte opere il soggetto collocato in uno spazio verticale, o orizzontale, ampio, aereo, vuoto. Una campitura distesa come punteggiatura di equilibrio formale, di riflessione, di esercizio visivo.

Quando Miccichè ritrae corpi, perlopiù femminili, l’esercizio di disegno dal vero praticato durante gli anni di studio in Accademia si fonde ad altri riferimenti della storia dell’arte, anch’essi femminili, per citarne due dei maggiori da Frida Kahlo a Jenny Saville, insieme a una propria sensibilità affine a un preciso sentire, a una precisa percezione corporea. Il corpo femminile come luogo di difficoltà, di scambio, di forma, di origine, di sofferenza, di appartenenza, di cultura. Un corpo nudo, che si spoglia e si modifica nell’occhio dell’osservatore cedendo il passo alla memoria e alla sensualità. L'artista scivola sulle forme, e lo fa in maniera curiosa, quasi letteraria, come se dietro ogni pennellata ci fosse un deposito, una storia, un’intimità offertaci in punta di piedi, non palesemente confessata.

Quella notte scoprii il piacere inverosimile di contemplare il corpo di una donna addormentata senza le urgenze del desiderio o gli intralci del pudore.

(Gabriel Garcia Màrquez, Memoria delle mie puttane tristi)

Donne distese, in panneggi porpora all’ombra di un ricordo, oppure riprese per parti, come delle gambe socchiuse, intrecciate, spoglie, distese e accolte su un letto tra l’abbandono e il sonno, le ginocchia, i gomiti, i seni, i glutei, ogni profilo e curva si intreccia a una vibrazione tellurica e luminosa propria di una pennellata intrisa di bios. Corpi femminili e maschili a olio, ospiti e regine di uno spazio già citato, vuoto, terso, che sia verticale o orizzontale, come un'eco si propaga in campiture di colore, preciso, lineare, come nel trittico maschile e in Donna dove diverse tonalità di blu si dispiegano e i corpi eterei si presentano a noi come un’apertura. E anche qui la tecnica procede nella sua ricerca trasversale impiegando il tradizionale colore a olio e la vernice per auto, decisamente più inusuale.

Miccichè mantiene uno sguardo attento anche ai supporti, e si rivolge a materiali consistenti e corposi, come nei lavori su legno Civetta e l’Omaggio al mio vecchio tavolo da lavoro, dove recupera scarti lignei, nel primo caso da una discarica e nel secondo da un tavolo dismesso. L’artista riutilizza una fisicità consunta e la elegge a supporto per accogliere corpi di animali, quali civette, insetti, topi, uccelli. Se le teste vengono rese sotto l’effigie di un abile segno fedele, realistico, ecco che avviene una mutazione, una scansione, il corpo sottostante non è che un esoscheletro, bianco, dal segno grafico, quasi una scansione digitale, una costruzione geometrica astratta, che lascia luce e respiro su un’idea di perdita, di venuta meno, di riflessione e spazio, proprio come accade nelle campiture di colore in pittura. Nelle composizioni visive dell’artista infatti vige sempre un equilibrio visivo molto forte, e ragionato. Calibrato. Soppesato.

Corpo e spazio, come valori formali, come lenti micro e macroscopiche per indagare la realtà circostante, sono due leitmotiv nella ricerca artistica dell'artista, e questo succede anche quando i soggetti sono luoghi, come in Madrid, dove il particolare di una toilette di un ristorante madrileno, diviene corpo fantasmagorico, le mattonelle e le luci, sono anch’essi corpi, reduci di una pennellata che fa della presenza un’assenza, il gesto pittorico diviene intimo, personale, frutto di uno sguardo divenuto ricordo, lo spazio si fa fumoso, denso, speculare, e riflesso alcolico, come una suggestione nebulosa, densa come la curva del fondoschiena di una donna.

Nei lavori dedicati ai tessuti e alle texture, le ricerche sulla forma e sullo spazio che si fa colore, ritornano. I tessuti dipinti sono valori formali astratti, astratti perché la pittura di Miccichè si fa sintesi, lavora per sottrazione, cede respiro allo spazio, e all’assenza di barocchismi inutili, qui nuovamente il gesto diviene corpo, e la consistente oggettuale propria del soggetto si fa indagine di riflessione sulla costituzione dell’essere. Le trame, le pieghe delle stoffe, sono pelli, corpi, oceani opulenti di materia dove la stratificazione visiva si fa densa di significanza formale. La forma, significa, occupa, trionfa, si estende e si espande concedendo all’occhio di perdersi nei movimenti della pittura.

Miccichè è interessato però, anche, alla materia stessa, e questo è visibile in lavori come l’Omaggio a Penone dove la natura posta in dialogo con la cornice, elemento costitutivo dell’oggetto d’arte, sfugge, esce, supera i limiti spaziali prefissati. E proprio come Giuseppe Penone, l'artista ha l’esigenza di toccare, di lavorare, di collaborare, di confrontarsi, di stringersi e “connettersi”, di indagare la datità e la fenomenicità naturale. Gli ultimi suoi lavori, gli Intrecci, dimostrano quanto lo spazio e la materia lo interessino, come il corpo di entrambi siano indispensabili per la sua ricerca in costante crescita; difatti, in queste opere siamo di fronte al vuoto oggettivo della tela, dato dalla sua assenza, dinanzi a noi, gli unici soggetti sono la cornice e una tessitura incostante, come un velo di Maya, di cui intravediamo lo spazio senza percepirne a pieno il segreto, l’intreccio si dipana, lasciando la linearità del filo in tensione geometrica.

La pittura di Miccichè non ha regole, come ho introdotto con una citazione di Goya all’inizio, ma indaga con estrema cura nella realtà circostante, in perenne ricezione, è come una signora lontana che ci osserva, un personaggio di memoria letteraria: Affondava come una lama nelle cose; e al tempo stesso ne rimaneva fuori, osservava. Aveva l’impressione costante, anche ora guardando i taxi, di essere lontana, lontanissima, in mare aperto, e sola. Sempre aveva l’impressione che vivere anche un solo giorno fosse molto, molto pericoloso. (Virginia Woolf, La Signora Dalloway).

Vernissage l'11 marzo 2017, ore 18:30.